6 - A person from the past
And maybe we got lost in translation
Maybe I asked for too much
But maybe this thing was a masterpiece 'til you tore it all up
Running scared, I was there
I remember it all too well
- All too well, Taylor Swift
𝐂 𝐀 𝐓
Tornare a casa è sempre bello. Non importa quanto passa, se anni, giorni o solo poche ore, ma ogni volta che varco la soglia mi sento di nuovo la bambina di dieci anni fa che guardava "Gli Aristogatti" insieme a papà e a una grossa ciotola di popcorn.
Sono stata qui prima di partire per la vacanza a Miami, ad agosto, e oggi è il secondo lunedì del mese d'ottobre, che in Canada corrisponde al giorno del Ringraziamento. Io, Claire, Amy e Veronica siamo nate e cresciute qui, a Toronto, ma da due anni a questa parte viviamo a New York per via dell'università. Ognuna è con la propria famiglia a festeggiare, e questa è una delle cose per cui sono estremamente grata.
Sono ormai due anni e mezzo che mio padre frequenta Carol e da circa sei mesi convivono. Ha solo pochi anni in meno rispetto a lui ma ha invece due figli, Lexi e Max, rispettivamente di sedici e quindici anni, avuti dal matrimonio precedente che non è stato duraturo.
Ora, siamo tutti seduti a tavola ad ascoltare le folli avventure della gioventù di Carol e papà accompagnate dal dolce ai mirtilli che ha fatto lei. Proprio di mestiere fa la pasticciera e gestisce il negozio che si trova a due traverse da qui e dove lei e papà si sono incontrati.
«Non mi hai mai raccontato tutte queste cose!», gli faccio presente. «Da quando mio padre è stato un finto poliziotto a Las Vegas?!»
Carol ride. «Sembra Severus Piton a primo impatto, poi si rivela essere tutt'altro»
Lexi, seduta alla mia destra, alza un sopracciglio. «Mamma, ti ricordo che tu, da ragazza, eri Mercoledì Addams con i capelli biondi»
Lei e sua madre sono due gocce d'acqua: stessi capelli del colore del grano e occhi castani. L'unica nota differente è il fisico, dato che Carol è una figura più piena e formosa rispetto alla figlia che, praticando anche danza, ha linee praticamente perfette.
Carol spalanca la bocca. «Da ragazza? Vorresti dire che ora sono vecchia?»
Max le dà delle pacche amichevoli sulla spalla. «Succede quando arrivi ai quaranta»
Lui è il piccolo di casa, ma non lo considererei nemmeno tanto essendo alto già un metro e ottanta. Non a caso gioca a basket e da quel che so è anche uno spezzacuori. "Le ragazze sbavano quando si allena", mi ha raccontato Lexi.
Tenendo conto che ha quindici anni, quando ne avrà diciotto non ho idea di cosa succederà. Ha i medesimi occhi della madre e della sorella, stesso taglio e colore, ma ha una folta chioma castana a cui non pensa proprio di dare una sistemata.
Mio padre arcua un sopracciglio scuro. «Intanto quello che si comporta da quarantenne sei tu, Max, che passi l'intero pomeriggio a letto a guardare le telenovele spagnole», gli fa notare, battendo il cinque a Carol.
«Colpito e affondato, ragazzo», dice la madre. «E ora va' a lavare i piatti»
Max non obietta e io e Lexi lo seguiamo per dargli una mano. A catena di montaggio, lui sparecchia, io lavo le stoviglie e Lexi le asciuga. Carol e papà, invece, si godono il divano e accendono la televisione alla ricerca di qualche film da guardare.
«Ehi, Cat», mi richiama a bassa voce Lexi. «Dopo posso chiederti alcune cose?»
Sciacquo l'ultimo bicchiere e glielo passo. «Certo, di che si tratta?», le domando, mentre asciugo le mani con uno straccio.
Le sue guance si tingono appena di rosa. Lancia uno sguardo a sua madre, presa a guardare e commentare Pretty Woman, e si mordicchia il labbro.
«Beh, di certe cose», rimarca bene.
Oh.
Annuisco e le faccio cenno con la testa di seguirmi nella camera padronale, dove dormono i nostri genitori, dato che nella sua – e che un tempo era mia – c'è Max, con cui condivide lo spazio. Mi chiudo la porta stando attenta a non far rumore e poi ci accomodiamo sul letto: lei contro la testiera, a gambe incrociate, e io a pancia sotto.
«Allora...», la incito io. Lexi s'infila le ciocche bionde dietro le orecchie, probabilmente per ammazzare l'imbarazzo. Le sorrido. «Puoi dirmi quello che vuoi, non ti preoccupare.», la rassereno.
Prende un bel respiro e poi comincia a raccontare. «Vedi, a scuola c'è un ragazzo», comincia a dire.
«E' più grande?», chiedo con un sopracciglio alzato. Sono sempre quei tipi che puntano le ragazzine e quando andavo io al liceo non li sopportavo proprio.
«Si, e gioca nella squadra sportiva», aggiunge.
O Dio Santissimo, quelli della peggior specie!
«Ecco, per una serie di amicizie in comune, abbiamo fatto conoscenza e stiamo uscendo assieme da due mesi», mi racconta.
«Tua madre lo sa?»
Nega. «Ho paura che mi vieti di vederlo perché per lei sono troppo piccola. Non a caso sono l'unica ad avere il coprifuoco alle dieci, perché nessuna delle mie amiche lo ha!», esclama, leggermente irritata.
Come la capisco. Anch'io odiavo avere regole, è una fase immancabile dell'adolescenza.
«E' un classico di molti genitori, fidati. Ti vuole bene e vuole proteggerti, ma non dovrebbe vietarti di fare esperienze. Se vuoi le proverò a parlare», le propongo.
«Sì, per piacere, te ne sarei immensamente grata», mi prega con le mani giunte. «Ogni volta che tento finiamo per litigare»
Mi esce una mezza risata, poso la guancia contro il palmo. «Torniamo all'argomento principale»
«Ehm, sì, Kyle», riprende. «Come già immaginerai, lui è pratico nell'avere ragazze e nel baciarle e nel...», gesticola senza trovare una parola adeguata.
«Toccarle?», suggerisco.
«Sì, esatto. Ci siamo già baciati varie volte, ma lui non si limita solo a quello...», dice con aria sconsolata.
Tiriamo a indovinare. «Non ti senti pronta per andare oltre o forse non ti senti esperta quanto lui e hai paura di fare qualcosa di sbagliato?»
«Entrambe», afferma, poi punta gli occhi castani su di me. «Tu che ne pensi?»
Mi sistemo meglio sul letto, poggio la schiena alla testiera e giocherello con le frange di un cuscino. Avere sedici anni significa entrare a contatto anche con la sfera sessuale, e quando si parla di prime volte è difficile, nonostante però i concetti siano abbastanza semplici.
«Su una scala da uno a dieci, questo Kyle, quanto ti piace?», le chiedo. Ho bisogno di dati per fornire una risposta adeguata.
«Sette e mezzo», dice, riflettendoci. «Mi tratta bene ed è sempre gentile con me. Ci scriviamo tutta la notte e dice che non fa nulla se non andiamo oltre al baciarci»
Non so se è perché ho perso fiducia nel genere maschile o il fatto che, a soli dodici anni, lessi After per la prima volta e restai allibita dal finale, ma i ragazzi mi spaventano. Molto. Però non è la mia opinione a contare, ora.
«Non posso dirti cosa fare, perché spetta a te sapere quando sei pronta, ma posso darti un piccolo consiglio, Lexi: fallo con qualcuno per cui tu provi veramente qualcosa. Se è la persona giusta lo senti, perché è una cosa che desideri ardentemente. E poi, ad un certo punto, ti sembrerà la cosa più naturale del mondo», mi esprimo francamente, ricordando la mia prima volta.
A discapito di tutto ciò che è successo, non me ne pento, perché in quel momento ero consapevole di essere veramente innamorata.
«E non avere paura di essere inesperta, tutti lo sono all'inizio. Pensa che io non riuscii a slacciare la cintura, e per sbaglio la strinsi», ridacchio al solo pensiero. «Il sesso va oltre il solo piacere fisico, e se ti senti a disagio la vivi molto male», proseguo. «Per questo ti dico di non avere fretta, anche perché questo tale lo conosci relativamente da poco», le faccio notare. «Frequentalo, conoscilo bene, magari lo presenti a tua madre!», esagero. «Ma non accelerare le cose, perché poi ti potresti schiantare e finire come Paul Walker»
Lexi annuisce e mi sorride grata. «Sai, sono felice che tu sia mia sorella», mi confessa. «Se avessi altre domande...»
«Chiamami quando vuoi», le dico senza esitare. Poi mi si accende una lampadina. «Oh, e non farlo senza protezioni!»
Improvvisamente la porta viene spalancata e Carol compare sulla soglia, interrompendo così i nostri discorsi. Punta le mani sui fianchi e si finge offesa. «Ehi, mi escludete dai gossip fra donne!»
Entrambe ci alziamo dal letto e io le dico: «Non ti preoccupare, Carol, tanto avevamo finito. Piuttosto, prima che me ne vada, possiamo dirti un paio di cose?»
Scambio uno sguardo d'intesa con Lexi, che recepisce ed esce dalla camera, lasciandoci da sole.
Carol è già sospettosa. «Che succede qui?», chiede infatti. La cosa che mi piace di lei è che prende le cose con molta calma.
Mi avvicinino a lei e incrocio le braccia al petto. «Be', parlavo con Lexi e mi stava raccontando del fatto che si sente un po' in gabbia per via delle tue regole...»
Sospira, capendo di che cosa parlo. Immagino solo quante volte abbiano dovuto affrontare il discorso. Io, con mio padre, ho impiegato mesi prima di convincerlo a estendere il mio coprifuoco fino alla mezzanotte.
«Non è che io voglia tenerla sotto una campana di vetro», premette. «E' solo che mi fa paura il mondo là fuori, e lei ha solo sedici anni»
Io mi appoggio alla cassettiera. «Ti capisco, Carol, e ti do pienamente ragione. Il punto è che se la limiti troppo finirai per privarla di alcune esperienze. Lexi è una brava ragazza ed è intelligente e tutto quello che ti chiede è di essere un tantino più accondiscendente», provo a farle capire.
Tutti i rapporti tra genitori e figli sono complicati, ma la chiave sta nel venirsi incontro.
«Magari potresti cominciare ad allungarle il coprifuoco», accenno.
Carol ridacchia e scuote la testa. «Sapevo dove andavi a parare», mi dice. «Ma... hai ragione, devo cominciare a lasciarla andare. Almeno prima che decida di passare all'anarchia»
«Un passo alla volta», le consiglio. «Farà bene ad entrambe. Tu permettile di darti fiducia e vedi che lei non ti deluderà»
Annuisce, poi sorride. «Grazie di avermene parlato»
«Siamo una famiglia, no?»
Mi guarda con orgoglio. «Hai ragione». Posa una mano sulla spalla e aggiunge: «Inoltre sono certa che farai carriera, Cat»
Sapere di avere tanta gente che crede in me è forse la soddisfazione più grande. Rendere fiere le persone a cui voglio bene mi rende contenta, è una ricompensa per tutto il lavoro svolto.
Mio padre si affaccia nella stanza. «Ehi, mi avete lasciato da solo a guardare il film»
«Scusa amore, adesso torniamo»
Do un'occhiata all'orologio da polso, che segna le sei e un quarto. «Vorrei poter restare, ma avevo promesso ad alcuni amici di fare un brunch insieme», gli confesso.
Le solite rimpatriate del liceo. Se non ci fossero i social penso che nessuno rimarrebbe in contatto per organizzare questi eventi.
«Oh, no, che peccato!», esclama Carol, profondamente dispiaciuta. «Lascia però che ti dia la torta che avanza, insisto!»
La seguiamo in cucina e papà si lamenta dicendo: «Tutta tutta?»
Carol, che adopera con il dolce, lo guarda male. «Si, Phil, altrimenti la faresti sparire nell'arco della nottata»
Ridacchio e gli assesto una gomitata amichevole. «Papà, sei un ingordo!»
«Che vuoi farci, vivo con una pasticciera!», si giustifica.
Recupero la mia giacca di pelle e la borsa dall'appendiabiti e Carol mi porge un sacchetto. «Mi dispiace aver buttato quel divano-letto!», mi ripete per l'ennesima volta.
Dopo essersi trasferiti qui, la mia camera è diventata quella di Lexi e Max e un posto per la notte per me non c'è. Ovviamente potrei accamparmi sul divano, ma perché arrangiarsi se con soli cento dollari posso alloggiare in una camera d'albergo?
«Non fa nulla, Carol, davvero. E poi erano saltate tutte le molle a quell'affare, hai fatto bene», le dico. Infilo il sacchetto nella borsa e lei mi scocca un grosso bacio sulla guancia.
«Devi tornare più spesso», mi suggerisce.
Papà mi abbraccia e, come se avessi ancora cinque anni, mi scompiglia i capelli. «Ciao, tesoro»
Saluto Max e Lexi, e a lei faccio due pollici in su. «Missione compiuta»
Felice come una pasqua, mi getta le braccia al collo. «Grazie, grazie, grazie!»
«Ora però devi fare la brava, e ricorda tutto quello che ci siamo dette»
Assume la posa di un soldato. «Si, signora»
Dopo i convenevoli, mi dirigo alla porta con papà che mi dice di avvisarlo quando sono in albergo.
Esco dall'ascensore e mi avvio verso il portone. L'androne è vuoto, fatta eccezione per una persona che sta gettando l'immondizia nei cassonetti della raccolta differenziata.
Lui si volta e il mio corpo si congela sul posto, le mani mi tremano e la gola si secca. Anche lui sembra essere a corto di parole, ma una sola riesce a sfuggirgli dalle labbra. «Cat...»
Sono passati due anni dall'ultima volta che gli ho rivolto la parola – o meglio, che gli rigettato addosso tutto lo schifo che provavo per lui. Avevo scoperto che quell'estate, quando sono partita per il campo estivo, dopo nemmeno due giorni dalla mia partenza, lui non aveva esitato a spassarsela con un'altra ragazza.
Inutile dire come mi abbia fatto star male. Un anno e mezzo di relazione e i momenti più belli della mia adolescenza buttati nel cesso.
È tutta colpa di Colin Mitchell se ho paura di innamorarmi ancora.
Non l'ho mai voluto sentir parlare, perché dovrebbe accadere adesso?
Abbasso la testa e tento di superarlo, pronta ad andare via, ma lui mi afferra il braccio e mi fa voltare verso di sé. I capelli neri sono acconciati nel solito ciuffo, ma gli occhi castani non sono gli stessi che mi piacevano una volta.
«Come stai?», domanda.
Ah, ora gliene frega qualcosa?
Sfuggo alla sua presa. «Non è più una cosa di tuo interesse», gli sputo contro con acidità.
Provo a raggiungere il portone, che pare essersi allontanato di svariati metri da me, tant'è che Colin mi si pone davanti in tutto il suo metro e novanta.
Fottuto giocatore di basket dei miei stivali.
«Possiamo parlare?», mi implora. «Non me lo hai mai permesso in tutto questo tempo»
È vero, l'unica ad aver avuto voce in capitolo sono stata io. Il giorno stesso in cui sono rientrata, dopo ore di viaggio in macchina, mi sono fiondata direttamente a casa sua e gli ho sparato contro tutto quello che pensavo. E, per quanto avesse insistito, io non glielo avevo mai concesso. Non volevo sentire altro da un bugiardo come lui.
«Hai veramente qualcosa da dire, Colin?», gli chiedo.
Perché se si tratta delle sue scuse del cazzo e del suo dispiacere, be', non me ne faccio nulla. Non potrà sistemare le cose così, purtroppo.
«Sono stato un grandissimo stronzo con te e, che tu mi creda o no, passo ancora notti insonni a causa di quello che è successo», mi confessa. «Dammi almeno la possibilità di provare a farmi perdonare, te ne prego»
Perdono.
Il perdono, psicologicamente parlando, è la capacità di comprendere e accettare le situazioni passate e consentire così di liberarsi dal peso emotivo che ci circonda. È un atto che sfida le nostre stesse convinzioni essendo che ci vuole una grande forza d'animo per mettere da parte la rabbia e il rancore verso chi ci ha fatto soffrire.
Come invece mi ha insegnato Amy, perdonare qualcuno significa porre fine a ogni conto in sospeso, offrendo la possibilità di lasciarsi il passato alle spalle per guardare avanti.
Forse è questo quello che mi serve: tagliare definitivamente i ponti. Effettivamente, è come se le cose fra di noi fossero in sospeso da quel momento.
Annuisco, mantenendo però un'espressione distaccata. «Ti do quindici minuti, non di più. Ho da fare»
Appare visibilmente consapevole. «D'accordo. Per lo meno possiamo sederci? Casa mia è al primo piano»
Sì, lo ricordo bene.
Incrocio le braccia al petto per resistere alla tentazione di mangiarmi le pellicine delle dita e mi incammino verso il primo piano salendo due rampe di scale. Mentre Colin gira le chiavi nella serratura, i ricordi cominciano ad assalirmi.
Qui, a Natale, sotto il vischio, ci siamo baciati per la prima volta dopo mesi di stupidi giochini. Le cose facili sono sempre state noiose, e Colin l'ho davvero fatto penare.
Mi fa entrare in casa e richiude la porta prima di lanciarsi in cucina. «Ho fatto il caffè, ne vuoi un po'? Lo prendi ancora con mezza bustina di zucchero?», ridacchia.
Al posto dello stomaco ho una voragine. Non sa quanto male mi sta procurando stare qui, dove ogni cosa parla di quello che siamo stati. Su quel divano guardavamo film che poi lasciavamo a metà per baciarci, poi mi portava in camera da letto e finivamo senza vestiti sotto alle coperte.
«Tua madre non c'è?», gli domando, evitando di rispondere al quesito precedente.
«No, si è trovata un appartamento in centro più vicino al lavoro», mi dice. «Questa l'ha lasciata per me, per quando torno in città»
Anche lui, come me, è uno studente fuori sede e se non vado errato è stato preso alla UCLA, l'università della California a Los Angeles.
Mi giro verso di lui. Colin si poggia al fornello e prende un sorso dalla sua tazza di Winnie the Pooh che, per inciso, gli regalai per il nostro primo – e ultimo – San Valentino.
Mi accomodo sulla sedia e lo fisso in attesa che dica qualcosa. «Hai altri dieci minuti», gli faccio notare.
Abbassa la tazza e ci picchietta un dito contro. Il serpente che ha inciso sulle nocche risale e avvolge il braccio, decorato da altrettanti tatuaggi che scompaiono sotto l'orlo delle maniche della maglietta nera.
«Sono anni che rifletto su questo discorso, ma ora non so nemmeno da dove partire...»
Stronco questa sua docilità sul nascere. «Da quanto andava avanti la storia con quella bionda?»
La sua esitazione è già una risposta. «Tre mesi», risponde.
Dio, e in tutto questo tempo ho avuto i prosciutti sugli occhi? Come ho fatto a non accorgermene?
Credo che possa leggere il disgusto sul mio volto.
Inizio a capire forse perché non volessi parlargli: non volevo risposte. Sentire la verità, come sta accadendo adesso, mi avrebbe fatto ancora più male. Il dubbio che fosse stata una scopata da una notte e via era molto meglio di sapere che il loro rapporto si protraeva da così tanto.
Mi alzo di scatto e mi avvio alla porta. So anche troppo, posso anche andarmene. Provo ad aprire ma Colin richiude l'uscio, il suo corpo a pochi centimetri dal mio.
«Vaffanculo!», grido spintonandolo ripetutamente. «Vaffanculo, perché io ti amavo!»
Ed eccole le lacrime.
Mi stringo nelle spalle. «Perché?», chiedo con la voce ormai spezzata. «Ho sbagliato qualcosa?»
Mi blocca per le braccia e mi guarda dritta negli occhi. «No, piccola, non hai sbagliato nulla tu.», mi assicura in tono dolce. Le sue mani scivolano sul mio viso e sono così stanca che non rifiuto il contatto. Poggia la sua fronte sulla mia. «Io ho commesso un errore e... e sono stato un cretino a lasciarti andare. Scusa», dice. «Perdonami», aggiunge.
«Io ti amavo», ripeto.
«Anch'io ti amavo»
Mi brucia talmente tanto la gola che non so più che dire. Me ne resto così, ferma, mentre passa lo sguardo da me alle mie labbra. In questo istante non provo assolutamente nulla. La distanza si assottiglia a mano a mano e la sua bocca incontra la mia, ma questo bacio ha un sapore malinconico. Mi spinge contro la porta e s'insinua sotto il maglione. Le dita fredde entrano a contatto con la mia pelle calda e causano un brivido che mi riscuote. E improvvisamente torno ad avere diciassette anni e mi lascio trascinare nel vortice delle pessime scelte.
༄.✩*
Spazio Autrice🌟
"La minestra scaldata non è mai buona", si dice. Ma noi esseri umani cediamo anche alle tentazioni talvolta.
Lasciate una stellina se vi è piaciuto il capitolo (perchè nel prossimo ci sarà da buttarsi sotto un treno)
Un bacio <3.
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