o. prologo²

( M A N I A )

Dall'altro lato del Mare della Serenità, c'era l'Isola degli Sperduti. Una macchia desoltata, marrone, con perenni nuvole grigie a fluttuare nel suo cielo. Prigione dei più grandi criminali della storia, un posto oscuro e tetro, rumoroso e invadente.

Quel giorno, non volava una mosca.

"Ed ecco le porte aprirsi! Cammina a testa alta il nostro futuro re! Solo pochi attimi, adesso, lo separano dalla sua incoronazione! Non lo trovate estasiante?".

Mania prese il telecomando e abbassò il volume della TV, storcendo il naso, la voce stridula della reporter di Auradon che le stava facendo venire il mal di testa.

Sua madre e Snoops erano alla locanda di Ursula insieme a una buona parte est dell'Isola, incollati al televisore. Ovviamente, Mania era dovuta rimanere in negozio. Sua madre si irritava se non c'era nessuno a controllare la merce, e di chiudere non se ne parlava. "Devono sapere che qui c'è sempre qualcuno, quei morti di fame".

Certo, avrebbe potuto lasciare i coccodrilli, ma loro le servivano.

"Andiamo, pasticcino, possiamo arrivare a un buon contromesso. 5 monete d'oro come rimborso mi sembra più che equo!".

La ragazza adocchiò per l'ennesima volta l'orologio in finto ottone, un po' arrugginito e con le pile scariche.

L'aveva venduto ad uno dei pirati della cricca di Uma circa una settimana prima, e il rompicoglioni non aveva smesso di ripassare ogni giorno a lamentarsi di come fosse stato truffato.

Truffato sull'Isola degli Sperduti. — aveva pensato Mania. — Nessuno se lo sarebbe mai aspettato.

"Cosa vuoi che ti dica?" sbuffò. "L'hai pagato. È passata una settimana. Non l'hai visto il cartello all'ingresso? 'Sta scritto grande così. Vero, Milt?".

"Niente rimborsi!" recitò Milt dal pavimento, intento a scarabocchiare dei dinosauri su qualche vecchio libro che forse un tempo era stato magico, ma adesso era buono solo a prendere polvere.

"E quello vecchio?", insistè il pirata. "Non lo posso riavere?".

"Eh, e come no". Con la coda dell'occhio, Mania scorse la corona venire posata sulla testa del principe Ben, nello schermo malandato della TV. "Quello l'ho venduto".

"Allora il rimborso me lo faccio da solo!" ringhiò il pirata, la mano che scattava alla spada che portava su un fianco.

Mania alzò gli occhi al cielo. Tipico.

"Senti, dolcezza, non—".

BOOM!

Un boato squarciò l'aria, potente, un'ondata di energia che mandò le finestre del negozio di Madame Medusa in mille pezzi.

Milt strillò, portandosi le mani alle orecchie.

Mania si aggrappò al banco di legno, mentre il terreno iniziava a tremare, la merce sugli scaffali che scivolava giù, fracassandosi sul pavimento.

Il pirata si guardò intorno, terrorizzato, e prima che qualcuno potesse fare qualcosa, afferrò alcune monete e corse fuori dalla porta.

"Ehi!" esclamò Mania, gettandosi dietro di lui. "Dove cazzo—".

Nelle strade era il caos.

La gente urlava, correva alla ricerca delle proprie cose, persone che gridavano e indicavano il cielo, a bocca aperta, indemoniati.

Mania seguì il loro sguardo e le manco la terra da sotto i piedi.

Poteva vedere il cielo. Era blu, e limpido, all'orizzonte si stagliava un tramonto mozzafiato. Per un secondo pensò di star sognando. Poi, tra le nuvole in lontananza, scorse un'unica scia verde, come una stella cadente che si avvicinava ad Auradon sempre di più, di più, di più, finchè—

"Mania!". Milt le corse accanto e l'abbracciò una gamba, gli occhioni scuri pieni di lacrime e il moccio che gli colava dal naso.

Mania non lo guardò. Non poteva farlo. Il cuore le batteva all'impazzata.

Le urla che sentiva erano urla di felicità. Un pandemonio di gioia, un coro di "Siamo liberi! Siamo liberi!" che le rimbombava nelle orecchie.

Era vero, era reale. Non una delle stupide fantasie di sua madre.

La barriera non c'era più.

Non riusciva a muoversi, la gente le veniva addosso, la spintonava. L'aria fresca le intorpidiva il cervello, le rendeva difficile ragionare.

Ci furono degli scoppi di cannoni e Milt strillò di nuovo, ma era solo la Jolly Rogers, Uncino che levava l'ancora per la prima volta in vent'anni. Poco distante, scorse Ade uscire dal suo antro con le mani accese di blu. L'aria sfrigolava di energia.

Qualcuno le afferrò il braccio. Sentì delle unghie infilarsi nella carne. Si girò, e vide sua madre. I capelli arancioni scompigliati, gli occhi verdi e folli. Le urlò qualcosa, ma gli arrivò sommesso, sovrastato centinaia di grida uguali.

"Dobbiamo muoverci! La Palu-mobile! Prendi la Palu-mobile! Muoviti! Muoviti!".

La trascinò per un braccio, Milt lasciato a suo padre, e si rifiondarono nel negozio.

"Prendi tutto! Tutto, tutto, tutto! Oh, siamo liberi, figliola! Liberi! Liberi da quest'isola di ratti! Di imbecilli!". Mania era ferma, e guardava sua madre come se le fossero spuntate le corna. Pazza, completamente pazza. Questa era la Madame Medusa della storia, colei che le aveva fatte finire lì. E non la finiva di ridere.

"Anzi, no! Non prendere niente! Lascia tutto! Tutto!". Lasciò cadere a terra un vaso che reggeva sotto braccio e Mania sobbalzò. Fino a cinque minuti prima, per una cosa del genere l'avrebbe presa a bastonate. "Solo porcherie! Cianfrusaglie! Rottami! Vieni, tesoro, vieni! Abbiamo un mondo intero da depredare!".

E si precipitò fuori di nuovo, un uragano di follia.

Non seppe come, ma dieci minuti dopo era sulla della Palu-mobile e sfrecciavano a tutta velocità, verso il ponte incantato, incuranti delle persone che intasavano le strade dell'Isola.

Il vento le sferzava il viso, aria fresca e pulita, il calore del sole che le ballava sulla pelle come mai aveva percepito prima, mentre sua madre stirllava a tutti di togliersi dai piedi, maledizione.

L'Isola era viva, diversa, un confine tra est e ovest che si era rotto nell'esatto momento in cui la barriera era scomparsa sopra le loro teste. Ladri e traditori che correvano spalla a spalla con streghe e usurpato di regni interi. Ugualmente folli, ugualmente disperati. La libertà li aveva resi deliranti.

Vide il Dottor Facilier scomparire nelle ombre insieme alle sue figlie, Ursula gettarsi tra le onde con Uma al suo fianco, Maga Magò trasformarsi in un drago paffuto e volare via con Maddy tra le zampe. Vide alcuni dei servitori di Malefica che insieme ad una folla enorme intasavano la strada principale, diretti tutti verso la stesa meta.

Era ridicolo. Impossibile.

Guardò in basso: stava percorrendo un ponte di mattoni dorati, trasparenti, sospeso a 100 metri dall'acqua e che si estendeva per 50 kilometri, fin dentro i confini di Auradon. In lontananza, il castello della Bestia era circondato da nuvole nere e verdi.

Era un sogno.

Era un incubo.

Un'orda di Cattivi si riversò per le strade di Auradon come una forza inarrestabile. Una folla impazzita, urlante, senza pietà.

Erano come lupi, morti di fame, una macchia nera e rossa, sporca e infinita come l'odio che avevano accumulato in quegli anni, che si muoveva contro dei puntini bianchi e rosa, puliti e impotenti, impreparati ad un destino così crudele, improvviso: una storia di paura raccontata ai bambini che diventava realtà davanti ai loro occhi. Divoravano tutto quello che si trovavano davanti.

Auradon era verde. Era blu. Era giallo. Era un tripudio di colori che Mania non avrebbe mai considerato reali.

Milt era avvinghiato a lei, e si guardava intorno con occhioni pieni di meraviglia, a bocca spalancata, come se riuscisse solo a vedere il bello e le urla di terrore dei Buoni fossero qualcosa di familiare, normale, ma al contrario quel paesaggio non lo era. Gli alberi dei suoi disegni erano tutti ingrigiti.

Snoops prese il bambino per un braccio e lo trascinò via.

Sopra ogni grido eruppe un ruggito, e un'ondata di animali comparve imbizzarrita, Scar a guidarla. Bruto e Nerone dovevano aver seguito sua madre, perchè poco dopo comparvero anche loro, ignorarono Mania e si gettarono all'inseguimento di un uomo con un fermacravatta d'argento, che scappò terrorizzato.

Sua madre spaccò un vetro di un negozio, una gioielleria, afferrando una collana di smeraldi e gliela porse.

"Ora, tesoro, ci vendichiamo".

L'immagine malandata della TV non rendeva giustizia al posto. Una chiesa da sola grande come metà della zona Est. Guglie e vetrate che sanguinavano bellezza, cura, lusso.

Mania si sentì venire la nausea, ma non era per la puzza di sangue.

"Miei signori," nonostante il rumore, la voce bassa e dolce di Malefica raggiunse ogni angolo della sala.

Mania non aveva mai visto così tante persone radunate in un unico luogo chiuso, così tanti Cattivi. Non aveva mai realizzato quanto fosse sovraffolata l'Isola, prima.

Sua madre si face largo a spallate.

"Solo nei miei sogni più sfrenati avrei immaginato di ritrovarmi davanti a questa vista. Anni, mesi, notti, passati a guardare fuori da una finestra, verso il mare, gli occhi fissi su quel castello in lontananza che per decenni ci ha deriso all'orizzonte. Se voi siete qui con me, adesso, sono sicura che abbiate condiviso gli stessi pensieri. Pensieri di vendetta, di odio, di rabbia. Rinchiusi in una gabbia che il nostro Re—" pronunciò la parola con un tono di scherno, quasi fosse una battuta. "—è stato così tanto generoso da regalarci".

E indicò con un elegante gesto del braccio un'uomo vestito in oro e blu — Re Adam, fornì una vocina nella testa di Mania — le braccia saldamente avvolte intorno al corpo della moglie. Entrambi pietrificati in un ultimo disperato abbraccio. Appena dietro di loro, la Fata Smemorina aveva la bocca ancora aperta in un'incantesimo a metà.

Malefica sorrise, e la folla sembrò quasi seguirne l'esempio: "Una vista che non saremo mai più costretti a ritirare, oggi, grazie al dono che mia figlia ci ha fatto."

Affianco a lei, Mal era ancora avvolta nell'abito lilla dell'incoronazione. Una principessa con gli occhi verdi dei mostri. Non si mosse, forse non aveva sentito. Dietro di lei, gli altri quattro ragazzi affiancavano i rispettivi genitori. Mania vide Jay, figlio di Jafar, nonché l'unico di loro che conosceva, e le parve di poterci guardare attraverso. Come un'illusione, come se il suo corpo fosse lì ma lui fosse ben lontano. Si concentrò sugli altri e le parve di poter fare lo stesso.

Era calato un velo sui loro occhi, molto diverso da quello pesante e intrepidante che Mania sentiva invece avvolgerle le spalle.

"Mentirei se vi dicessi che sarà facile adattare questo mondo ai sogni che hanno decorato le nostre notti sull'Isola. Ma di certo non sono più quello, sogni. E così come questi sono mutati nell'esatto momento in cui la barriera è caduta, così noi dobbiamo adattarci di conseguenza". La Signora del Male osservò la folla con occhi calcolatori. "Auradon è vasto. Potente. Antico. Con quei sogni diventati realtà lo è diventata anche la guerra. Ed è questo ciò che vi chiedo questa sera: unità. Mettete la vostra forza, i vostri incantesimi, la vostra astuzia, al mio servizio e vi prometto ciò che vi ho sempre promesso in questi venti lunghi anni".

L'inquietudine nella sala era palpabile, le loro malconce alleanze reggevano a mala pena sull'Isola, ma qui si parlava di qualcosa di molto più grande.

Mania si schiarì la gola, un suono che riencheggiò nella sala silenziosa.

"Là fuori vi aspetta la vendetta".

La figlia di Medusa non reagì. Cose di quel genere non significavano niente per lei, ma quelle parole sembrarono smuovere qualcosa negli adulti.

Dietro le pieghe dell'abito nero della Regina del Male, i morbidi boccoli d'oro della Bella Addormentata erano sparsi sul pavimento.

"Cattivi," Malefica sorrise. Trionfante. Brillante. Estasiata. "Il mondo è nostro."

Quando uscirono, il sole era tramontato ed avevano già appiccato i fuochi.

"Mamma . . ."

"Dopo parliamo," disse Medusa, senza guardarla. "Adesso ho da fare". E partì insieme agli altri, mentre Bruto si voltava verso di lei e faceva schioccare le fauci, beffardo, prima di seguirla.

A Mania andava bene. La barriera scomparsa non avrebbe significato più attenzione da sua madre. Semmai esattamente il contrario.

Quella notte, nessuno dormì. I Cattivi erano famelici, correndo per le strade come i diavoli, distruggendo le macchine, rincorrendo i fuggitivi. Molti eroi erano riusciti a tornare a casa, ma non tutti, e i Cattivi li cacciarono come topi. Alcuni portarono con sé i loro figli, molti no. Racconteranno di come Malefica aspettò l'alba per fermarli, lasciando che si divertissero, intervenendo con un sorriso divertito, soddisfatto, mentre la Bestia veniva frustrata e la fata derisa in piazza.

"Dovremmo pure lasciare qualcosa su cui regnare", aveva detto, mentre i Cattivi scoppiavano in una sonora risata. Mania non rise, prese Milt e seguì alcune delle sue vecchie conoscenze dell'Isola, per decidere dove andare.

Occuparono una scuola — l'Auradon Prep, lesse Mania su un cartello. Che ironia. — i dormitori dei figli dei buoni per dormire.

Nessuno pensò di tornare all'Isola, anche se il ponte era ancora aperto. La paura di svegliarsi e restare chiusi era troppo grande.

Così, per le successive notti, i figli dei Cattivi si sarebbero sistemati lì, mentre i loro genitori davano vita ai loro sogni e sedavano la loro sete di vendetta.

Mania ci mise circa 30 secondi a decidere che doveva vivere così. In una stanza larga, con un letto grande quando il simil-sgabuzzino in ci dormiva a sull'Isola. Lenzuola di flanella, morbide e pulite, un riscaldamento costantemente a lavoro nei muri che faceva sembrare l'inverno fuori dalle finestre uno scherzo della sua immaginazione.

"Mania" la chiamò Milt. "Possiamo tornare a dormire a casa?".

"No."

"Il letto è troppo morbido."

"Ti ci abituerai".

Passò un minuto di silenzio in cui sissntirono solo le grida deliziate degli altri ragazzi, giù per il corridoio.

"Ma non ci torniamo più?".

Mania sentì un groppo chiuderle la gola, gli occhi che volavano a catturare ogni dettaglio di quella stanza così incredibile.

"No."

"E i miei giochi?".

Un peluche e un pacco di matite consumate. Mania sentì un moto di risentimento. "Te ne prenderò di nuovi."

Voglio tutto questo, pensò. Voglio vedere come festeggiano tutta la notte, annegando nel lusso. Come vivono sapendo che sono circondati da muri così spessi, coperte così pesanti. Con l'aria così costantemente carica di magia che le faceva rizzare i capelli in testa.

Alla fine, Milt si addormentò, ma la notte non fu così tanto gentile con Mania.

Si rinfilò la sua giacca rossa e uscì.

L'Auradon Prep distava una ventina di minuti a piedi dalla periferia della città.

Mania non sapeva perchè avesse deciso di tornarci, specialmente lasciando Milt da solo. Ma i muri della scuola erano troppo spessi, c'era troppo silenzio, troppo calore. In un certo senso l'aria fredda e le urla in lontananza all'esterno erano abbastanza familiari da calmarla.

Le strade erano stranamente deserte, fatta esclusione per alcune case, automobili bruciate, negozi distrutti, depredati.

Mania camminò per un po' senza una meta, un peso sul petto che non riusciva del tutto a decifrare. Le strade dei Buoni erano strane, ordinate, piene di vita nonostante un'orda di disperati fosse arrivata a distruggerla. Era come se la terra stessa si autoalimentasse, traendo energia da una forza invisibile. Magia.

Un urlo improvviso le fece sollevare la testa, ma non fu quello ad attirare la sua attenzione. Era un manifesto, così tanto simile a quelli di propaganda che tappezzavano l'Isola, ma molto più grande e annunciante qualcosa di diverso.

"La Storia del Male: artefatti e oggetti magici. Museo di Storia Culturale. 67th Avenue, Auradon City. Venite a trovarci!".

Forse era la noia. Forse una stupida curiosità. O forse un ancor più stupida speranza.

Cambiò strada. L'asfalto era leggermente bagnato sotto le sue scarpe. Girò un paio di isolati e si fermò, un edificio grande quanto la Serpent Prep, sull'Isola, illuminato da piccoli faretti che ne percorrevano il circondario.

La porta del Museo era già spalancata.

Cazzo.

Vi passò attraverso, guardandosi intorno in allerta, ma l'edificio era deserto.

Sarebbe stata una cosa veloce, giusto abbastanza per zittire quella voce nella sua testa che le diceva che forse— forse—

Era lì. Dietro una teca.

L'Occhio Del Diavolo era grande come la sua faccia. E per la prima volta Mania capì cosa sua madre intendesse quando parlava del potere che dava a chi lo possedeva. Una gemma perfetta. Chiunque lo aveva fra le mani, era la persona più ricca del mondo.

Spaccò l'espositore con un calcio. L'allarme non scattò.

È solo un sasso, pensò Mania, risentita. Sua madre era finita nell'Isola per questo. Aveva rapito una bambina per prenderlo, era stata la sua ossessione per vent'anni e tutti quelli precedenti, un sasso, mentre i grandi cattivi lottavano per i domini del mondo.

Se lo infilò in borsa per resistere all'impulso di scaraventarlo contro una vetrata.

Sua madre la riempì di baci. Non l'aveva mai vista più felice di così, più eccitata. "Il mio tesoro!" disse, e Mania sapeva che si stava riferendo al diamante.

Nel primo mese, il mondo era un disastro.

Con il Re Adam e Belle morti, il Regno di Auroria fu il primo a cadere. Non ci fu una conquista o una guerra. Non ci fu una resistenza. La gente era spaventata, i mostri delle loro favole alle porte e nessun eroe a proteggerli, la magia delle fate impigrita dalla pace.

I Cattivi erano insoddisfatti, volevano sangue. Malefica li rassicurò: vent'anni di pace avevano reso i Buoni negligenti, adagiati sul per sempre felici e contenti. Altri pochi mesi, e avrebbero vinto.


I Grandi Magazzini Medusa aprirono i battenti nell'estate di quell'anno.

Tre piani, sei scale mobili, cinque negozi di scarpe, sei negozi di abbigliamento femminile, due maschile; e poi ancora due bar, una pizzeria, un negozietto di trucchi, due per l'elettronica, un'auto esposta, un negozio di giocattoli, una libreria, un'alimentari, un game-shop e tre macchinette per i peluche. Il parcheggio sotterraneo enorme e umido, diviso dalla corsia A1 alla G3, sorvegliato non dai coccodrilli ma dalle telecamere.

Le armi le tenevano in magazzino, con gli scatoloni dei rifornimenti, le casse d'acqua e gli imballaggi delle lavatrici.

"Questo è solo l'inizio", le assicurò sua madre, gli occhi brillanti, una pelliccia nuova addosso, gioielli da gran signora che le pendevano dalle orecchie, dalle braccia, dal collo. "Mentre quelle teste vuote si ammazzano per le loro grandi guerre e le loro grandi vedette, amore mio, noi ci arricchiremo sulle loro vite. Ricordalo, in futuro".

E Mania lo fece.

Biancaneve fu la seconda a morire. La conquistarono dall'interno, come una malattia. Seguirono il reportage di Maga Magò in soggiorno, e Snoops e sua madre festeggiarono e stapparono bottiglie. I regni di Corona, Charmington e Camelot caddero in una notte, e da lì fu come un domino.

L'estate ad Auradon era calda, ma di un tepore soffice, piacevole. Nulla come il calore cocente che si insinuava tra le case di lamiera dell'Isola, impregnandosi per non andare più via finché non subentrava la morsa del freddo.

La gente di Auradon era dolce, sull'Isola si chiamerebbe "debole." Erano percossi da sentimenti superflui che laggiù, dove ogni cosa aveva la sua utilità, non trovavano spazio. Se non eri abbastanza furbo morivi. Se non eri abbastanza veloce ti prendevano, e se amavi qualcosa e non sapevi proteggerla bene, qualcuno la afferrava negli artigli e te la portava via. Era abbastanza semplice.

Mania imparò ad aver anche a che fare con loro. Che c'erano alcune cose che non si potevano dire, che li avrebbero messi a disagio. Imparò che per farli felici ci voleva poco, che gli insulti non funzionavano, e che nonostante le belle case e l'aria condizionata, anche loro avevano bisogno di soldi.

"Ecco qua, ragazzo." Jenkins, del negozio di scarpe, consegnò a Milt un numero 34. Come tutti i dipendenti di sua mamma, era di Auradon anche lui.

"Ma lo capisci che non ci posso andare, a New York, se non mi dici chi cazzo è che ti concia così?" sbuffò Mania, continuando a fissare l'occhio nero di Milt. Oltre a quello, gli avevano fottuto di nuovo le scarpe.

"Ma resti lì?" domandò Milt, tirando su col naso.

"No, ma sei scemo?"

"Medusa ha detto che . . ."

"Ma andarse a fassi fottere, quella là, mica controlla tutto quello che faccio," sostenne Mania, risoluta.

Jenkins, inginocchiato per capire se le scarpe andavano bene o no, diede un colpo di tosse.

"Allora, mi dici o no che cazzo è successo?" Mania non demorse, e Milt sembrò sviluppare molto interesse per suoi i lacci.

"Ho sbagliato un tiro."

"E ti hanno picchiato per questo?" Mania cominciò a sfogliare la sua lista mentale di nomi.

"Il coach ha detto che dovrei mollare la squadra." Milt sembrava sul punto di piangere. "Forse ha ragione. Sono scarso."

"Che cazzo dici? Ti piace giocare. Sei bravo."

"No, non è vero . . . è che non sono forte come gli altri."

"Bambini di Auradon?"

"Sì."

Mania si sentì sopraffatta dalla rabbia. Certo che non era abbastanza forte. Milt era malnutrito, malaticcio, e probabilmente avrebbe avuto bisogno degli occhiali ma sull'Isola non ce n'erano di buoni, e recuperarli era un'impresa. E di chi era, la colpa?

"Mania?" la voce di Milt si era fatta piccola piccola.

"Ci vado a parlare io, con questo tuo coach." sbottò lei, aspra, e cominciò a marciare verso la porta.

Milt non la richiamò, ma Jenkins le corse dietro.

"Signorina!"

"Se è per i soldi, Milt non paga."

"No, no, non è per quello." il tono di Jenkins era incerto, quasi dimesso. Le fece un effetto strano. "È che, se vuole, il bambino potrei allenarlo io."

Jenkins era un uomo di Auradon, fatto e finito.
Avrà avuto una cinquantina, la pelle scura del viso solcata appena dalle prime rughe portate dalla stanchezza, eppure adesso, davanti a lei, sembrava speranzoso e incerto come un bambino che chiede un giocattolo nuovo. Vagamente, Mania ricordò che prima della Caduta, sul suo curriculum, aveva letto che avesse allenato alla Auradon Prep.
Si chiese quanti come lui avevano dovuto cambiare vita dopo, ma il moto di pena nei loro confronti durò in tutto cinque secondi.

"Se pensa che la pagherò . . ." esordì, puntandogli contro l'indice.

"No, nono," si affrettò a balbettare lui, portando le mani avanti. "Gratis. Nel tempo libero."

Mania sbatté le palpebre.

La gente di Auradon era strana. Avevano abitudini e vezzi che lei non riusciva a capire. Ideali strani e, per la prima volta, si rese conto che avevano anche dei sogni. Sogni che potevano rompersi.

"Oh. Be'. Allora ok."

Sua madre si incontrò con un altro dei Cattivi che come loro erano scappati dall'Isola. Bill Sikes. Quello che un tempo era stato uno dei più importanti boss di New York, il suo piano malvagio andato in frantumi come molti altri insieme a lui. Adesso, entrambi erano di nuovo nella loro città natale, ed entrambi avevano intenzione di riprendersela. Con o senza la benedizione di Malefica.

Con il completo gessato e i capelli brizzolati, e i cani di razza al suo fianco, Sikes torreggiava su di Medusa enorme, tutto spalle, un uomo con migliaia di vite fra le mani. Eppure lei,, col suo vestito rosso e il trucco pesante e i suoi coccodrilli, era seduta con gambe accavallate davanti alla scrivania come se fosse la padrona del posto.  A testa alta, forse per stupidità. Eppure non c'era dubbio di chi dei due avesse tutto il potere in quella stanza.

Dopo ore di discussione, lei si alzò, e lasciò che lui le baciasse la mano. "Abbiamo un accordo?"

Il figlio di Sikes, un bestione tale e quale al padre osservava tutta la scena con i suoi piccoli occhi porcini.

"Come sempre, mia cara. Avrai il mio supporto." Sikes lo disse con convinzione, ma alla fine erano solo parole. Nulla in confronto al potere che emanava Medusa.

New York era umida, si rese conto, e le ricordava troppo la palude. Non riusciva a dormire, ma, poi, non lo faceva mai veramente.

Un giorno, pensò, guardando con desiderio i grattacieli che svettavano imponenti sulla città, tagliando le nuvole, vivrò in un super attico.

La porta si spalancò e la luce delle scale la investì per un attimo. Sikes barcollò fuori, la camicia fuori dai pantaloni, le guance rosse e un segno di rossetto sotto al mento.

"Ah, sei tu." disse, notandola poggiata contro il parapetto, la voce arroccata da anni di fumo.

"Sono io." confermò Mania, reprimendo una smorfia al pensiero di dove fosse stato fino a quel momento. Con chi.

Sikes indicò la sigaretta fra le dita della ragazza e scuoté la testa come a rimproverare una bimba: "Ah, non lo sai che quelle cose fanno male?"

"Ma davvero?" rispose lei, velenosa, senza neanche guardanlo negli occhi, prendendo un altro tiro.

Sikes rise ancora, dandole una pacca su una spalla: "Hai da accendere?". Lei gli porse un accendino e la puzza maleodorante del sigaro le fece storcere il naso, ma si disse che non poteva lamentarsi.

Lo osservò un po' con la coda dell'occhio, poi sbuffò: "Tua moglie non si starà chiedendo dove sei?".

La risata di Sikes, stavolta, si trasformò rapidamente in attacco di tosse.

"Ah, sto invecchiando." gracchiò, ma prese comunque un altro tiro. Ignorò la sua domanda. "Lo sai, sei una ragazza davvero brillante, Mania, bella. Nella Zona Est si parlava bene di te."

"Be', grazie."  Mania fece schioccare la lingua e Sikes annuì.

"Tua madre resterà qui a New York, insieme a me, e abbiamo concordato che sarebbe vantaggioso per tutti se aiutassi Sean, mio figlio. Sai, lasciare che ti insegni il mestiere, mh?"

"Mmh" gli fece eco lei. "E cosa ti fa pensare che voglia farlo? Magari voglio aprire un business mio, sai? Farmi strada da sola."

Lui rise di nuovo, più forte 'sta volta: "Nessuno si fa la sua strada nel mondo da solo, specialmente una ragazzina".

"Cosa ti fa pensare di conoscermi?" gli chiese, guardandolo con sguardo sornione. "Chissà, magari ho intenzione di fare fortuna, tornare qui e radere al suolo quello che hai creato tu."

Il sorriso di Sikes scomparve: "Lo sai cosa succede quando uno non sa qual'è il suo posto? La gente si fa male. Se fossi in te potrei considerare di . . . perfino farti sposare bene, ho diversi amici che sarebbero interessati."

"Ne sono sicura". Buttò a terra il resto della sigaretta e la spense con un piede.

"Dove vai adesso?".

"A dormire." Mania sorrise, dolce come lo zucchero, avvicinandosi per stampargli un bacio sulla guancia. "Ciao, papà".

Fece scattare la chiave e lo chiuse fuori, aveva il suo portafoglio in mano, ma, se le andava bene, non se ne sarebbe accorto prima di finire il sigaro.

Riuscì ad arrivare in strada prima che le luci dell'hotel iniziassero ad accendersi.

"Mania?" chiamò sua madre, la voce stridula che stracciava il silenzio.

"Mania?".

Corri, corri, corri.

"Mania, rispondimi."

Corri, corri, corri . . .

Riuscì ad arrivare fino all'aereoporto prima che il telefono cominciasse a squillare, e quindi a vibrare a raffica, intasato dai messaggi vocali.

"Mania, rispondi, la tua mammina vuole parlarti." e "Brutta idiota hai idea di quello che hai appena fatto."

"Oops." sospirò Mania, lasciandolo cadere nel cesso del bagno delle signore. Quindi si dipinse il suo più bel sorriso in faccia e pagò il biglietto di ritorno in prima classe con i soldi di Sikes.


Lo aprì al piano di sotto, all'angolo fra la libreria e il negozio di scarpe più grande che hanno. Un negozio suo, piccolo, ma avrebbe funzionato.

MANIA.

Lo sistemò come piaceva a lei. Le gocce di plastica alla porta, i profumi giusti, i gioielli giusti, la luce soffusa.

"Allora?" esclamò in un trionfo d'orgoglio, nemmeno stesse annunciando la nascita di un primogenito, guardando Snoops.

Era venuto a lasciarle Milt per la notte, la brillantina nei ricci striati di grigio e la camicia nuova, pronto ad andare chissà dove.

"Oh, oh, è . . . sì, è . . ." il vecchio assistente di sua madre diede un colpo di tosse. "Be', sai, io non lo direi a Medusa."

Il sorriso di Mania morì. "No, certo."




Non poteva buttare nel cesso il telefono fisso, perchè le serviva per parlare coi rifornitori.

Tuttavia, col passare delle settimane, si era istaurata una specie di routine: sua madre la chiamava la mattina prestissimo e a notte inoltrata, quindi qualsiasi altra chiamata nelle restanti ore della giornata poteva essere presa. Mania pensava che si sarebbe stancata, ma evidentemente aveva sottovalutato sua madre.

"Devi ringraziare la tua buona stella che non possa venire a prenderti," le aveva detto Snoops quella mattina, ridacchiando mentre aspettava che Milt preparasse lo zaino. "Quando ti metterà le mani addosso . . .".

Mania salì sul tetto e si rollò una sigaretta, aspettando l'alba.


Hunter delle Isole del Sud arrivò a bussare alla sua porta circa una settimana dopo.

Cioè, non proprio bussare.

Se lo ritrovò già in casa sua, seduto su una delle sedie in cucina, gli stivali neri perfettamente lucidati accavallati sul tavolo.

Mania quasi gli impiantò un proiettile nel cervello.

Non li voleva, loro, qui. In casa sua. Sapendo che solo qualche porta più in là c'era il letto di Milt, i suoi giocattoli, i suoi libri e la sua palla.

Poi Hunter aprì la porta per parlare, e il suo mondo venne completamente ribaltato.

"Senti, dolcezza, fammi ricapitolare". Mania non aveva abbandonato l'idea di mandargli in poltiglia il cervello, ma per lo meno era abbastanza sorpresa da esitare. "Mi stai chiedendo alto tradimento per rifornire un branco di idioti guidato dal tuo fidanzato altrettanto idiota?".

Lui spalancò gli occhi, e muovendo le mani in aria esclamò: "Posso pagare!".

Mania lo fissò negli occhi, impassibile: "Quanto, di preciso?".

Due giorni dopo aveva tre sacchi di monete d'oro nascosti sotto le assi del pavimento del negozio, e una probabile sentenza di morte sulla testa.

jade speaks! —— Bill Sikes è il cattivo di Oliver&Company!! e sì, è il padre di Mania. ci sembrava perfetto dato che sia lui che Medusa sono di New York e hanno entrambi modi di fare molto simili.

questo capitolo è come sempre scritto in collaborazione con annafrost34 !! penso che si noti ancora di più questo capitolo, dato che ci sono parti intere completamente ad opera sua. io felice.

finalmente abbiamo finito col prologo e possiamo iniziare con la storia vera e propria!! ah, e probabilmente questa settimana arriverà un'altra sorpresina sempre in relazione all'Età Oscura . . . sempre per colpa di anna che mi fa venire voglia di scrivere cose.

spero il capitolo vi sia piaciuto <3

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