ventuno

Say (All I Need), OneRepublic

Quando apro la porta di casa faccio quello che faccio sempre — sfilo le chiavi e le lascio cadere affianco alla candela bianca sul piccolo tavolino all'ingresso, poi mi chiudo la porta alle spalle e con la borsa piena che mi pesa sulla spalla, svolto il corridoio.

È venuta a prendermi Darlene, mi ha portata lei qui. Anche mia madre voleva venire, voleva accertarsi che potessi davvero uscire per cavarmela da sola, senza sapere che è quello che ormai faccio senza che nessuno me lo dica. Solo che io avevo bisogno di qualcuno che capisse e accettasse i miei silenzi, che non sentisse il bisogno costante di riempirli. Così ho chiamato Darlene, che mi aveva già anticipato di essersi presa la mattinata libera per passare a vedere come stavo.

Ho anche parlato con Welson — in realtà è stato lui a parlare per la maggior parte del tempo — è venuto nella mia stanza prima che me ne andassi.

«Le persone come te le conosco, Mia. E so che tu adesso pensi che quelle che ti sto per dire siano solo cazzate, che te le dirò perché devo, perché lo faccio con tutti. E potrai anche non credermi, ma io te le dirò lo stesso» ha iniziato, e se all'inizio non lo guardavo neanche, poi alla fine mi sono ritrovata a farlo, mi sono ritrovata ad affidarmi ancora una volta nelle mani di qualcuno che non conosco.

«Non voglio dirti che hai bisogno d'aiuto, di essere salvata. Voglio solo dirti di vivere, di urlare, di piangere, di parlare. Di mostrarti e di non nasconderti, perché chi ti vorrà cercare per davvero, alla fine ti troverà sempre.»

Ogni singola parola mirava ad una cicatrice diversa, spargendo sale e finendo per non risanarle mai.

«Non sei una debole, Mia, e non sto giustificando quello che hai fatto, ma non lasciare che la gente ti giudichi per questo. Nessuno può conoscere le ragioni o quello che stessi provando in quel momento. Permetti a te stessa di respirare e di amare.»

Non so perché mi abbia detto tutto questo, ma mentirei a me stessa se sostenessi che le sue parole non mi abbiano accompagnata per tutto il tempo. Per tutto il tempo ho creduto di non potercela fare, che per quanto in quella stanza d'ospedale mi sentissi rinchiusa in qualcosa che non mi permettesse neanche di boccheggiare, io credevo di non essere abbastanza forte da poterne uscire. Quelle mura erano una prigione, ma mi tenevano al sicuro. Al sicuro da questa casa, da queste altre mura che ogni giorno che passa sento restringersi intorno a me; al sicuro dalle mura dell'università, da quelle del locale, al sicuro dalle mura dei confronti che sarò costretta ad avere, dalle parole che in qualche modo dovrò pronunciare; al sicuro dagli addii, dalle vie di passaggio, dalla fede e dalla speranza che ho perso, dalle aspettative che finisco sempre per avere; al sicuro da me e dai miei pensieri, quelli che non permettono alle ferite di cicatrizzarsi.

Devo passare anche davanti alla sala prima di poter essere nella mia stanza, ed è più difficile di quanto credessi. Lo diventa ancora di più quando mia madre mi sente e mi viene incontro.

«Credevo ci fosse anche Darlene» dice come prima cosa, e avrei dovuto aspettarmelo. Non che mi dispiaccia, perché parlare di me e del fatto che sono qui dopo — soli — cinque giorni non mi va, però c'è sempre quella sensazione, quel vuoto dentro che di restringersi non ne vuole sapere.

«No, aveva delle cose da fare. È soltanto passata a prendermi» mento, ed è tutto così automatico che neanche me ne rendo conto.

Mia madre annuisce piano, ha un panno tra le mani. «Vuoi mangiare qualcosa?»

Io scuoto la testa. «Voglio prima fare una doccia, posso aspettare la cena.»

Prima di voltarmi però non riesco a non far cadere il mio sguardo oltre la porta che si apre sulla cucina. Vedo il tavolo su cui ho poggiato il cellulare dopo averlo spento per ignorare tutti; il ripiano a cui mi sono appoggiata. Mia madre forse se ne rende conto che temporeggio, ma neanche questo la spinge a parlarmi, a dirmi qualcosa di più.

Alla fine però mi volto, perché la borsa continua a pesarmi sulla spalla, mi fa male. Apro la porta chiusa ed è tutto come l'avevo lasciato. Un po' mi sorprende che mia madre non sia venuta qui a rivoluzionare ogni cosa, a sistemare la scrivania o ad aprire le finestre.

Lascio scivolare la borsa dalla spalla e la lascio lì, sul pavimento. Mi avvicino al letto e lo sfioro; le stesse lenzuola fiorate mi ricordano che qualcosa in me è rimasto invariato, che è riuscito a resistere agli altri cambiamenti.

Mi rivedo distesa, con le ginocchia portate al petto ed entrambe le braccia piegate sotto la testa, mentre aspetto qualcosa che non conosco. E poi vedo Harry. Lo vedo entrare dalla porta principale, lo vedo attraversare il corridoio e poi lo vedo confuso; sento che mi chiama, che ha quasi paura a camminare tra queste mura, che si è reso conto che sono intossicate da qualcosa che non si può più cambiare, che non si può più aggiustare; però lui continua a camminarci, lo fa lo stesso.

Poi lo vedo qui. Lo vedo rendersi conto di me quando passa davanti alla porta aperta, mi chiama ancora una volta e io non gli rispondo, perché quello a cui speravo di andare incontro mi aveva già presa. Lo vedo scuotermi, chiamarmi ancora, senza nessun risultato. Allora mi prende tra le braccia, cerca di capire, solo che io continuo a non sentire niente, perché non ci sono già più.
Fa male.

È passata una settimana. È passata una settimana e questa è la prima volta che torno all'università. Ci sono stata soltanto pochi giorni fa, prima di questa settimana, solo che a me sembra passato molto di più.

Esco dalla metro e faccio la solita strada, un passo avanti e uno indietro, il ritmo costante e veloce che sono abituata ad avere. Non guardo in faccia nessuno, vado dritta per la mia strada, quasi come un automa. I jeans che indosso li sento un po' larghi sui fianchi e intorno alle gambe, ma è una bella sensazione quella di sentirsi un po' più libera anche sotto questo punto di vista, intorno a questa metafora.
Arrivo alle prime scale e le salgo tutte velocemente, nonostante tutte le persone che vi sono sedute. Mi sento osservata, mi sento guardata fino a sotto la pelle, li sento scavare, ma so che non posso lasciarglielo fare, e che non posso permettere a me stessa di crederlo. Di credere che questo sia tutto vero.

Solo che anche quando sono all'interno, dopo la seconda scalinata, quella sensazione non se ne va, perché sono tutti fuori dall'aula ad aspettare che le porte si aprano. E sembra che stiano aspettando me anche se è chiaro che non sia così, solo che è difficile lasciar perdere. Si voltano e io vedo che lo fanno, le voci in sottofondo si moltiplicano anche se intorno a me c'è il silenzio scandito soltanto dal rumore dei miei passi.
Stringo il laccio dello zaino tra le dita, respiro con fatica e il peso sul petto torna ad essere lì e farsi sentire, e io ho paura ad avvertire tutto questo, perché so quello che succede e come va a finire. E sono stanca di sentirmi in questo modo.

Tra le persone quando alzo lo sguardo vedo Paula e le altre del suo gruppo, che appena incrocia il mio sguardo poi si volta verso di loro e torna a parlare. Chiudo gli occhi per un istante e sospiro, vado verso una delle finestre ancora libere e mi appoggio al davanzale, mi passo le mani sul volto e provo a respirare. Cerco qualcosa a cui aggrapparmi, un appiglio qualsiasi che mi permetta di restare in piedi, quando è quella stessa voce a chiamarmi.

«Callie» dico quasi con speranza, perché lei sembra comparire sempre nei momenti in cui sono in difficoltà, come se lo sentisse.

«Come stai?» mi domanda, e nel suo tono non c'è il giudizio che mi aspettavo, c'è soltanto un semplice e puro interesse che per un istante riesce ad estraniarmi e a farmi respirare per davvero.

Io sospiro e mi mordo le labbra prima di risponderle. «Lo sai anche tu?»

E non c'è bisogno che mi risponda a voce, perché è il suo modo di guardarmi a farlo. «Come?»

«Voci, Mia. Ma non ne parlano quanto credi.»

«Credi? Fino alla settimana scorsa ero praticamente invisibile, sarei potuta passare attraverso le porte e nessuno mi avrebbe detto una sola parola. Guarda ora» dico e alzo lo sguardo verso gli altri, che distrattamente spostano il loro da me quando se ne rendono conto.

Improvvisamente sul volto di Callie compare un sorriso che non riesco a comprendere. «Cosa c'è?»

«È la prima volta che ti sento parlare così tanto in soli pochi minuti» sostiene e io sospiro ancora, forte e rumorosamente. Il panico è passato, ma so che quella sensazione, quel vuoto sono sempre lì, pronti a riemergere da un momento all'altro.

«Lo sanno tutti e non lo sa nessuno, Mia. Quello che è successo e quello che hai passato è una versione dei fatti che appartiene solo a te. Non pensare a loro.»

Non so come riesca a parlarmi in questo modo e non capisco perché lo faccia. L'ho vista solo poche volte e lei mi ha conosciuta soltanto attraverso delle voci. Eppure le cose che dice, nel modo in cui le dice, sembrano così giuste da riuscire a mettermi tranquillità.

Callie si accorge che temporeggio per risponderle, perché in realtà non so neanche cosa dirle. Sono quasi le stesse parole di Welson.

«Se saltassimo la lezione?» propone, e io faccio una piccola smorfia prima di sentire le porte dell'aula aprirsi. «È ancora presto, possiamo andare a fare colazione da qualche parte, se ti va.»

Poi però i miei occhi cadono ancora sulle persone, sulle troppe persone che la stanno riempiendo e penso alle prossime due ore che dovrei trascorrere lì dentro. E per questo alla fine cedo, alzando gli occhi al cielo e sospirando — ancora — suscitando la risata di Callie. «Va bene.»

Quando camminiamo è Callie a parlare, è lei quella che tenta di costruire e mantenere una conversazione. Ed è nei casi come questo, in cui in qualche modo sento di poter dare una possibilità a qualcuno, che vorrei poter essere una Mia diversa. Una Mia aperta, con una risposta sempre pronta per essere pronunciata e non quella che si estranea e che ascolta soltanto perché di parole non crede di averne.

Ci fermiamo in un piccolo bar vicino all'università, ci sono soltanto pochi studenti perché a quest'ora solitamente sono tutti a lezione. È carino e le persone che ci lavorano sono gentili, qui puoi starci quanto vuoi. A volte ci sono stata con Paula — le prime, quando credevo di essere stata fortunata a trovare qualcuno di cui potessi fidarmi anche se eravamo solo all'inizio — poi ci sono anche venuta da sola. Non mi dispiace farlo, perché mi prendo il mio tempo e perché in quel modo non devo dipendere da nessuno.

Ci sediamo e ci sistemiamo l'una di fronte all'altra; io involontariamente sono seduta verso l'esterno e mi sento ancora un automa, perché le mie forse sono abitudini troppo radicate.

«Cosa prendi?»

Io ci penso soltanto per un istante, poi alzo lo sguardo sul cameriere che nel frattempo ci ha raggiunte perché tanto già so che alla fine comunque prenderò lo stesso di sempre. «Un cappuccino amaro con del cacao.»

«Io prendo un tè con lo zenzero» gli dice Callie e lui annuisce, mentre segna le nostre ordinazioni.

Ritorna poco dopo, e sto strappando una bustina di zucchero quando Callie riprende a parlare. «Perché lo hai chiesto amaro se poi ci metti lo zucchero?»

Io scrollo le spalle, disinteressata. «Voglio poterne decidere io la quantità.»

C'è qualche istante di silenzio tra noi, solo che sento il suo sguardo su di me quando lei crede che io non me ne renda conto, ma non sono sicura mi dia fastidio. Un po' sì, ma nei suoi occhi leggo una curiosità spontanea, affettiva verso qualsiasi cosa, anche la più piccola e insignificante. Mi parla del suo ragazzo e del modo in cui si sono conosciuti, poi chiede a me se c'è qualcuno anche nella mia vita. Istintivamente i miei pensieri corrono a Harry e io non riesco a fermarli, ma si tratta di qualcosa che non conosco e che forse non conoscerò mai.

«No, non c'è nessuno» allora rispondo, ma lei mi guarda e poi inclina la testa da un lato.

«Però hai esitato, prima di rispondere.»

Io scuoto la testa, perché non avrei voluto che lo notasse e non avrei voluto che poi lei avesse fatto notarlo a me. «Non è così semplice, Callie. Poi io non ci credo neanche.»

«Sei mai stata innamorata?» continua, e io vorrei solo potermene andare per non doverle rispondere.

«Non lo so, ma non credo» le dico, e solo quando le parole lasciano la mia bocca mi rendo conto di quanto la mia risposta sia instabile e inesistente. Di quanto io lo sia.

Callie sorride, poi prende la sua tazza tra le mani. «Quante belle risposte, Mia. Sei parecchio sicura della vita, noto.»

In qualche modo riesco a rispondere al suo sorriso, e mi porto una mano davanti alla bocca quando sbocco in una piccola risata.

«Allora, ti sei pentita di aver saltato la lezione?» mi domanda mentre usciamo dal bar.

«No, non mi sono pentita. Ne avevo bisogno» ammetto, e il suo sorriso è ancora lì. «Grazie, Callie.»

«Non hai bisogno di loro, Mia. Puoi farcela anche da sola» dice mentre si sta già allontanando, e io resto lì, all'angolo a guardarla e a pensare alle sue parole.

A/N

La seconda parte del capitolo non mi convinceva moltissimo, ma un posto per Callie in qualche modo dovevo trovarlo hahah e a proposito di lei, cosa ne pensate? Vi piace come personaggio?

Spero che a voi almeno sia piaciuto un pochino il capitolo. Vi abbraccio forte,
Chiara 🌹

ps. a Mia piace sospirare

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