ventitré

Save me a spark, Sleeping With Sirens

Quando arriviamo in ospedale il cielo è completamente scuro, non riesco neanche a vedere la luna. Tornare tra questi reparti, tra queste pareti, è un po' come tornare a due settimane fa, ma posso resistere.

Il padre di Eve è peggiorato, e ho chiesto a Harry di portarmi qui da lei.

L'odore è sempre lo stesso, è qualcosa che riconosci, che ti parla da solo. Chiediamo informazioni all'ingresso e poi andiamo verso il primo piano. Prima di attraversare il reparto e raggiungere il padre di Eve mi volto verso Harry.

«Non devi farlo per forza» gli dico, guardandolo quanto basta mentre lo faccio perché temo una sua risposta, un suo rifiuto. Non lo biasimerei se lo facesse, se decidesse di andarsene.

«Tu vuoi che venga con te?»

«Sì» ammetto in un sussurro. «Ma non so quali intenzioni tu abbia, né perché tu sia tornato.»

Lui mi guarda, e lo fa talmente intensamente che mi destabilizza. «Non me ne sono mai andato, Mia.»

Io gli sorrido debolmente, non riesco a fare altro. Lui si avvicina di più e mi mette una mano tra i capelli, prima di premere le labbra in un bacio sulla mia fronte. Chiudo gli occhi e mi lascio andare al suo tocco sulla mia pelle, poi si allontana e mi sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«Andiamo» sussurra e io annuisco, voltandomi e continuando a percorrere il reparto fino ad arrivare alla stanza del padre di Eve. Fuori ci sono lei e Francis; Eve è seduta e ha la testa tra le mani, appena la solleva mi vede e si alza, poi viene velocemente verso di me. Mi avvolge le braccia intorno alle spalle e io la stringo a me.

«Grazie per essere qui» mi dice con voce stanca, quasi spezzata.

«Sono sempre con te, Eve» le rispondo e lei mi stringe di più, si aggrappa a me e io glielo permetto, glielo lascio fare perché so che ne ha bisogno. Adesso è lei ad aver bisogno di me, e io non posso fare altro che sostenerla, allo stesso modo in cui lei ha sempre fatto lo stesso per me.

Quando ci allontaniamo saluto anche Francis, che adesso è vicino a Harry. La madre di Eve esce poco dopo dalla stanza.

«Come sta?» domando, e guardandola mi rendo conto di quanto sia distrutta. I suoi occhi sono cerchiati quanto quelli di Eve, e anche lei tiene i pezzi insieme perché devono starci.

Ma lei cerca di non darlo a vedere, prova a restare forte per tutti. «Per adesso è stabile, ma non sappiamo altro. Non si può più fare niente.»

Sono le cinque del mattino quando Chris si sveglia. Ha superato la notte quasi senza problemi, e ci siamo tutti dati il cambio per stargli vicino nel caso avesse avuto bisogno di qualcosa. Ci sono io nella stanza con lui quando si sveglia.

«Sei Mia?» mi domanda, e vederlo in questo modo distrugge un po' anche me. Mi riconosce dopo un po' che mi ha guardata, non sono sicura si aspettasse di trovarmi qui tanto quanto io non mi aspettavo che lui si sarebbe svegliato durante il mio turno.

Annuisco e gli sorrido. «Sì, sono Mia. Come si sente?»

«Forse sono stato meglio» mormora e sorride anche lui, è più forte di quanto già credessi.

«Vado a chiamare Eve e Leyla» dico, ma lui mi ferma prima che io esca.

«Mia figlia è fortunata ad averti, Mia» sostiene, il tono basso mentre mi afferra la mano. «Sono felice che mi abbia permesso di conoscerti.»

Non sono sicura del perché me lo stia dicendo né perché lo stia facendo adesso, ma non sono abbastanza forte da riuscire a chiederglielo. Quindi lo immagino, lo immagino e tengo salda la presa intorno alla sua mano per entrambi. Sento un peso nel petto e un vuoto nello stomaco mentre lo guardo per rispondergli.

«Io lo sono per essere riuscita a conoscere lei e per aver incontrato Eve.»

Mi guarda ancora, indugia sul mio sguardo con occhi stanchi, piccoli, ma che resistono. «Non la lasciare da sola.»

Io scuoto piano la testa e accenno un sorriso, sento le lacrime premere insistentemente ai lati degli occhi. «Non lo farò.»

«Grazie» mi dice alla fine, fidandosi delle mie parole come se stesse riponendo nelle mie mani una parte di sé.

Gli stringo un'ultima volta la mano e poi vado verso la porta, ma prima di uscire lascio a quella singola lacrima di scivolarmi sul volto.

Ormai il sole è alto nel cielo di Bath quando io e Harry usciamo dall'ospedale. Tutti gli altri sono rimasti, e Eve mi ha assicurato che presto lei e Francis sarebbero andati a casa per cambiarsi e per riposare un po', mentre Leyla sarebbe rimasta con Chris per essere sicura delle sue condizioni.

Raggiungiamo la macchina di Harry e quando siamo dentro mi lascio andare contro il sedile. Mi sento stanca, ma non nel modo in cui credevo lo sarei stata. E non mi pento di essere venuta qui e di averci passato la notte; ho avvisato mia madre con un messaggio, lei non ha fatto troppe domande. Sa di Eve e di suo padre, e sapeva che non sarei stata da sola e che non avrei lasciato che neanche lei lo fosse.

«Ti porto a casa?» mi domanda Harry, il tono basso e la voce un po' stanca. Mi è stato vicino in qualcosa di cui non sapeva niente, in silenzio e senza esitazioni.

Io ci penso, guardo davanti a me e poi scuoto la testa, prima di tornare a guardare lui. «No» sussurro, «non portarmi a casa.»

Harry capisce che sto scappando da qualcosa e che gli sto chiedendo di assecondarmi nella mia fuga, eppure non dice niente. Annuisce solamente e poi distoglie lo sguardo dal mio, prima di far partire l'auto e lasciare questo parcheggio.

Non so dove stiamo andando e non sono sicura che mi importi, mi basta uscire fuori dalle mie abitudini per qualche ora. Neanche lui mi dice qualcosa, guida e basta; tiene un braccio disteso sul volante e ogni tanto mi guarda, me ne accorgo, ma non dice niente. Non mi dice dove mi stia portando, ma mi fido di lui e questo mi basta.

Sosta l'auto davanti ad un palazzo, io lo seguo quando esce e insieme arriviamo fino all'ingresso. Continuiamo entrambi a stare in silenzio mentre saliamo le scale, ma non è quel genere di silenzio che pesa, che merita di essere colmato per il vuoto che lascia. Harry si ferma davanti ad una porta e lo stesso faccio io, ancora dietro di lui. Quando fa scattare la serratura si sposta e mi fa un cenno con la testa per invitarmi ad entrare per prima. Gli sorrido debolmente e poi lo faccio, seguita da lui che si chiude la porta alle spalle.

«Siediti pure dove vuoi» mi dice mentre si sfila la giacca, io annuisco e in silenzio mi siedo davanti al bancone della piccola penisola che separa la cucina dalla sala.

Harry viene verso di me e mi oltrepassa, fa il giro del bancone e prende qualcosa da un paio di cassetti; quando recupera due tazze mi rendo conto di quello che sta facendo. È ancora di spalle mentre si muove, e io lo osservo in ogni suo singolo gesto.

Poi mi guardo intorno e non so perché, ma tutto sembra appartenere a Harry. Ci sono poche cose ma c'è tutto, insieme a ordine e disordine, a tutto e a niente, dal più piccolo dettaglio alla grande lampada che pende dal soffitto. Dalle vetrate entra tanta luce, tutta la sala è completamente esposta.

Non ho mai immaginato come potesse essere, dove vivesse e se stesse da solo, ma se l'avessi fatto probabilmente è così che me lo sarei immaginato.

Mi fa scorrere la tazza fumante davanti e torno a guardare lui.

«Grazie» dico in un sussurro e la prendo tra le mani, racchiudendola completamente tra le dita per riscaldarmi di più. Lui si siede di fronte a me e fa soltanto un cenno, poi solleva la tazza e inizia a bere. È strano trovarmi qui con lui, ma non ci sto male. Non mi sento sbagliata, fuori posto. Sto bene.

«Hai il turno oggi?» mi domanda Harry, io scuoto la testa.

«Oggi no» rispondo, ma poi mi rivolgo di nuovo a lui. «Tu hai da fare?»

«Niente che non possa rimandare» dice scrollando le spalle, io lo guardo ancora per qualche istante e poi riprendo la tazza tra le mani. «Cosa c'è?»

Esito prima di rispondere. «Di te so soltanto quello che vedo.»

Harry sorride. «E non ti basta più?»

«Non lo so» dico, e non so perché siamo finiti a parlare di questo. Solo che ci ho pensato spesso; ho pensato spesso a quello che Harry potrebbe portarsi dietro, al suo taccuino e a cosa ci scrive dentro. Mi chiedo se sia realmente la persona che vedo io.

Neanche lui sa troppo di me, ma mi ha vista in tanti modi che agli altri tento di nascondere. Mi ha vista vulnerabile, persa. Mi ha vista e non era neanche più sicuro che fossi io, che fossi quel poco che sapeva di me.

«Non vivo a Bath da sempre» inizia, io gli do tutta la mia attenzione anche se non so dove voglia andare a finire. «Mi sono trasferito un paio d'anni fa, avevo vent'anni e non era la prima volta che me ne andavo. Probabilmente anch'io stavo scappando, ma non vedevo nessun'altra via d'uscita. Ho cercato un posto che fosse mio per tanto, ma non sono mai riuscito a trovarlo. Mi legavo a tutto e a niente, ho sempre vissuto di dettagli che poi mi si sono rivoltati contro. Non sapevo neanche io cosa volessi per davvero, non ero sicuro di chi volessi essere, poi sono arrivato qui.»

Lo ascolto senza interromperlo, mentre distrattamente si passa una mano tra i capelli e mi parla con tranquillità, guardandomi per la maggior parte del tempo e il restante rivolgendo lo sguardo fuori, oltre le vetrate.

«Al Midnight ci sono stato prima che tu iniziassi a lavorare lì, poi per un periodo ho smesso di andarci. Ci sono ricapitato una sera per caso e c'eri tu. Da quel momento ogni venerdì ho ricominciato a frequentarlo.» Sorrido, perché ricordo ogni singolo venerdì, sin dall'inizio.

«Da cosa scappavi?»

Esita, mi guarda per pochi secondi prima di rispondermi. «Avevo un fratello, è morto cinque anni fa. Aveva sedici anni, io diciassette, e l'ho trovato nella sua camera quando era già troppo tardi. Si è negato la vita.» Ed è quando lo dice che capisco e comprendo di più la sua reazione, il modo in cui parlò in ospedale dopo che avevo tentato di fare la stessa cosa. Ha rivissuto quel momento che si porta dietro da tempo.

«Nessuno è riuscito a salvarlo, nessuno è riuscito a rendersi conto di quello che sentiva ma che non mostrava.»

«Alcune persone non vogliono essere salvate, Harry» sussurro. A volte siamo semplicemente insalvabili.

«Però si può tentare, Mia» replica, le tazze ormai vuote davanti a noi.

«È per questo che te ne sei andato?»

Annuisce, poi inclina la testa verso destra e sfiora il manico della tazza. «A diciotto anni me ne sono andato per la prima volta. Mio padre aveva iniziato a tradire mia madre e lei lo sapeva, ma non aveva più le forze di opporsi a niente. La morte di Avan ci ha devastati. Non potevo più restare in quella casa.»

Penso a quante volte avrei voluto farlo anch'io. Abbandonare ogni cosa e andare via, andare dove nessuno avrebbe saputo niente di me, solo quello che avrei voluto rivelare e far vedere.

«Vedo ancora mia madre, mi sono sentito uno sporco egoista quando l'ho lasciata con lui. Mio padre lo vedo di meno, e ogni volta che l'ho fatto è stato di venerdì, per questo poi la sera venivo al locale» si ferma, mi guarda negli occhi e poi continua. «Parlare con te mi tranquillizzava, guardarti mi dava la conferma di essere nel posto giusto. Non so come, in quale modo, ma è stato così fin dall'inizio, fin da prima che iniziassi a parlarmi.»

Io gli sorrido perché non riesco a fare altro. Non riesco a rispondergli nel modo in cui meriterebbe, così lo faccio in un'altra maniera.

«Nina la conoscevo da una vita» inizio, e non so neanche io come, né perché, ma lo faccio e basta. Sento gli occhi di Harry spostarsi su di me. «Era la persona da cui sarei corsa per qualsiasi cosa, e non importava cosa fosse perché in qualche modo poi lei riusciva sempre ad esserci. Si è presa tanto di me e io ho fatto lo stesso con lei, ma poi qualcosa si è spezzato. E certe volte le cose si rompono e basta, non puoi semplicemente provare a raccogliere i pezzi e rimetterli insieme. Certe volte devi accettare ciò che è stato e lasciarlo andare.»

Scrollo le spalle lentamente, Harry mi ascolta in silenzio. Scuoto poi la testa e sorrido malinconicamente prima di continuare. «Mi sono persa tante volte, e altrettante volte ho pensato di non farcela, di lasciare tutto, ma mi è sempre mancato il coraggio. Il più delle volte c'era lei, poi se n'è andata e c'è stata Eve, ma a un certo punto non basta più. Sei al limite, al punto di rottura.»

Harry si alza e fa il giro della penisola, fino a raggiungermi. Io resto seduta sullo sgabello ma mi volto, insicura su quello che vuole fare, su quali siano le sue intenzioni. È ancora in silenzio, solleva una mano e me la porta sul volto per poi spostarmi i capelli dietro le spalle. Il suo tocco mi sorprende come tutte le volte ma non mi ritraggo, continuo a guardarlo e lui continua a guardare me. Se potessi descriverne il modo lo farei, insieme a quello in cui si assottigliano frequentemente i suoi occhi e al loro colore, che non ho mai trovato in nessun altro.

«Vorrei che tu potessi vedere quello che vedo io in te, e non solo le colpe che ti ostini a portare sulle spalle, sul petto, dentro» dice, e lo fa così intensamente da farmi vacillare. «Vorrei che tu potessi vederti nella tua totalità, nei tuoi movimenti e nella tua vulnerabilità.»

Poi sorride, le sue dita sono ancora sulla mia pelle ma poi le lascia scivolare, cadere via.

«Sorridi poco ma quando lo fai la vita ti scorre in ogni singola vena, parli poco ma ascolti tutto, respingi tutti ma senti ogni cosa così intensamente che ti prosciuga. Sei umana e imperfetta, Mia Davies.»

Le sue parole mi colpiscono in un modo così forte, intenso e gentile allo stesso tempo che non sono sicura si possa spiegare; è qualcosa che va vissuto e basta. Sul suo volto c'è ancora un sorriso debole e i miei occhi sono velati dalle lacrime, ma non piango. Piuttosto faccio lo stesso con lui, sfiorandogli il volto con le dita prima di avvicinarlo al mio e premere le labbra sulle sue.

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