venticinque
Save myself, Ed Sheeran
Quando torno a casa dall'università mia madre non se ne rende conto, ed io il motivo lo capisco dopo. All'inizio anch'io credevo di essere sola, perché solitamente mi chiede sempre se sia io ogni volta che torno. Poi sento la sua voce, ma la sento in un modo diverso. È bassa e leggera, e parla come se temesse che qualcuno la sentisse anche se sa — crede — di essere sola.
Trattengo le dita intorno alla tracolla dello zaino e vado verso la fine del corridoio. So che non dovrei, che è sbagliato, ma non riesco a fermarmi.
«Dimmi dove e quando» pronuncia, ma non riesco ancora a capire chi potrebbe esserci dall'altro lato. Passano alcuni secondi, poi continua.
«Lo sai che è così, se lo vogliamo davvero allora incontriamoci. Diamoci una possibilità.» Ed è adesso che lo capisco. È adesso e io reagisco nel modo in cui non sono riuscita a reagire la prima volta. Resto vicina alla parete e i pensieri corrono a mio padre, perché so che nonostante tutto non è pronto a questo.
Mia madre continua a parlare ancora per poco, e quando la sento muoversi torno velocemente indietro e apro la porta principale per poi richiuderla subito dopo. Incrocio mamma qualche istante più tardi, con il cellulare ancora tra le mani.
«Ciao, Mia» dice, e mi sorride mentre lo fa. Non succedeva da tempo.
«Ciao, mamma» le rispondo e poi la sorpasso, perché il suo sguardo non lo riesco a sostenere. Vado verso la mia stanza e mi chiudo la porta alle spalle, poi lascio scivolare lo zaino sul pavimento e alla fine lo faccio anch'io, prendendomi la testa tra le mani e chiedendomi chi di noi, dopo tutto quanto, avrà più pezzi da dover rimettere insieme.
—
Lo psicologo di mio fratello mi ha chiesto di restare con loro oggi.
«Non credo che sia una buona idea» gli dico io, perché lo credo davvero. E non credo completamente in lui.
«A me aiuterebbe» risponde lui con un sorriso, e io sposto lo sguardo su Evan, già seduto sul divano rosso in pelle.
Sospiro mentre mi sfioro la fronte con le dita. «Va bene.»
Evan non dice niente quando mi vede entrare e restare, sedermi accanto a lui. Ma Evan è sempre così, lo è da un po' e mi chiedo se l'uomo di fronte a noi lo stia aiutando o se ci stia semplicemente provando, se in qualche modo gli sia davvero d'aiuto a non finire nel modo in cui stavo per finire io.
Damien — lo psicologo — guarda distrattamente l'orologio che porta al polso e poi noi. Parte con i convenevoli, costruisce delle basi, e sorride più di quanto mio fratello abbia mai sorriso in tutta la sua vita. I minuti scorrono e la concentrazione maggiore è su Evan, solo in un secondo momento si sposta anche su di me.
«Evan, per te va bene che tua sorella sia qui?» gli domanda, io mi volto a guardarlo.
Evan scrolla semplicemente le spalle, quasi apatico. «È uguale.»
Non so cosa Evan abbia raccontato — se sia riuscito a parlargli — o se abbia detto qualcosa riguardo a quello che succede a casa, su nostra madre e sulle porte che sbatte mio padre, ma c'è una domanda, una sola, che Damien fa a mio fratello che mi porta a pensare che probabilmente qualcosa glielo abbia accennato. Non tutto, ma quanto basta. Quanto basta per rendersi conto di uno dei motivi per cui è così chiuso nei confronti del mondo, come se stesse costantemente con le braccia parate davanti al volto per proteggersi da qualcosa, da qualcuno, chiunque sia.
«Resteresti con Mia, un giorno?»
Evan solleva la testa verso Damien. «In che senso?»
«Se ne avessi bisogno, tu ti fideresti a tal punto da restare con lei?»
«No» risponde Evan disinteressato, scuotendo leggermente la testa. «Non mi fido di lei.»
Io mi volto ancora verso di lui, perché un po' me l'aspettavo, ma sentirselo dire è sempre un'altra storia.
«Perché dici questo?» Gli domanda Damien, impassibile e imperturbabile.
«Perché so che non riuscirebbe a prendersi cura di qualcuno. A Mia non importa di nessuno.» Non guardo Evan mentre lo dice, sono ferma al mio posto con un braccio poggiato sull'estremità del divano, le dita a sfiorarmi le labbra. Però poi sorrido. Sorrido e fa male, solo che ormai ho smesso di chiedermi se sia possibile. Perché la maggior parte delle volte in cui sorrido in realtà fa solo male.
Mio fratello continua, come se io non fossi nella stanza. «Solo di sé stessa.»
«Evan» lo richiama questa volta Damien, perché questo va oltre. Questo non se l'aspettava.
«No, no» dico, un accenno di sorriso ancora sulle mie labbra e gli occhi secchi, aridi. Questa volta l'apatica sono io. «Ha ragione. Non mi importa.»
Sono io la prima ad alzarsi quando l'ora finisce e la stessa sessione, Evan saluta Damien velocemente, io sfilo i soldi dal portafogli per pagarlo.
«Per oggi non preoccuparti» dice, e io non capisco perché lo faccia, ma so di non aver bisogno della compassione di nessuno. Lui continua a parlarmi. «Mi dispiace che siano venute fuori quelle cose, ma sono sicuro che non sa quello che dice. Non se ne rende conto.»
Io scuoto la testa. «Va bene così.»
Esco dallo studio e raggiungo Evan, fermo appena fuori l'ingresso.
«Non torno a casa, stasera stiamo da Cody.»
«Va bene» ripeto le stesse parole anche a lui, che mi guarda come se dentro non fosse successo niente, come se avessi dovuto tenere per scontata la concezione che lui ha di me. Non gli domando se gli serva un passaggio, perché so che Cody abita a pochi minuti da qui e perché probabilmente non lo accompagnerei comunque, se la può cavare da solo per una volta.
Evan annuisce, poi senza dire nient'altro si volta. Resto a guardarlo fino a che non scompare, rassegnata e un po' vuota, come se le sue parole mi avessero staccato un pezzo dall'interno.
«Non mi importa di niente» sussurro, ma non so esattamente a chi. Poi mi volto anch'io verso la parte opposta.
—
Riesco a sentire le voci dei miei genitori anche attraverso la porta, prima di entrare in casa. Le parole non riesco a distinguerle, e ormai non mi impegno neanche più nel farlo, nel provare a cercare una soluzione, quel fantomatico filo rosso che inevitabilmente dovrebbe essere il conduttore che anche ogni più piccola cosa attraversa.
Giro la chiave automaticamente e la serratura scatta, sento anche le pareti di questa casa arrendersi all'inevitabile. Vado verso la mia stanza e sto per chiudermi la porta alle spalle per restare anche solo metaforicamente fuori da tutto il resto, rinchiusa tra mura che forse non possono essere raggiunte, che forse oggi resistono ancora, ma poi comprendo il motivo delle grida, delle parole trascinate e degli insulti sputati fuori senza il minimo tentativo di essere nascosti. Ho trovato il punto in cui quel filo rosso ha definitivamente ceduto, spezzandosi per non farsi più ricucire.
«Ti hanno vista, non puoi più negarlo» dice mio padre, la voce scossa e il respiro pesante.
«Chi?» domanda mia madre tentando di uscirsene, di salvarsi anche quando a peccare è lei.
«Non importa chi!» Grida mio padre, si ferma solo per un istante e poi continua. «Dimmi da quanto va avanti.»
«Non va avanti niente!» Questa volta è mia madre ad alzare la voce, senza rendersi conto che questa battaglia oggi l'ha persa in partenza, che adesso è diventato un gioco di ruoli alla pari, che tanto vale sbattere quella porta un'ultima volta e finirlo, senza vincitori né vinti.
Evan in casa non c'è, e io mi chiedo cosa farebbe o penserebbe lui se fosse qui adesso. Se la rivelazione di mia madre lo rianimerebbe o lo lascerebbe nello stato in cui è adesso, apatico e fermo, bloccato da qualcosa che forse non conosco nel modo in cui credevo.
Le grida continuano mentre io sono seduta al centro del letto con un ginocchio portato al petto e un altro piegato, i piedi nudi sono scossi da brividi di tanto in tanto. Le sento attraverso la porta, arrivano fino a me e bucano la piccola sfera sicura in cui avevo creduto di potermi rifugiare, di poter fuggire almeno stavolta.
Quelle che inaspettatamente fanno male sono le parole di mio padre, perché nonostante tutto, il tono e il modo in cui le pronuncia rivelano quello in cui si sente, l'ultima battaglia che sta affrontando dentro.
«Non sarai mai in grado di capirmi» gli dice mia madre, e io so che ha ragione. In parte, forse, ma ne ha. Non sono mai stati compatibili, neanche quando le cose andavano meglio e neanche quando io credevo ancora che avremmo potuto superarle, che in qualche modo ci saremmo riusciti. Lo vedo come si guardano, come si trascinano ogni singolo giorno e come si allontanano di quel poco che basta sempre di più, per mettere una fine a qualcosa che non è neanche iniziato.
È per questo che non ci credo più. Nelle persone, in un legame fondato su promesse che vengono infrante per poi essere ripetute dopo aver visto le lacrime sul viso solcato della persona che si sta portando a fondo. Quello non è amore, ma pietà; è la paura di restare soli, di dover affrontare delle battaglie senza poter riversarsi sull'altro; di doversi assumere le proprie colpe perché qualcuno da incolpare non c'è più, ci sei soltanto tu. E non basta perdonare, non basta neanche la compassione, perché il tempo potrà guarire, ma la cicatrice resterà sempre lì, a vista e pronta per essere riaperta dalla prossima promessa spezzata.
Non sono sicura di quante ne siano state infrante stasera, di quanto tempo trascorra prima che senta mio padre attraversare il corridoio. Il vuoto è rotto da un silenzio che mi rimbomba nella mente e che riempie una casa fatta soltanto di mura crepate, crollate per l'ultima volta quando mio padre sbatte la porta per non tornare più.
Mi rendo conto della singola lacrima caduta sul mio volto soltanto quando questa scivola fino ad arrivare a sfiorarmi il mento, poi il collo. Sono seduta al centro del letto con il cellulare tra le mani, e le mie dita si muovono lentamente, con esitazione. Leggo il nome di Eve sullo schermo, ma so che sarebbe egoistico crollare sulla sua spalla stavolta, quando dovrebbe essere lei a lasciarsi andare contro la mia.
Così compongo il numero di Darlene, solo che lei non risponde. Non riprovo ancora, perché è già tanto per me che io stia cercando aiuto adesso, qualcuno che mi allunghi una mano per tenermi insieme prima che rischi di rompermi ancora, e lo sento nel mio corpo lo sforzo che sto compiendo nel farlo.
I miei occhi cadono sul nome di Harry, sulle lettere che compongono il suo nome, e anche se ogni singolo muscolo implora per poter sentire anche soltanto la sua voce, so che non posso chiamare neanche lui. Dopo Froy e le mie parole non ho avuto il coraggio di cercarlo, e non si è trattato di orgoglio, perché avevo bisogno di rendermi conto da sola di come stessero le cose, di come mi sentissi io dopo tutto quanto.
Avevo pensato spesso alla possibilità di rivedere Froy, a dove sarebbe potuto succedere e a come sarebbe stato, ma non avrei mai immaginato che sarebbe successo quella sera, e che l'avrei rivisto proprio al locale. Non ero neanche sicura che fosse a Bath, che fosse rimasto qua, dove d'aria per entrambi non ce n'era abbastanza.
Alla fine, in qualche modo sono arrivata. Ed è stato istintivo, non l'ultima scelta, quella che devi prendere perché le altre sono già state occupate.
Risponde dopo poco. «Mia? Che bello sentirti, ti pensavo oggi.»
Io sorrido debolmente, per metà assente. «Davvero? Perché?»
«Sono stata in quel piccolo bar, quello che ti piace tanto e in cui siamo state insieme.» La voce di Callie è calma, leggera come tutte le volte. Mi chiedo come faccia, come ci riesca. «Ci possiamo tornare qualche volta, se ti va.»
Io annuisco prima, è dopo che anche le parole scivolano fuori. «Sì, certo.»
C'è una piccola pausa, poi Callie se ne rende conto. Lo fa perché lo sa che io non l'avrei mai chiamata, perché odio parlare e perché non so farlo, sono più i silenzi quelli che riempiono gli spazi quando succede. Sa che le avrei scritto, che non l'avrei chiamata. È stata una delle prime cose che Eve ha capito di me; Callie invece l'ha imparato quando mi ha vista declinare una chiamata più volte e scrivere un messaggio subito dopo.
«Mia, stai bene?»
«Io...» inizio, mentre chiudo gli occhi e mi porto una mano sul volto fino ad arrivare a passarla tra i capelli. Poi alla fine dico quello che rispondo sempre quando me lo viene chiesto, anche se so che stavolta è più difficile da credere; che anche per Callie sarà difficile credermi. «Sto bene.»
«Perché mi hai chiamata?»
Io esito, poi sospiro. «Nessun motivo preciso, l'ho fatto e basta. Non ti preoccupare.»
«Difficile, ma ci provo» mi risponde lei senza tentare di nascondere niente. «Ma se avessi bisogno di qualcosa chiamami di nuovo, va bene?»
Scrollo le spalle, soppesando questa telefonata e chiedendomi se sia stata una buona idea. «Certo.»
E così la chiamata si chiude, io guardo ancora una volta il cellulare fino a quando lo schermo non diventa nero prima di lasciarlo cadere sul letto. Mi ravvivo i capelli dietro le orecchie in un gesto automatico, poi mi alzo e a piedi ancora nudi raggiungo la cucina; mia madre non è più qui.
Non posso fare a meno di chiedermi cosa dovrei fare, quale sarebbe la cosa giusta, se sia il caso lasciarla da sola adesso. Solo che io non sono mai riuscita a consolare le persone, non l'ho mai saputo fare. Da piccola se vedevo qualcuno piangere l'istinto era quello di piangere insieme a lui, come a prendere un po' del suo dolore provando a farlo mio. Non importava molto se lo conoscessi o meno, chi fosse. Piangevo anche io per compassione, per condivisione. Poi le cose sono cambiate nel corso degli anni, perché ho iniziato a rendermi conto che versavo troppe lacrime che non avevo, che mi stavano prosciugando lentamente. Tanti, troppi, hanno approfittato della mia compassione, delle mie lacrime. Così ho smesso: di piangere per gli altri, e di piangere per me. Ho cominciato a vederla come una debolezza; piangere davanti agli altri era una delle cose che più ho cercato sempre di evitare, voltandomi, mordendomi l'interno delle guance e sollevando gli occhi verso l'alto, e così facendo mi sono forzata a tal punto da essiccarmi, da non avere neanche più una singola goccia, che fosse per me o per qualcun altro. Ho chiuso tante volte tutto fuori, tenendo solo me all'interno, protetta in qualche modo dal giudizio e da chi avrebbe potuto riportarmi allo stadio precedente, ad essere la Mia piccola e indifesa che ero stanca di essere.
Riempio un bicchiere con dell'acqua e mi siedo al piccolo bancone, il mio sguardo corre fuori, attraversa la finestra del balcone di fronte a me e mi accorgo che il sole sta quasi per tramontare.
È così che decido di andare via, di uscire, perché mi sento ancora soffocare tra le mura di questa casa.
Prima che mi annullino completamente mi alzo e svuoto il bicchiere nel lavello, lo risciacquo velocemente più volte e poi lo ripongo nella credenza.
—
Non sento più le lacrime sommesse di mia madre mentre sto per uscire dalla mia stanza, quando vedo il taccuino che Harry mi ha portato in ospedale sulla scrivania, ancora immacolato e completamente spoglio. Non so cosa farne, non so come usarlo e forse mi manca anche il coraggio, perché so che in qualche modo sbaglierei, che pur non sapendo cosa Harry ci scriva nel suo, io non sarei mai in grado di usarlo nel modo in cui lo fa lui. L'ho tenuto spesso tra le mani, l'ho guardato e ho sfiorato le pagine; certe volte non sono mai riuscita a farlo per molto tempo. Senza pensarci lo prendo e lo lascio ricadere nella borsa, sentendo il leggero rumore che produce quando collide con le altre cose che ci sono al suo interno.
Passo per il corridoio fino ad arrivare alla stanza di mia madre; è sdraiata con entrambe le braccia ripiegate sotto la testa, sopra il cuscino. Dorme, il respiro è regolare ma lo stampo del senso di colpa sul volto riesco ancora a leggerlo, anche se una tregua la merita pure lei. Un po' di pace la meritiamo tutti.
Mi avvicino piano e faccio una cosa che non si aspetterebbe, che non mi aspetterei neanche io e che non faccio da tempo. Mi abbasso su di lei e le lascio un bacio tra i capelli, quasi sulla fronte.
Poi, con un sospiro mi volto ed esco dalla stanza, infine da questa casa.
A/N
Dopo quasi un mese sono finalmente riuscita a finire questo capitolo. È abbastanza pesante e distruttivo per certi versi, me ne rendo conto, ma spero davvero che alla fine della storia possiate capire e comprendere ogni mia scelta.
Spero che nonostante tutto vi sia piaciuto, e se si va fatemi pure sapere cosa ne pensate, cosa vi aspettate!!
Vi abbraccio 🦋
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