epilogo - utopia

A Martina
A Carmela
E a chi ha
il coraggio
di restare

Can't help falling in love - Haley Reinheart (cover)

Cammino confondendomi tra la gente come ogni giorno, però oggi è diverso. È una calda giornata di aprile e il sole riscalda le mie braccia scoperte, ma sto bene.

Ho pensato tanto a questo giorno: a come sarebbe andato e se poche ore possano addirittura farmi vacillare dall'equilibrio che, dopo tanto tempo, sono riuscita a ritrovare. Provo a non avere alcuna aspettativa; questa è una di quelle cose che non sono cambiate.

Il mio passo è sempre veloce e costante; fa sempre parte di quelle cose. Nonostante tutto questa abitudine non l'ho mai persa. Ad essere cambiato è il fatto che ho imparato a fermarmi: per comprendere, per concedermi il tempo che non mi sono mai concessa, per prendere aria prima di ripartire.

Seguo le indicazioni che ormai ho memorizzato, perché ci sono passata davanti talmente tante volte che potrei arrivarci in qualunque condizione. Lo vedo da lontano, dall'altra parte del marciapiede. Lo vedo e sono già senza fiato, anche se mi trovo soltanto all'inizio di questo epilogo.

Recupero il biglietto che ho stampato ieri e lo tengo stretto tra le mani come se fosse la cosa più preziosa che abbia mai trattenuto tra le dita. Varco l'ingresso e timbro il biglietto, poi supero i tornelli: sono dentro. Mi avvicino al tabellone con la planimetria e sento il cuore accelerare quando trovo quello che stavo cercando, quello per cui sono qua oggi. Memorizzo le indicazioni perché non voglio dover indugiare ancora; salgo le scale e nel frattempo mi guardo intorno provando ad assorbire tutto quello che questo posto racchiude e che ho sognato per anni. Vorrei potermi fermare ad osservare, a studiare qualcosa che non ho mai visto; vorrei potermi stupire davanti ogni singolo angolo, ma per farlo avrò altro tempo. Per farlo tornerò.

Mi fermo solo quando sono davanti alla stanza giusta, a quella che mi sono chiesta come fosse e se fossi mai riuscita a vedere da vicino. Eccoci qua, Mia: sei a un passo da uno dei tuoi sogni più grandi.

Ho trascorso ore ad immaginare la disposizione di questa sala, di essere da sola così da potermi prendere tutto il tempo di cui avessi bisogno; di ripagarmi per tutta l'attesa. Il mio sguardo si sposta da una tela all'altra con il cuore già pieno, ma è quando mi avvicino al mio che si ferma completamente. Provo a sospirare ma mi manca il respiro: nonostante tutto il tempo passato a sognarlo, neanche la più vivida immaginazione riuscirebbe a raggiungere anche minimamente quello che io ho davanti adesso e che sto guardando con il cuore letteralmente tra le mani. Sento gli occhi riempirsi di lacrime, mentre riesco quasi a percepire i movimenti del pennello come se i colori fossero scivolati in quel modo sulla mia pelle e non sulla tela. Solo che manca ancora qualcosa; ed è quel pezzo che ha lasciato un vuoto nel mio petto che niente e nessuno potrà mai colmare se non lui.

Le poche persone che ho distrattamente intravisto mentre vi entravo escono dalla sala improvvisamente, e lo fanno tutte insieme. Ci sono dei sussurri, delle voci ovattate e poi dei passi. Dei passi che posso appartenere soltanto ad una persona. Sono quei passi. Quelli leggeri, lenti, resi dal suono che la suola dello stivaletto produce quando colpisce il pavimento.

Non mi volto ancora, ma so che è qui. Lo sento. Percepisco il cuore rimbombarmi nel petto con la sensazione che possa arrestarsi da un momento all'altro per quanto i battiti siano accelerati. E so che è lui perché non è cambiato niente; lo riconoscerei ovunque. È passato così tanto.

Si ferma al mio fianco, esattamente davanti al quadro. Esattamente come ci eravamo silenziosamente promessi un anno fa.

«Nessuno guarderebbe Van Gogh nel modo in cui lo guardi tu» dice, ed è come se la sua voce la sentissi per la prima volta e allo stesso tempo come se non avessi mai smesso di ascoltarla. Mi sembra più profonda, e all'inizio è sempre un po' rauca. «Vorrei che tu potessi vederti con i miei occhi per rendertene conto.»

Mi volto. Piano, lentamente e con il terrore che lui possa scomparire, che la persona che ho affianco sia soltanto frutto della mia immaginazione, di qualcosa che ho sperato così tante volte da renderlo quasi reale ai miei occhi. Solo che questa volta non lo è. Stavolta c'è, ed è qui, al mio fianco come lo era un anno fa sul suo letto mentre guardavamo soltanto un'imitazione dell'opera d'arte che abbiamo davanti.

Vorrei che tu potessi vederti con i miei, adesso vorrei rispondergli, ma non è quello che faccio. Sospiro e mi incanto a guardarlo: ha un accenno di barba e i capelli sono leggermente più lunghi; li porta sempre verso l'alto e riesco ancora a vedere le sue mani incastrate tra le ciocche. Sulle dita ci sono due anelli che non conosco: uno ha la forma di una rosa e l'altro è un semplice intreccio in argento tra due fili sottili. Mi fermo a pensare se la rosa sia per me.

«Lo è» risponde alla mia domanda inespressa ancora prima che io possa dire una parola. Dopo tutto questo tempo, riesce ancora a leggermi come se le mie pagine fossero tutte aperte davanti ai suoi occhi. «Portare una rosa sulle dita mi ha permesso di sentirmi ancora legato a te. Come se ci fossi ancora tu.»

Vorrei dirgli anche che lo siamo ancora e che probabilmente non smetteremo mai di esserlo, neppure se saremo lontani. Ho imparato che certi legami non li puoi spezzare neanche con la forza, che prima o poi il modo per tornare lo trovano sempre. Alcuni lo fanno silenziosamente, restano dormienti e il dolore delle mancanze si tramuta in ricordi, altri invece lo fanno prepotentemente; ti squarciano fino a che non riesci a sentirli fino all'ultimo millimetro, fino a che non arrivi a quel punto in cui tutto si è frantumato. In quel caso è il ricordo che diventa dolore, mancanza. Non sono ancora sicura a quale appartenga il nostro.

«Harry» sussurro, come se bastasse per riempire il silenzio delle risposte che non sono in grado di dargli.

«Mia» replica, lentamente e intensamente. Mi è mancato come se fossi in cerca d'acqua nel deserto.

Guardarlo, con la luce debole che gli colpisce il volto e il riflesso dei colori della Notte Stellata mi fa mancare il respiro.

«Eri qua, mi hai aspettato ad entrare. Vero?»

Abbassa un po' la testa, la scuote e poi sorride. La rialza per rispondermi. «Ero qua prima che arrivassi tu, fermo dall'altra parte della strada. Volevo darti del tempo da sola, del tempo che meriti per viverti ogni singolo istante di quello che hai aspettato per così tanto. Volevo che l'attesa ti ripagasse per ogni secondo.»

E lo ha fatto. «E hai chiesto tu a tutti quelli che erano in questa sala di uscire?»

«Potrei averlo fatto» ammette, e sento d'improvviso il cuore talmente pieno da credere di non riuscire a contenere tutto. Questa volta sono io a scuotere piano la testa, e mi mordo debolmente le labbra cercando di reprimere il sorriso che mi occuperebbe l'intero volto.

Torno a spostare lo sguardo su ciò che ha permesso che oggi fossimo qui entrambi.

«È così...» inizio, poi sospiro e mi fermo. Ho paura che qualsiasi cosa dica risulti minimale, che nessuno possa eguagliare, con le parole, tutte le sensazioni che suscita la vista di quest'opera. E mentre io sono ancora affetta dalla sindrome di Stendhal, Harry prova a rispondere. Lui è sempre stato bravo con le parole.

«Puro» dice, guardando il quadro ancora per qualche secondo prima di guardare me. «Come lo sei sempre stata tu.»

Ricambio il suo sguardo sincero per un tempo che non riesco a quantificare, poi i miei occhi, ancora rapiti, ricadono su Van Gogh. «È infinite volte più bello di quanto abbia mai immaginato.»

Sospira: «Sì, lo è.»

Non sono più tornata a Bath dopo la mia partenza. Prima ci siamo visti, anche se ci eravamo già lasciati andare. Siamo stati un'ultima volta insieme la notte prima che io partissi, e ricordare com'era mi ha quasi fatto desistere. Harry sarebbe stato l'unico motivo per cui avrei rinunciato a tutto, ed ero pronta a farlo. Non ero mai stata quel tipo di persona e mai credevo lo sarei diventata, ma con lui è cambiato tutto; ogni abitudine, ogni certezza. Ero pronta a perdermi con la consapevolezza che ci sarebbero state le sue braccia a riprendermi. Solo che lui non me lo ha permesso, e questo ha solamente alimentato i miei sentimenti verso di lui. Mi ha risvegliato dall'apatia in cui stavo precipitando senza avere la minima volontà di ostacolarla.

«Per me un caffè lungo,» dice Harry, poi guarda me. Non mi ero neanche resa conto del cameriere accanto al nostro tavolo. «Per te, Mia? Un cappuccino con cacao e poca schiuma?»

Sorrido e annuisco; il cameriere si allontana da noi con il block notes tra le mani. «Te lo ricordi.»

«Ricordo ogni cosa, se si tratta di te.» Ha ancora quell'attenzione e quella cura che mi hanno permesso di innamorarmi di lui sin dal primo istante in cui non ha esitato a mostrarmi la sua delicatezza e la sua gentilezza verso il mondo, anche quando non la meritavano. Il suo passato non l'ha mai cambiato, l'ha solo reso migliore; l'uomo che oggi è di fronte a me, in questo piccolo bar di New York.

Le nostre ordinazioni fanno capolino sul tavolino ancora fumanti. Zucchero il mio cappuccino e poi giro il cucchiaino al suo interno. Harry prende il suo caffè amaro.

«Non ho mai capito come tu possa riuscire a berlo così» dico arricciando le labbra e posando il cucchiaio sul piattino, accanto alla tazza.

Harry ride, e quando lo fa gli compare una fossetta sul viso. È bellissimo, e anche questo non è mai cambiato. «Immagino che certe abitudini siano dure a morire.»

«Immagino di sì,» replico guardandolo. Mi ridesto prendendo la tazza tra le mani. «Allora, quando sei arrivato a New York?»

«Due giorni fa,» risponde. «Sto in un motel nella periferia.»

«Io ho un piccolo appartamento a Brooklyn» annuncio scrollando le spalle. Mi sono trasferita quasi subito dopo la laurea, ma non ho ancora deciso chi voglio essere. «Non è granché, ma mi basta. Ho tutto ciò di cui ho bisogno.»

Harry sorride, quel sorriso in cui incurva solo un angolo delle labbra verso l'alto. «Tutto?»

«Beh, dipende dai punti di vista. Sono una che si abitua.» E ho dovuto abituarmi a tanto durante l'ultimo anno. «E tu, invece?»

«Ho passato tre mesi a Budapest,» mi informa dopo aver bevuto un po' del suo caffè. «Troppo fredda.»

Sorrido e appoggio una mano sul tavolo. «Più fredda di Bath?»

Harry solleva la sua mano, gesticolando mentre mi risponde. «Non hai idea, Mia. Anche nella stanza in cui mi appoggiavo, più volte ho pensato di ibernare.»

Scuoto la testa, ancora sorridendo. «Esagerato.»

Scrolla le spalle. «Vedere per credere.»

«Magari» mormoro, e mentre porto la tazza alle labbra vedo Harry sorridere.

«Hai tagliato i capelli» constata. Annuisco e lui accenna un ulteriore sorriso; sa che non si tratta soltanto di un innocente taglio di capelli. «Sembrano anche più chiari.»

«Lo sono,» confermo. «Un po', ma ne avevo bisogno. Volevo ricominciare.»

«E non sei mai stata più bella, Mia. Te lo assicuro.» Io continuo a guardarlo come se fosse la prima volta, come se non fossimo mai stati distanti neanche per un secondo. «New York ti accende.»

Durante l'ultimo anno ho imparato che senza una persona si può sopravvivere, che si va avanti lo stesso anche se non lo si vorrebbe. Ho imparato che il tempo non cura le ferite, ma ti fa credere di averle risanate temporaneamente. Ho imparato che alle mancanze e alle assenze ci si abitua, che alla fine non passa mai. Ho imparato che i vuoti restano, e che ognuno sarà sempre troppo grande o infinitamente piccolo per poter essere perfettamente riempito e colmato.

Ho sempre promesso a me stessa che non sarei mai dipesa da nessuno. Che ce l'avrei sempre fatta da sola, che mi sarei rialzata sulle mie braccia e che i pezzi di me stessa li avrei trovati e rimessi insieme con le mie mani, uno ad uno, fino a che non mi sarei ricomposta.

Ho pensato spesso a Eve, a Darlene e alla mia famiglia, ma ho dovuto fare una scelta, e ho deciso di lasciarmi tutti alle spalle. Per molti può essere parsa una scelta egoistica, ma avevo bisogno di allontanarmi, di recuperarmi e di ritagliarmi il mio posto nel mondo, e non sono sicura sia New York, ma so che non era Bath. L'ho sempre saputo.

Ho pensato a mio fratello, a mia madre e a mio padre, a come sia la loro vita adesso. Non ho più visto nessuno di loro dopo la mia partenza, ma sono costantemente in contatto con Evan. So che mio padre vive in un piccolo monolocale in periferia, e che ha un'altra persona al suo fianco. So che mia madre si sta lasciando aiutare, che anche lei ha trovato una persona da cui rifugiarsi. So anche che Evan spesso si sente solo, che a soli diciassette anni crede di aver il mondo contro e forse è davvero così; so che durante il weekend lavora al Midnight Memories perché i soldi continuano a non essere mai abbastanza, e so che certe volte vorrebbe solo scappare. Andare via come ho fatto io. Spero che resista, che possa farcela, perché la fragilità gliela si legge ovunque; sulle linee del volto, nella posizione in cui tiene le spalle e negli occhi. Mio fratello non è mai stato come me, anche se ci ha provato. Lui le cose non riesce a non sentirle, non riesce a portare rancore e a creare muri separatori con le persone che ama e che gli sono accanto. Evan è buono, è puro, e lo è in un modo in cui io non lo sono mai stata, anche se Harry crede il contrario. Lui lo ha conosciuto, e so che anche dopo la mia partenza si sono incontrati. Spesso lui è andato a Midnight solo per fargli compagnia, per assicurargli che non fosse solo, che se ne avesse avuto bisogno sarebbe stato come avere me lì. È sotto la sua protezione e quella di Matt; posso contare su entrambi come se si trattasse di loro fratello. Per Harry è stato doloroso all'inizio, ma gli ha dato la possibilità di recuperare quell'istinto e quel senso di protezione che temeva di aver perso. Evan sa che può correre da me in qualsiasi momento, specialmente dopo che avrà finito le superiori. Io sarò sempre pronta ad accoglierlo, nonostante sia consapevole della considerazione che ha su di me.

Qualche volta sento Darlene, anche se non è più come prima. A Bath si sta costruendo una vita, è ancora con Matt e sta finalmente respirando la felicità che merita. Spero di rivederla un giorno.

Il rapporto che ho con Callie, nonostante la distanza e nonostante le vie diverse che entrambe le nostre vite hanno intrapreso, è più solido di quanto potessi mai immaginare. Mi è stata accanto nella mia scelta e non mi ha mai ostacolata, mi ha riscaldato con i suoi abbracci delicati fino all'ultimo minuto e mi ha sempre fatto sentire più di quella che realmente sono. Giusta, valida, forte e bellissima. In grado di poter fare qualsiasi cosa. Ha promesso che prima o poi verrà negli Stati Uniti per riscaldarmi ancora un po' e per farmi riprovare quella sensazione di casa che sono riuscita a sentire poche volte, così non posso fare altro che aspettarla.

Ho pensato tanto a Eve. Nonostante tutto, nonostante non sappia dove sia, se stia bene e se sia riuscita a trovare un po' di pace. Dopo la sua lettera non ho più avuto contatti con lei. All'inizio ha fatto male, talmente male da sentire un vuoto nel petto che bruciava per la sua assenza. Mi sono aggrappata a lei così tanto che quando ha deciso di uscire dalla mia vita ho perso un ennesimo pezzo che non riavrò più indietro. Con lei nel nostro per sempre ci credevo, in tutte le sue parole credevo, ed è stato questo a farmi più male. Le custodisco tutte, insieme alle ultime che mi ha riservato nella lettera. Non condanno la sua decisione, ma mi sarebbe bastato un perché. In ogni caso, ho dovuto farci i conti e abituarmici. Non è ancora semplice, ma adesso fa un po' meno male; quel vuoto si è trasformato in tutti i ricordi che possiedo con lei. Preferisco ricordarla in questo modo che con un rancore e un risentimento che non appartengono né a me, né a lei. E so che in qualsiasi parte del mondo lei sia stata, sia e sarà, è sempre la mia persona.

«Hai un altro tatuaggio» constata Harry, e il mio sguardo cade sul mio petto. A sinistra, poco sopra il seno. Dalla camicetta che indosso è molto visibile.

Annuisco. «È una piccola scritta, volevo farla da un po'.»

«Breathe» legge in un sussurro, e sento la pelle ricoprirsi di brividi. È quasi come se me l'avesse tracciato con le dita soltanto pronunciandolo. Non fa domande, perché possiede già tutte le risposte. L'ho fatto qui, a New York, poco dopo essere arrivata. Sento la pelle bruciare sotto il suo sguardo.

«Cos'hai fatto per tutto questo tempo?» Mi domanda invece, con le mani intorno alla sua tazza ormai vuota.

Io esito, ma è solo per un istante. Poi le parole scivolano via dalla mia bocca, libere e senza alcuna barriera. «Ho aspettato te.»

Harry mi guarda. Non si aspettava una risposta del genere; non adesso, forse. Sono rimasta ancora la Mia razionale e che pensa troppo, anche se con lui ho miserabilmente fallito ogni volta. Mi ha cambiata, e lo ha fatto in meglio. Quella parte di me esiste ancora, ma lui l'ha modellata in modo tale che non continuasse a farmi troppo male conviverci.

«E ho letto il tuo taccuino talmente tante volte da averlo consumato» gli dico, imbarazzata ma senza timore. Con lui non riesco a non essere sincera, spoglia e trasparente come non lo sono mai stata per nessuno. Il taccuino me l'ha lasciato prima che partissi, ma è stato dopo che l'ho trovato, sepolto dai vestiti sul fondo della valigia. È stato come spezzarmi il cuore ancora una volta e poi ricomporlo, pezzo dopo pezzo ad ogni pagina.

Sorride. Mi è mancato da morire. «L'ho fatto anch'io con il tuo.»

Sorrido di rimando. L'ho immaginato tante volte mentre leggeva quello che avevo scritto, di lui e di me, di quando eravamo insieme; delle mie debolezze, del modo in cui mi ha sempre guardata e di quello in cui io ho poi, inevitabilmente, guardato lui. L'ho immaginato mentre scorreva le pagine con le polaroid del mare che abbiamo ascoltato e guardato insieme tante volte, dei tramonti, dei libri sulle lenzuola; quelle che lo ritraevano mentre era distratto e quelle in cui era cosciente del fatto che lo stessi fotografando. L'ho immaginato mentre tracciava con le dita i miei disegni, le parole che calcavo di più. Io ho tenuto per me la rosa che ho lasciato essiccare; la bellissima rosa blu che mi ha portato insieme al taccuino.

«Non mi hai mai detto cosa ne pensi» gli chiedo indirettamente.

«Sei tu, Mia» dice, sicuro. «Sei incisa in ogni singola pagina, in ogni singola parola e in ogni spazio che hai lasciato vuoto.»

Non rispondo. Assorbo ogni sua parola e la lascio entrarmi fin sotto la pelle, fino al cuore. è ancora lui a continuare. «Come lo chiameresti?»

Mi prendo il mio tempo per pensarci, perché non l'avevo mai fatto prima. Non avevo mai pensato che potesse avere un nome. Rifletto per qualche istante e la parola scivola da sola sulla punta della lingua. «Utopia. Lo chiamerei Utopia

Harry sorride. «Utopia,» ripete, e quando lo fa sembra velluto attraverso le sue labbra. «La mia sei tu.»

Il resto del tempo lo trascorriamo anche in silenzio, fermandoci soltanto a guardarci, a capire quanto dell'altro sia cambiato dall'ultima volta. Lui è sempre il mio Harry, dal leggero velo di peluria che ha sul volto agli occhi verdi, al sorriso completato dalla fossetta ai lati delle labbra.

Il cameriere passa al nostro tavolo chiedendoci se abbiamo bisogno d'altro, ma entrambi finiamo per negare e renderci conto che, per adesso, il nostro tempo è finito. Sta a noi decidere se farlo terminare in questo bar o prolungarlo.

Harry insiste per pagare, e io glielo lascio fare. Avrei voluto farlo io per lui, ma è fermo sulla sua posizione. Quando apre il portafogli intravedo una foto al suo interno. Non è una delle polaroid che c'erano nel mio taccuino, è una che non ho mai visto, ma sono ritratta io sulla superficie. Harry si accorge del mio sguardo e la sfila dal portafogli; appena la tiene tra le dita, rivolta verso di me, il ricordo quasi mi devasta. Ci sono io a casa sua, con la testa appoggiata sul cuscino e una mano tra di essi; ho il capelli sparsi sulle lenzuola e l'accenno di un sorriso che gli avevo riservato quando l'avevo visto prendere la polaroid e avvicinarsi. Prima avevo obiettato, ma ho finito per il cedere, come ogni volta. Avevamo appena fatto l'amore, e il mio corpo completamente scoperto ne è testimonianza. Il cuore mi fa male al pensiero che lui mia abbia letteralmente in ogni istante con lui, ancora adesso.

«È sempre stata la mia preferita, insieme a quella dove sei di profilo e guardi il mare» mi rivela, e io non avrei mai potuto immaginare una cosa del genere. Prendo la polaroid e la accarezzo piano con le dita, guardando quanto mi sentissi giusta, in quel momento, con lui, dopo tanto. Adesso mi sento un'egoista ad averlo lasciato, anche se è stata una scelta voluta da entrambi. Gliela restituisco e le nostre dita si sfiorano inevitabilmente. Mi chiedo come possa essere così difficile amare qualcuno, e quanto possa fare male volere il bene di una persona pur decidendo di farsi da parte per potersi ritrovare.

Usciamo insieme dal locale e camminiamo verso una piccola piazza. «Quindi, come trovi l'America?» gli domando mentre lo guardo.

Lui tiene il suo sguardo fisso davanti a sé. «Ha indubbiamente un fascino non indifferente, ma non so se riuscirei a viverci. Sembra talmente caotica, così...»

«Sfuggente» rispondo io per lui stavolta, e si volta verso di me quando lo faccio.

«Sì,» conferma. «È un po' come te.»

Rido piano, sapevo che l'avrebbe detto. «Sto migliorando.»

Arriviamo in prossimità di una stazione metropolitana, ed è qui che ci fermiamo. «Io la prendo da qui per tornare a Brooklyn.»

«Io devo prendere un taxi,» dice. «Credo che nessuna metropolitana arrivi vicino al motel.»

«Fino a quando resti?»

«Dopodomani» risponde velocemente, come se così risultasse più indolore. Non so che cosa dire.

«Ci rivedremo?» gli chiedo, perché non posso più evitarlo.

Harry non esita, ma la rassegnazione nel suo sguardo è una risposta che non mi aspettavo, non rispetto alle sue parole. «Lo spero tanto.»

Annuisco e poi mi avvicino a lui, gli avvolgo lentamente un braccio intorno al collo e a lui basta qualche istante, poi le due mani sono intorno ai miei fianchi e mi stringe talmente delicatamente da fami intensificare la presa intorno alle sue braccia. Ho una mano tra i suoi capelli e la testa quasi poggiata sul suo petto; il suo mento è sulla mia spalla. Penso al suo taccuino che porto sempre con me nella borsa e alla mia foto che lui ha con sé nel suo portafogli.

«Harry...» inizio, sospirando e con la voce che temo possa frantumarsi da un momento all'altro. Sorrido anche se non può vedermi mentre gli accarezzo i capelli alla base del collo con le dita.

«Voglio che tu sappia che ogni singolo frammento del mio cuore e di tutto il resto non ha mai smesso di amarti neanche per un istante.»

«Neanche il mio» risponde dopo qualche secondo, la voce ridotta ad un sussurro e quasi spezzata, perché questo sembra un addio nonostante nessuno dei due sia in grado di fare un passo indietro e allontanarsi per primo dall'altro.

Porto anche l'altra mia mano sul suo volto spostandomi dalla sua spalla; avvicino la fronte alla sua fino a farle sfiorare. Chiudo gli occhi: ho bisogno di ricordare ogni cosa e di poterla portare con me ovunque io sia. Che resti a New York, che lo riveda domani, che non succederà più. Ma ne ho bisogno adesso.

Anche una sua mano raggiunge il mio viso mentre l'altra resta intorno alla mia vita; adesso è lui a necessitare del contatto che ci siamo negati durante tutti questi mesi. Lo sento nel suo respiro, nelle sue mani. Le sue labbra raggiungono le mie senza esitazioni, velocemente ma gentilmente, e non trovano alcuna resistenza. Le mie dita sono intorno alle sue mentre mi bacia come se fossi fatta di carta, come se tenesse tra le mani direttamente le mie parole. Ci allontaniamo e lui ha ancora chi occhi chiusi; si prende le labbra tra i denti e poi li apre: continuano a farmi vacillare, anche dopo tutto questo tempo. Vorrei solo poter non lasciarlo più andare via. Ma questo non è possibile; non oggi.

Gli accarezzo il volto con entrambe le mani e poi vado verso le scale. Lo guardo ancora per qualche istante: le linee del suo volto, il naso perfetto e le sopracciglia folte; guardo le sue spalle e i tatuaggi che la maglia a maniche corte lascia scoperti. Imprimo tutto nella mia mente, come se fosse l'ultima foto che io possa possedere di lui. Per ultimi lascio i suoi occhi, puri e trasparenti, che mi hanno salvata quando era l'ultima cosa che volevo. Mi sfioro le labbra con le dita mentre lo guardo un'ultima volta prima di voltarmi e scendere le scale della metro. So che lui mi sta ancora guardando, che sa che non mi volterò più, perché altrimenti sarebbe un addio. E io ho bisogno di sapere che non lo è, che oggi non è stata l'ultima volta. Mi sbagliavo su tante cose e continuerò a sbagliarmi, come sul fatto che credevo questo fosse il nostro epilogo — e forse lo è — quando invece è solo il mio prologo.

A/N

Pubblicherò un'altra piccola parte insieme ai ringraziamenti entro un paio di giorni.

Grazie a chi è arrivato fino a qui, a chi ha visto Utopia sin da prima che nascesse e poi l'ha compresa in ogni sua sfumatura.

Io vi aspetto ancora.

Sempre,
Chiara

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