XVII. Mi comporto come un adolescente
Uranus
Sono trascorsi alcuni giorni dal collegio. Ho tanti pensieri per la testa, primo tra tutti Kronos.
È in fibrillazione per il suo torneo. Lo vedo mentre va in giro, cercando ogni tipo di informazione. E ammiro molto la sua forza di volontà, il suo impegno. So quanto meriti questa grande occasione e farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarlo.
Ma Kronos non si lascia salvare.
Sembra cercare ogni volta un nuovo modo di farsi male.
Mentre cammino a passo svelto verso il distretto di Hades, non riesco a far a meno di pensare a cosa potrei fare per tenerlo lontano dall'Arena.
Ogni suo incontro mi lacera l'anima. Ogni pugno ricevuto, ogni gancio evitato, mi distruggono pian piano. Kronos è mio figlio e vederlo sfidare la Morte, cercandola in modo così insistente, mi sta uccidendo.
Vorrei poter fare qualcosa, ma mi sento in un burrone, senza vie d'uscita. Mi manca l'aria al solo pensiero che possa accadergli qualcosa.
Se mi strappassero tutti gli organi, sentirei meno dolore rispetto a quando sono costretto a seguire gli incontri di mio figlio nell'Arena.
Sono bloccato in un limbo. Non voglio che partecipi, ma non posso impedirglielo. Potrei rinchiuderlo in casa, ma è claustrofobico e non vorrei che si sentisse male a causa mia.
Potrei legarlo al letto, ma risveglierei traumi di cui non ha ancora voglia di parlarmi, ma che non mi sono del tutto estranei. Non ne ha mai discusso con nessuno di noi, a quanto so, ma dai suoi atteggiamenti, quando ancora non si fidava né di me né dei suoi fratelli, non mi è stato difficile intuirne le motivazioni.
Posso solo immaginare quanto dolore covi dentro, vedo ogni giorno come questo lo stia lacerando. E voglio aiutarlo a liberarsene, ma non sopporterei mai di vederlo morire.
Kronos ha sempre un'arma in più: la sua intelligenza. Se anche lo fermassi, troverebbe comunque un modo per scappare e raggiungere l'Arena.
Scuoto il capo sconsolato e arrivo davanti al piccolo cottage di Hades. Do un paio di pugni alla porta e attendo.
La sento cigolare pochi istanti dopo e il mio migliore amico mi accoglie con un sorriso a increspargli le labbra, contorcendogli il volto in un'espressione serena. «Oh eccoti! Forza, dobbiamo metterci a lavoro. Artemis è già qui.»
Annuisco ed entro in casa. Amo quel posto, decisamente più adorabile e accogliente del mio castello gotico. Se avessi potuto, avrei voluto crescere in un posto simile i miei figli, insieme a mia moglie. La baita in montagna resterà per sempre un nostro sogno, che custodisco nel cuore con amore.
Sto imparando ad amare di nuovo, però. E mi sento ancora un ragazzino alle prime armi, confuso. Ho paura di prendere decisioni sbagliate o dire cose altrettanto strane. Eppure lei mi guarda come se fossi la persona migliore al mondo. E vorrei davvero aggrapparmi a quella convinzione, credere di meritare che degli occhi così belli splendano solo per me.
Mi lascio cadere su una poltrona e mi gratto la barba sul mento. «Quindi come procede la nostra cittadella?»
Artemis mi scruta con un sopracciglio inarcato. Stappa una bottiglia di vino e ne versa in tre calici. A volte mi chiedo perché ogni riunione coi miei amici si trasformi in una semi sbronza. «Va alla grande. Insomma, i nostri uomini stanno lavorando senza sosta.»
Annuisco e faccio roteare il vino nel bicchiere. Mi perdo ad osservarne le gocce rosse scivolare lungo le pareti di vetro. «In effetti, col mio labirinto sono stati abbastanza bravi...»
Hades ci guarda e scrolla le spalle. Prende a bere il vino, tracannandone il contenuto. «Come mai sei qui? Oggi c'era un incontro, che io sappia... infatti mi aspettavo venissi sul tardi.»
Mi irrigidisco di colpo. All'improvviso ho la sensazione di essere risucchiato in un buco nero, in un pozzo senza fondo.
Sono sicuro che questo incontro sia stato organizzato da quel genio bugiardo di mio figlio e che sia riuscito a tenermelo nascosto. Mi tiro in piedi. Le mani mi tremano nervose. Mi guardo intorno disorientato. Il panico mi assale e mi manca l'aria.
Artemis mi si avvicina e mi fa sedere sulla poltrona. Mi accarezza i capelli, tirandomi alcuni ciuffi all'indietro, con affetto.
Hades si tira in piedi e ci raggiunge, abbassandosi sulle gambe per darmi un'occhiata, mi poggia la mano sul petto e fa alcuni movimenti circolari, provando a calmarmi.
Non ho mai avuto fratelli o sorelle. Non avevo idea di cosa significasse avere una famiglia prima dei miei figli, eppure Artemis e Hades sono parte di essa.
Senza di loro, mi sentirei perso.
Senza di loro una parte di me morirebbe del tutto.
«Non è colpa tua, ci stai mettendo tutto l'impegno con lui...» Artemis mi accarezza comprensiva. «Non puoi salvare chi non vuole essere salvato, so che fa male. Ma sono sicura che sta bene ora, come sempre.»
Scuoto il capo. Io devo salvarlo. Dal primo momento che Kronos ha messo piede in casa mia, ho capito che avesse bisogno di me. Fin da quell'istante mi sono sentito legato a lui, l'ho sentito parte integrante della mia famiglia. Aveva una luce negli occhi e non gli permetterò di soffocarla.
Kronos è mio figlio, nonostante si ostini a dire di non esserlo realmente, per esorcizzare il suo terrore per i legami. E morirei per tenerlo al sicuro. Non lo farò morire in quella dannata Arena.
Mi tiro in piedi. Scuoto il braccio di Hades. «Dobbiamo distruggere quella Gabbia infernale... non gli permetterò ancora di combattere lì dentro.»
Il mio amico sorride sconsolato. Si libera degli occhiali da sole e mi scruta coi suoi occhi ambrati. Mi dà una carezza sulla spalla. «Va bene, ma non credi troverà comunque un modo per farsi ammazzare? Almeno nell'Arena puoi intervenire...»
Soppeso le sue parole e sospiro. Annuisco. Vorrei poter urlare dalla frustrazione, ma non ho il tempo di far nulla, perché la porta della casa di Hades si spalanca e Hyperion si abbassa sulle ginocchia a prendere fiato.
Di scatto, mi avvicino a lui e aggrotto la fronte. «Che diavolo succede?»
Hyperion deglutisce e scuote il capo, meccanicamente. «Kronos ha vinto in Arena, ma ne ha prese parecchie! Si sono presentati in tre tutti insieme!»
Raggelo sul posto. Se ci fossi stato, avrei impedito quella follia. Capisco perché mio figlio mi abbia tenuto nascosto questo incontro, perché sapeva benissimo che lo avrei ammazzato con le mie mani, se ci teneva tanto.
Non capisco più nulla. Esco di corsa da casa di Hades. I miei amici mi tallonano, così come Hyperion, che mi si affianca.
«Non ne sapevo nulla! Te lo giuro! Altrimenti gliel'avrei impedito.» Hyperion continua a giustificarsi. Mi fermo e gli poso le mani sulle spalle. Lo scuoto e lo tiro a me, abbracciandolo. Gli accarezzo i capelli e sento i suoi muscoli rilassarsi al contatto.
«Lo so, lo so. Non dipende da te. Non è colpa di nessuno di noi.» Gli prendo la mano e lo trascino con me. Corriamo veloci fino all'Arena.
L'aria è fredda e il sole filtra a stento tra la coltre coperta di foglie degli alberi. La sola idea che possa stare ancora male mi sta uccidendo.
Non sono pronto a vederlo in brutte condizioni, ma devo essergli vicino.
Sono consapevole che ci ritroveremo a discutere fino a tardi. Ma sono disposto a prendere anche a testate un muro pur di fargli capire che non merita tutto il dolore a cui si sta sottoponendo.
Iniziamo a incamminarci nei corridoi dell'Arena, ormai quasi vuota dal pubblico. Sfilo tra le persone che si stanno allontanando dopo lo spettacolo. Alcuni mi danno pacche sulle spalle, complimentandosi per l'esibizione di oggi.
All'ennesimo idiota che mi dice che mio figlio è una meravigliosa bestia da combattimento o macchina da soldi, perdo la pazienza.
Lo afferro per la gola e lo faccio scontrare contro una delle pareti di pietra.
«Non ti azzardare a chiamarlo così.»
Piagnucola, chiedendomi scusa. Non lo ascolto. Sfilo il mio pugnale e gli caccio fuori la lingua, tranciandola di netto.
Le sue urla rimbombano tra le arcate. Il sangue mi sporca i vestiti e lo lascio ansimante a terra. Gli sputo addosso con odio. «Anzi», mi sistemo la cravatta, «da adesso non potrai pronunciare mai più il suo nome.»
Hyperion mi osserva sorridente. Mi segue in silenzio, poi, fino agli spogliatoi. So che si sta nascondendo lì.
Do un calcio alla porta, spalancandola. Lo stomaco mi si aggroviglia e lanciò un'occhiata colma di affetto e stima ad Adonis, che se ne sta seduto di fronte a Kronos.
Gli sta tamponando con un batuffolo di ovatta un taglio sul labbro e sussulta verso di noi, quando sente la porta andare all'aria.
Kronos è in un angolo, a terra. Gli occhi sono gonfi e i vestiti fradici di sangue. Respira a fatica, dolorante, e il volto è tumefatto dai colpi subiti. Cerca di muoversi lentamente, ma Adonis lo fa poggiare di nuovo contro la parete, scoccandogli un'occhiataccia.
Si tiene il fianco sanguinante, che ha stretto con una fascia, adesso sporca completamente di rosso vermiglio.
Mi sento impotente. Hyperion accanto a me trasalisce. Mi avvicino a Kronos e mi abbasso sulle ginocchia. Gli accarezzo il viso e lo tiro a me, costringendolo a poggiare il capo contro il mio petto.
Adonis ci guarda di sbieco. Si allontana appena.
Accarezzo i ricci di mio figlio, stranamente abbastanza mansueto da lasciarselo fare. Di solito diventa una belva quando gli tocchiamo i capelli. «Adesso ce ne andiamo a casa.»
🫀🫀🫀
Ho chiesto ad Hyperion, Iapetus e Rhea di lasciarmi solo in camera con lui. Voglio aspettare che si svegli. Kronos dorme nel letto e forse è l'unico istante in cui mi sembra un normale ventiduenne, che si crogiola stanco nelle coperte.
Vorrei poterlo vedere sereno ogni giorno come quando riposa.
Lo sento scalciare le coperte e torno a prestare attenzione al suo volto, corrugato.
Kronos si è appena svegliato e si stropiccia gli occhi con le maniche del pigiama. Mi lancia un'occhiata e torna ad affondare il capo nel cuscino, consapevole che non sono lì per il momento tenero padre e figlio, ma per una ramanzina che spero sortisca gli effetti desiderati.
Mi strappa un sorriso quando si comporta come il semplice ragazzino che in effetti è.
Mi sistemo la giacca e accavallo le gambe. «Come ti senti?»
Kronos apre un occhio nella mia direzione. «Se ti dicessi male mi lasceresti riposare, rimandando questo discorso all'anno del mai?»
«No. Ti darei il tormento a maggior ragione per farti vedere le condizioni pietose in cui ti ritrovi.»
Kronos annuisce e si mette seduto. «Va bene, sono pronto.»
«Quante volte ti ho detto di non entrare in quella cazzo di Arena? Cosa vuoi fare, eh? Vuoi morirci dentro?» Stringo i pugni, cercando di incanalare la rabbia.
Kronos sbatte le palpebre. «No! Ma se non so affrontare tre idioti del cazzo, come potrò mai vincere il torneo? Come farò? Me lo spieghi?!»
Mi tiro in piedi e mi avvicino a lui. Gli prendo il volto tra le mani e faccio scontrare le nostre fronti. «E se tu morissi, come dovrei fare io? Me lo sai spiegare?»
Kronos deglutisce e poggia il capo contro il mio petto. «Se io morissi, stareste tutti decisamente meglio...» sbuffa piano, «te l'assicuro.»
Probabilmente ci sono un'infinità di cose che potrebbero farmi male, ma mai nessuna arma sarebbe stata abbastanza affilata come sentire quelle parole provenire da un figlio. Gli accarezzo i capelli e la schiena. Per un attimo lo sento irrigidirsi, ma si rilassa poco dopo. «No. Non dirlo nemmeno per scherzo, né devi pensarlo. Non voglio ti succeda nulla, va bene? Se non vuoi farlo per me, fallo per te. Voglio che tu vada nella Grande Città e ti riprenda quello che ti è stato tolto... e quando tornerai qui sarò il primo ad accoglierti a braccia aperte. E tutto il tempo che mancherai sarà un'agonia per tutti.»
Kronos ha gli occhi lucidi e abbassa lo sguardo. «Davvero? Mi aspettereste?»
Gli accarezzo la guancia e annuisco con un cenno energico del capo. «Anche secoli se dovesse essere necessario.»
🫀🫀🫀
È tardi e sembra che i miei ragazzi si siano decisi ad andarsene a dormire. Mi lascio cadere sul divano e mi passo una mano sul volto stanco, accarezzando la barba. È un po' di tempo che sento la tensione scorrere sulla mia schiena, una sensazione che non saprei spiegare diversamente.
La pioggia batte incessante sulle finestre. Ascolto il ticchettio contro il vetro e osservo le gocce scorrere, ingurgitate da quella successiva. Mi piace la pioggia e amo la tempesta. Credo che rispecchino un po' l'animo della mia famiglia. Possiamo anche scivolare a terra come acqua, ma i nostri tuoni continueranno sempre a terrorizzare chiunque.
Mi stiracchio appena e prendo da bere, quando sento bussare alla porta. Guardo l'ora e inarco un sopracciglio. Mi dirigo ad ampie falcate e apro il portone cigolante. Le mani già pronte a sfilare il pugnale e le scarpe cariche -progettate da mio figlio- a far scattare in avanti una lama.
I miei sensi si rilassano, quando riconoscono i capelli biondi e fradici di Medea. I suoi occhi scuri, simili a quelli di un cerbiatto mi fissano. Non posso far a meno di sorridere. Quando la vedo il mio volto si illumina di colpo, dimentica tutti i problemi.
Mi sposto di lato, facendola entrare. Corro a prendere una coperta e gliela sistemo sulle spalle. Biascica un ringraziamento e va a sedersi sulla mia poltrona accanto al camino.
Mi avvicino a lei e le accarezzo i capelli. «Che fai qui? Dovevamo incontrarci tra due giorni... ti mancavo già troppo?» Inclino il capo, lasciandomi sfuggire un ghigno.
Medea ridacchia e mi dà un buffetto sulla guancia. Le afferro la mano e deposito un bacio sul dorso, tenendola poi stretta tra le mie. Ha le dita fredde, vorrei poterle riscaldare ancora. Sistemo meglio la legna nel camino, facendo riprendere la fiamma.
«Grazie...» mormora con dolcezza. La sua voce per me è come una carezza sulla pelle. Sono almeno due anni che ci incontriamo di nascosto, ripromettendoci ogni volta di lasciarci andare. Credo sia l'unica donna che sia riuscita a risvegliare in me quei sentimenti che credevo sepolti e assopiti da così tanto tempo da non averne più memoria.
«Volevo vederti... ho saputo di Kronos e volevo accertarmi che steste bene entrambi.» Mi tira a sé, afferrandomi per la cravatta e mi bacia con delicatezza. Le mie labbra si distendono in un sorriso sotto le sue. Mi accarezza i capelli. «Come sta? Quando ho scoperto che erano in tre mi sono venuti i brividi. Ho anche saputo che è stato Zeus a mandarli.» Aggrotta la fronte. «Ho paura che sospetti qualcosa... ultimamente non mi parla di nulla. Anche se credo che la sua nuova moglie sia più interessante di me, per gli affari.»
Sorrido e attorciglio una ciocca di capelli attorno l'indice. So quanto detesti il suo distretto e suo marito. Medea non ha mai amato Zeus, mi ha raccontato che fu costretta a sposarlo perché i suoi geni presentavano un'ottima corrispondenza con i geni dell'uomo. All'epoca, nella Grande Città, studiavano entrambi e i loro genitori volevano unire le loro caratteristiche che presentavano ottime performance, per avere dei discendenti intelligenti e geniali. In effetti, Athena è una ragazza scaltra e altrettanto geniale. So, però, quanto Zeus detesti l'intelligenza di mio figlio, perché nato dal nulla e premiato dalla natura, non dalla scienza.
Le accarezzo la mano e le do un bacio leggero. «Sta bene... non è colpa tua.» Mi siedo sul bracciolo della poltrona, accanto a lei, che poggia il capo contro la mia spalla. «E per quanto riguarda quel bastardo, non preoccuparti. Troveremo un modo per toglierlo dai giochi.» Le alzo il mento verso di me. «Ti ho promesso che ti avrei aiutato a tornare libera.»
🫀🫀🫀
Angolino
Ecco il capitolo, scusate per il ritardo.
Come state?
Spero che ToB vi stia piacendo. Ultimamente sapete che sto un po' combattendo con la mia salute mentale a pezzi. Ho la perenne sensazione che nulla mi piaccia e percepisco tutto come uno schifo.
Scusate.
Grazie comunque del vostro sostegno 🫀
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