X. Ho un momento di confessione con mia sorella

Kronos


Non esco dalla mia camera da ore. I mal di testa sono ancora più forti del solito e credo di aver esagerato con l'alcol ieri sera. Mi sono fatto un po' prendere la mano e ho affogato il terrore nello champagne.

Ho scoperto, però, un qualcosa di interessante. L'alcol mi spegne i pensieri e non mi fa provare tutto quel dolore. Non sento le voci dei miei aguzzini, non percepisco le loro mani sul mio corpo. Mi sento svuotato dai problemi e riesco a sopportare il fatto che qualcuno mi sfiori.

Non avevo più conati di vomito, né sentivo le gambe cedere dalla paura.

Devo solo trovare la dose giusta, tale da non farmi dire cose stupide come ieri notte.

Al solo pensiero mi porto le mani in volto dalla vergogna. Mi sento un idiota. Forse è l'influenza di Adonis.

Nel momento in cui il suo nome mi lambisce la mente, i ricordi della serata risalgono a galla e mi manca l'aria. Mi sembra di percepire di nuovo le sue labbra addosso, il suo profumo, le sue mani.

Non ho mai fatto nulla di simile prima, o meglio non sono mai stato io a ricevere certe attenzioni, soprattutto col mio consenso. Di solito non era richiesto.

Una morsa mi attanaglia di nuovo lo stomaco e una sensazione di calore riprende ad affiorare, fino a togliermi il fiato. Mi sembra anche di sentire il sangue abbandonare il cervello per fluire altrove e socchiudo gli occhi.

Sono convinto sul serio che ci sia qualcosa di tremendamente sbagliato in tutte queste sensazioni, ma non riesco a controllarle. Il mio corpo urla l'esigenza di tornare a provare le stesse emozioni e brividi di ieri sera: vuoto e libero. Sbuffo e mi mordo così forte le labbra da sentire il sapore metallico del sangue riverberare in bocca. Sento bussare alla porta e di colpo sussulto. Cerco di sistemarmi e mi posiziono a pancia in giù.

Rhea apre la porta piano e mi osserva. Tiene in mano un vassoio con due tazze fumanti. Spero sia cioccolata calda, ma ho il sentore che sia camomilla. «Come ti senti?»

Sbuffo. Cosa dovrei dirle?

Confuso.

Strano.

Turbato.

Disorientato.

Stanco.

Sbagliato.

Eccitato.

Ce ne sarebbero almeno un'infinità di aggettivi per descrivere il miscuglio di emozioni che sto provando al momento. Affondo il capo nel cuscino e mi lascio sfuggire un piccolo gridolino isterico.

Sento mia sorella ridacchiare. «Peggio di quanto mi aspettassi, già.» Posa il vassoio sul comodino e si stende nel letto al mio fianco, mi sposto appena di lato e le faccio spazio, restando col capo nascosto nel cuscino.

«Non voglio la camomilla.»

«Va bene, ti va di parlarmi di ieri sera?» Alzo lo sguardo su di lei, che mi fissa con dolcezza e scuoto il capo. Così Rhea ci tiene a rassicurarmi, «non lo dirò a nessuno.»

«Neanche a papà?»

«Assolutamente no. Ti pare? Anche perché meglio che non sappia nemmeno cos'ho fatto io.» Rhea si accoccola e tira su le coperte. Vorrei lamentarmi di avere caldo, ma meglio di no, considerando la finestra spalancata.

Ammetto di avere due nuove sensazioni addosso.

Ora sono curioso ma arrabbiato al solo pensiero che qualcuno non alla sua altezza l'abbia sfiorata.

«Inizia tu.» Mi vergogno troppo. È tutto sbagliato quello che sento, come potrei mai dirglielo?

Rhea si incupisce. Sembra notare il mio disagio. Così alza le coperte e ci ricopre completamente, nascondendoci sotto lo strato caldo. «Rimarrà tutto qui sotto solo tra noi.»

Annuisco e sospiro piano. «Inizia comunque tu...»

Rhea mi accarezza i capelli con dolcezza e mi guarda. «Ho baciato un ragazzo. Cioè due ragazzi. E prima che Hyperion mi venisse a chiamare, speravo in una conoscenza più approfondita con uno dei due.»

Ridacchio. «Sono felice che Hyperion sia arrivato in tempo.» Mi colpisce con un pugno sul braccio e sbuffo per il fastidio. «Ora tocca a te.»

«Lo so che è sbagliato, giuro che non accadrà più.» Cerco di giustificarmi e Rhea mi guarda con preoccupazione. «Io e, ehm, Adonis ci siamo baciati-»

«Credevo fosse successo qualcosa di grave, ma vaffanculo.» Rhea sbuffa avvilita e mi sorride. «Non c'è nulla di male-»

«Mi ha fatto un po-.»

La sento tossire confusa. Forse avrei dovuto iniziare con più delicatezza. Torno a nascondermi nel cuscino, crogiolandomi nel mio errore e cercando di scacciare quell'immagine dalla mia mente per l'ennesima volta.

«Ti prego, non mi odiare. Non lo farò più. Lo so che è sbagliato. Insomma è un ragazzo-»

«Tu lo volevi, vero? Non l'ha fatto senza il tuo consenso, giusto?»

Capisco la sua preoccupazione, ma annuisco. «Non è questo-»

Rhea si lascia andare a un sospiro di sollievo e mi dà un bacio sulla fronte. «Allora non c'è nulla di male. Certo, non mi aspettavo fossi così esplicito, ma perché mai dovrebbe essere sbagliato?»

La guardo di sbieco e aggrotto la fronte. «Perché è un ragazzo, forse? Non dovrebbe andare così. Non va bene. È sb-»

«Di' di nuovo che è sbagliato e ti trancio la lingua.» Rhea mi ammonisce e roteo gli occhi. Sento le lacrime premere per uscire e rigarmi le guance, ma provo a ricacciarle indietro. Non so cosa ci sia di strano in me, non vorrei essere così sporco o malato. Non dovrebbe andare così, lo so.

Non voglio essere così.

Non voglio essere frocio.

Non sono frocio.

Tremo nervoso. Mi sembra di sentire di nuovo le voci dei ragazzi a scuola. Quando ero scomparso per un mese, iniziarono a girare voci. Non erano quegli uomini ad avermi rapito, ero stato io ad andare con loro per divertimento.

Percepisco le loro risate addosso, le sento ancora raschiarmi la pelle, assieme ai pugni e ai calci, prima che li uccidessi.

«Frocio.»

«Succhiacazzi.»

«Ti piace prenderlo al culo, no?»

Rabbrividisco e tremo. Le lacrime ormai sfuggono al mio controllo. Mi scappa un singhiozzo e Rhea mi accarezza i capelli. Mi travolge in un abbraccio e resta lì vicino a me finché il dolore non passa, o almeno si affievolisce un po'. Perché sono consapevole che non mi passerà mai. Le loro parole le ho marchiate nella mente come col fuoco. Non importa quanto mi sforzi, ma resteranno sempre lì, pronte a tormentarmi e a ricordarmi che dal mondo non merito nulla.

E in fondo sono anche d'accordo con loro, non posso farci niente.

spero solo che un giorno questo dolore passi, che smetta di lacerare ogni fibra del corpo. A volte sogno di non svegliarmi più, solo perché così potrò sentirmi in pace con me stesso e ho il terrore che la morte sia l'unica soluzione a tutto questo. Voglio aggrapparmi alla vendetta, forse l'unico barlume di speranza che ancora mi resta.

Rhea mi posa un bacio sulla guancia, bagnata dalle lacrime. Mi accarezza la schiena. «Non sei sbagliato per quello che provi. E te lo ripeterò ogni volta che avrai bisogno di sentirtelo dire.»

Annuisco e mi volto, posizionandosi a pancia in su. Mi asciugo le lacrime con le maniche della felpa e mi metto seduto. Non mi va di parlarne.

Non ancora.

Mi allungo verso il comodino e afferro una tazza ancora un po' calda ma non così bollente da rendere impossibile berne il contenuto. Sorrido quando realizzo che è davvero cioccolata calda.

Rhea fa lo stesso e iniziamo a bere insieme, restandocene in silenzio.

Qualche minuto dopo, Hyperion e Iapetus entrano. Non fanno troppe domande e gliene sono grato. Si limitando a sedersi anche loro sul letto, lasciando che Hyperion racconti la sua serata.

Iapetus ha con sé una busta piena di marshmellow e sono sicuro l'abbia scovata trafugando tutta casa. La signora Menson gliel'aveva nascosta dopo l'ennesima carie indesiderata.

Ne prendo un paio anche io e mangiucchio in silenzio, ascoltando mio fratello.

«Tutto sommato è stato divertente. Forse avremmo dovuto attirare meno attenzione.» Hyperion mi lancia uno sguardo eloquente e roteo gli occhi al cielo.

«Erano due idioti» scrollo le spalle, «capirai che gran perdita per il mondo.»

Rhea ridacchia e mangia anche lei un marshmellow. «In tutto ciò, papà come l'ha presa?»

«Non è arrabbiato, era più preoccupato. Diciamo che la scazzatura gli è passata quando Kronos ci ha deliziato con le sue perle di curiosità scientifiche strane.» Hyperion ghigna.

«Mi piace scazzatura. È una nuova parolaccia?» Iapetus ama ripetere qualsiasi parola proibita. Secondo me ci prova gusto.

«Non dirlo davanti a papà.» Rhea lo ammonisce.

«Perché? Altrimenti si arrabbia?»

Rido e scuoto il capo.

Dei passi ci fanno voltare e nostro padre ci guarda. Se ne sta poggiato contro la parete e ci studia. Posa gli occhi neri su di me e inarca un sopracciglio. «Come ti senti?»

«Bene. Un po' di mal di testa.» Bevo rumorosamente la cioccolata calda.

«Ci credo. Quanto diavolo avete bevuto? E che stavate facendo? Perché non tenete un po' il profilo basso per una volta?!»

Okay, forse è ancora un poco arrabbiato. Non possiamo dargli torto in effetti. Mi scambio un'occhiata coi miei fratelli e mormoriamo delle scuse, consapevoli che siano poco credibili.

Iapetus ridacchia e mangia un altro marshmellow. Con la bocca ancora piena, decide di deliziarci con un'ultima frase: «Quindi adesso sei scazzato?»


🫀🫀🫀


Sono trascorse un paio di settimane e non vedo Adonis dalla festa. Sarebbe ipocrita se dicessi che non mi inonda la mente più di una volta al giorno, ma non voglio distrarmi. Non voglio sbagliare ancora, non posso permettermelo.

Adonis ha provato a contattarmi con infiniti inviti alle sue stupide feste.

Non li ho mai aperti. Li tengo nel cassetto del comodino accanto al mio letto. Non voglio averci a che fare, perché in sua presenza il cervello mi si spegne di colpo e non sono più padrone delle reazioni sbagliate del mio corpo.

Preferisco stargli alla larga.

Mi sento nervoso e questo, purtroppo, è chiaro a tutti. Mi infastidisce qualsiasi rumore, qualsiasi discorso e qualsiasi persona. Me ne sto seduto sulla poltrona del salotto a guardare fuori dalla finestra, con una sigaretta penzolante tra le labbra. Le mani mi bruciano in tensione. Agito la gamba su e giù.

I mal di testa mi stanno lacerando. Raschiano le pareti della mente e avrei voglia di urlare a squarciagola e prendere chiunque a pugni. Ci ho già provato, in palestra, contro il sacco. Abbasso le mani sulle nocche sporche di sangue e digrigno i denti. Mi sento esasperato e mi allungo sul tavolino del salotto, prendendo l'ennesima sigaretta della giornata.

Oggi le loro voci sono ancora più insistenti. Mi sembra di essere di nuovo in quello scantinato. Mi sento così stupido per essermi fidato dell'uomo dal sorriso buono. L'ho seguito fino a quella baita nel bosco. Tanto di me non importava a nessuno. Ero solo un orfano che viveva in un quartiere malfamato sotto dei ponti, abbandonato a se stesso. I libri di scuola mi erano stati regalati per pietà e nemmeno gli insegnanti credevano che sarei sopravvissuto al giorno successivo.

L'uomo dal sorriso buono mi aveva promesso cioccolata e pasti caldi. In cambio si era preso la mia pelle, il mio corpo e la mia anima. Sono stato rinchiuso lì dentro per un mese insieme a lui, a suo figlio e ad un suo amico. A turno accontentavo ognuno di loro. Mi sembra di sentire ancora i loro baci sulla pelle e un conato di vomito mi avvolge la gola.

Socchiudo gli occhi e mando giù, di nuovo.

Sono scappato dopo aver ucciso il suo amico. Lo accoltellai alla carotide e fuggii. Da allora sono stato condannato. Non credevano di certo a un ragazzino povero e assassino. La corte Suprema giudicò me colpevole, non loro. D'altronde l'uomo dal sorriso buono era il giudice della corte. Aveva i suoi amici, i suoi favori.

Povero.

Straccione.

Bugiardo.

Assassino.

Frocio.

Ero un mostro e alla fine ho finito per crederci. Ho abbracciato l'oscurità del mio abisso e ci sto bene. Adesso mi temono, hanno paura di me per strada. Non sono più il poppante scappato dal Male.

Sono il Male adesso.

E mi sta benissimo così.

«Dobbiamo ucciderli tutti.»

Ogni tanto il bambino scappato dal Male torna a parlarmi. Javier mi ricorda la mia unica missione: ucciderli tutti. Uno ad uno.

Sussulto, quando sento un tocco sulla mia spalla. Afferro il polso con forza.

«Ehi, mi fai male!» Hyperion si divincola e mollo la presa. Lo sguardo, dapprima annebbiato, inizia a rischiararsi e sbatto le palpebre.

«Scusa.» Mi tiro in piedi e vedo Hyperion fissarmi le nocche. Aggrotta la fronte preoccupato, ma lo interrompo prima che mi faccia la paternale. «Sto bene, cosa dovevi dirmi?»

«Andiamo da Hades. Papà vuole che vieni con noi.»

Non mi dispiace il distretto di Hades, sinceramente. Annuisco e decido di seguirlo.

Nascondo le mani nelle tasche dei pantaloni e, insieme a mio fratello, raggiungo mio padre ai cancelli. Iniziamo a incamminarci verso il distretto di Hades. Il cielo è come sempre plumbeo all'orizzonte, l'aria grigia e cupa. Mi sono abituato, ormai.

Man mano che ci inoltriamo verso il distretto di Hades, la vita sembra pronta a rifiorire. Diverse villette a schiera si susseguono come tasselli di domino: I loro tetti sono tutti a spiovente e ognuna di esse ha un giardino sul retro, curato e fiorito. L'erba è verde e rigogliosa e i viali alberati. Ho sempre pensato che, quando si cammina qui, è come se ci si dimenticasse di essere nella città dei reietti, un mondo dimenticato da dio e dagli uomini.

Osservo le persone chiacchierare tra loro al bordo della strada. Tutti ci guardano con sospetto, se non un po' spaventati. Gli Hell sono temuti da tutti qui, e forse hanno anche ragione ad attraversare al lato opposto della strada non appena rischiano di incrociarci.

Mi guardo comunque intorno, incuriosito. Mi piace essere qui, trascorro molto tempo con Hades nel suo distretto. Mi piace prenotare tante poltrone solo per me per il cinema e restarmene ore intere a guardare film da solo, lasciando che le immagini scorrano, tenendomi lontano dai pensieri.

Sento il profumo di pane appena sfornato e mi volto verso un vecchio forno. Hyperion mi imita, incantato da quell'odore pungente, che in un attimo ci stimola la fame. Nostro padre sorride. «Dopo, tornando, ci fermiamo a prenderne un po'.»

Io e Hyperion ci scambiamo un'occhiata complice. Penso di dover prendere anche dei biscotti con gocce di cioccolato per Iapetus, so che ne sarebbe più che contento.

Arriviamo alla villa di Hades. Un piccolo cottage situato sulla collina più alta del distretto. Lui ci aspetta sull'uscio, col solito paio di occhiali da sole e cappello elegante. Ci fa entrare e ci scorta fino al suo ufficio. Mi allungo a osservare come al solito il camino. La legna scoppietta un po' al suo interno e c'è un odore pregnante di sigaro e zuppa, proveniente dalla cucina.

Hades ci fa accomodare e sorride tranquillo. L'ufficio è simile a quello di mio padre, ma dall'aspetto meno tetro e gotico. Mi affaccio sulla scrivania spinto dalla curiosità e osservo un progetto di una specie di anfiteatro. Aggrotto la fronte. «Cos'è?»

«Il nostro nuovo grande progetto.» Mio padre sorride fiero. Fa cenno ad Hades di proseguire e l'uomo tossicchia appena per rinvigorire la voce.

«Sarà un'Arena enorme, per poter scommettere ed eliminare un po' di marciume. Ci si potrà scontrare all'ultimo sangue. Chiunque può lanciare una sfida al suo avversario, che non potrà tirarsi indietro.» Hades ghigna e mi volto a guardare mio padre, che fissa quel progetto con soddisfazione.

Ho una strana sensazione addosso. Voglio parteciparci. Improvvisamente la sola possibilità di poter combattere contro la Morte ogni volta mi rinvigorisce, mi dà la falsa speranza che presto tutto questo dolore morirà. Il marcio e lo sporco, che indosso come un'armatura, potrebbero andar via.

Hades schiocca le dita davanti ai miei occhi, per attirare la mia attenzione. «Non riesco a trovare il calcolo errato. Altrimenti l'ala destra rischia di crollare su se stessa.» Mi passa il progetto e mi rigiro il foglio tra le mani. Mi siedo in disparte su una poltrona.

Sento gli occhi di tutti addosso. Hyperion mi si affianca e mi guarda. «Puoi anche ragionarci con calma. Non devi risolverlo per forza ora. Non stressarti.»

Non capisce. Qualsiasi cosa mi sembra migliore che restare da solo coi miei pensieri. Mi danno la caccia e riescono sempre a trovarmi.

Inizio a leggere i numeri. Sfoglio i calcoli, che iniziano a inondarmi la mente. Potrebbe essere uno stupido segno così come una considerazione dei diagrammi sbagliata. Agito la gamba su e giù e allungo la mano per farmi porgere una penna.

Hyperion comprende al volo e mi passa una matita. Ne osservo la punta e inizio a disegnare i diagrammi. «È labile.»

Hades mi guarda e si avvicina. Corruga la fronte. «Quindi?»

«Hai bisogno di un altro vincolo.» Gli sistemo dei calcoli e abbozzo un disegno di come dovrebbe essere. Gli indico il lato sinistro della struttura. «Anche qui la stessa cosa.»

Hades sorride e mi dà una pacca sulla spalla, facendomi sussultare. «Sei il mio genietto preferito.»

Mio padre mi guarda con orgoglio. Ha uno strano scintillio negli occhi e abbasso lo sguardo sulla punta delle scarpe. Nessuno ha mai creduto in me quanto lui. La sola idea di deluderlo mi terrorizza.

Ci tratteniamo ancora un po' da Hades, finché, dopo un ultimo saluto, mio padre decide di allontanarsi. Quando apre la porta, però, ci ritroviamo Adonis davanti.

Mi immobilizzo sul posto. Adonis mi osserva, come se dovesse analizzarmi. Dopodiché consegna ad Hades un pacco. «Artemis mi ha detto di portarti questo. Dovrebbe essere un nuovo cappello dalla Grande Città.» Eppure, continua a guardare me.

Mi muovo a disagio sul posto. Mio padre saluta ancora una volta e inizia ad andarsene con Hyperion. Dovrei seguirli, ma Adonis mi afferra il polso. Mi libero dalla sua presa.

«Ti dispiace se parliamo?»

«Sì.» Va bene, non volevo rispondere in quel modo. Adonis si incupisce per un istante. Mi mordo l'interno guancia e sbuffo. Mi volto verso mio padre e gli faccio cenno di avviarsi, li raggiungerò dopo. «Va bene. Solo cinque minuti.»

Adonis sorride trionfante e mi avvolge le spalle con un braccio, trascinandomi fuori da casa di Hades. «Certo! Anche meno, amico mio.»

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