I. Arrivo

Kronos



Quando ero un bambino, mi piacevano le costruzioni. Era divertente immaginare che dal nulla si poteva creare un impero, plasmarlo con le proprie mani.

Era quella sensazione di tracotante potere e desiderio di vendetta che mi aveva tenuto in vita per così tanto tempo. La mia mente era il caos, avevo voglia di strappare i pensieri dalla testa con le unghie.

La mia mente era un Labirinto dal quale non sapevo uscire.

Eppure ero sempre stato bravo con gli enigmi e i rompicapo. Mi aiutavano a tenere la mente attiva, mi stimolavano.

Ma da quel giorno tutto era cambiato. Ero morto e il bambino che era scappato da quello scantinato non era più stato lo stesso.

Mi ripromisi di non permettere più a nessuno di avvicinarsi così tanto a me. Nessuno avrebbe mai conosciuto cosa covavo dentro e, prima o poi, avrei ottenuto quello che più desideravo.

Il sangue.
Il loro sangue sulle mie mani.

Quando arrivai nella Città dei reietti ero confuso, spaventato. Emozione che non ho più provato per molto tempo o che, per lo meno, ho sempre nascosto bene sotto una maschera asfissiante di indifferenza.

Ricordo quel giorno fin troppo bene.
Faceva freddo, tanto per cambiare.
Le guardie mi spintonarono oltre la Muraglia, che ormai mi avrebbe separato dalla Grande Città, relegandomi nella città dei reietti.
Il manganello di uno di loro premeva contro la schiena e i polsi mi facevano male, così tanto che avrei voluto strapparmeli a morsi per non sentire più nulla. Le catene stringevano forte, al punto tale da non far passare il sangue nelle vene. Avevole mani legate in avanti e una sottospecie di museruola alla bocca. Avevano paura che potessi strappare loro qualche lobo, così come avevo fatto con un mio compagno di scuola.

Mostro.
Mi chiamavano così in continuazione.

Forse il bambino di un mese fa, il vecchio Javier, l'avrebbe vissuta male. Si sarebbe rintanato da qualche parte, piagnucolando di nascosto e chiedendosi cos'avesse fatto di male per nascere povero, abbandonato e solo al mondo.

In quel momento, invece, non mi restava nulla. Mi ero arreso all'evidenza.
La giustizia non esisteva.
Avevo imparato sulla mia pelle che nessuno si sarebbe preoccupato di me e avrei dovuto cavarmela comunque da solo.

La guardia mi spinse in avanti e richiuse subito i cancelli.
Non riuscivo a parlare con quell'arnese di ferro in bocca. Riuscivo solo a ringhiare come una bestia. Mostrai i denti incattivito e alzai le mani in alto, supplicandolo di liberarmi almeno delle catene.

Non avevo di certo idea di come muovermi nella Città dei Reietti e sopravvivere.
Né come avrei potuto sopravvivere conciato in quel modo.
E forse a loro neanche interessava, anzi. Se fossi morto sarebbe stato più semplice per tutti.

La guardia ridacchiò. «Che c'è, mostro? Mi hai preso per un idiota? Se ti liberassi, mi azzanneresti come hai fatto coi tuoi compagni di classe e con quell'uomo. Ce ne vuole ad essere un pluriomicida a dodici anni.»
Avrei voluto dirgli che sì, in effetti mi pareva stupido, ma quella museruola me lo impediva.

Richiuse lo sportello attraverso il quale mi parlava e rimasi da solo in quel posto grigio e deserto.
Il vento mi solleticò la pelle, scombinandomi i capelli, la cui cosa mi irritava già parecchio. Mi avevano rifilato una Mappa nel piccolo zaino che avevo con me.

Dicevano che fossi destinato al distretto Cenere e che speravano morissi lungo il tragitto per arrivarci.
Odiavo non poter rispondere a tutti loro a tono. Dovevo trovare un modo per liberarmi da catene e museruola. E anche alla svelta.

Mi abbassai sulle ginocchia e riuscii ad aprire lo zaino a terra. Certo, avevo le mani legate, ma almeno non dietro la schiena. Aprii la Cartina e cercai di orientarmi.

Mi faceva male qualsiasi muscolo del corpo, anche in punti che non credevo potessero esistere. Dovevo solo incamminarmi in avanti e seguire il sentiero che si stagliava dopo il bosco, oltre quella zona grigia deserta, dove anche solo le nuvole sembravano non volersi avvicinare.

Mi tirai in piedi a fatica, le gambe tremarono sotto il mio stesso peso e quello delle catene. Afferrai lo zaino tenendolo stretto tra le mani.

Mentre mi avviavo per la foresta, nonostante il vento mi desse parecchio fastidio, mi soffermai a fissare quelle strade lugubri e dissestate. Arrivai in un piccolo villaggio abbandonato, o almeno così sembrava.

Le case, più simili a vecchie catapecchie, erano ingrigite e barcollanti. Mi stupiva che il vento non le avesse portate via. Alcuni negozi erano chiusi, essendo sera, e a terra governavano pozzanghere d'acqua. Il bambino ancora un po' assopito in me amava finirci dentro e bearsi del suono degli schizzi.

Mi diedi dello stupido per riuscire a sorridere solo per quello.

C'era una nauseabonda puzza di piscio. La museruola mi trattenne i conati di vomito, impedendomi di aprire troppo la bocca. Avevo anche la gola secca e probabilmente nessuna voce ne sarebbe uscita fuori.

In lontananza osservai una vecchia villa dai tratti Gotici. Le guglie si imponevano sul circondario, sembrava quasi reclamassero il cielo come proprio dominio. Ne ero affascinato e, da quanto diceva la Mappa, avrei dovuto rivolgermi lì per farmi accogliere dal console.

L'improvviso sorriso sinistro dell'uomo, che mi si era avvicinato un mese fa proponendomi delle caramelle, mi attraversò la mente come un fulmine a ciel sereno. Indietreggiai. Non mi andava di finire di nuovo nella tana del lupo.

Improvvisamente il cuore si fece pesante. Ero destinato a morire.

Mi bloccai. Il respiro mi si fece irregolare e mi scontrai contro una parete unta e viscida alle mie spalle. Improvvisamente dovevo vomitare e mi accasciai su me stesso. L'acida bile risaliva per la gola, infiammando tutto il corpo.

«E tu da dove sei uscito?»

Alzai lo sguardo su un ragazzo poco più grande di me. Non avevo idea da dove sbucasse fuori, ma mi scrutava con la curiosità con cui si guardano gli animali allo zoo. I capelli scuri gli si appiccicavano sulla fronte per il sudore e gli occhi color nocciola mi stavano sottoponendo a un'attenta analisi.

Mi spalmai contro la parete, nonostante mi facesse rivoltare lo stomaco.

«Immagino tu non riesca a parlare con quel coso.»

Che acuto osservatore. Quella museruola mi stava davvero togliendo tutte le battute migliori.

Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle catene e storse il naso. «Io sono Hyperion, comunque. Suppongo tu sia appena arrivato... di solito conciano così i peggiori. Ma sei piccolo, cos'hai mai fatto?» Si massaggiò il mento. Scrollò poi le spalle. «Seguimi. Mio padre ti darà una sistemata e ti troverà un posto dove andare. Ormai questa è la tua nuova casa.» Allargò le braccia sconsolato.

Si incamminò in avanti, ma non lo seguii. Per quanto ne sapevo, poteva tranquillamente volermi uccidere o peggio. Peggio che avevo già sperimentato e non ero abbastanza libero per difendermi.

Si fermò e si voltò a guardarmi. Ora sembrava spazientito. «Senti, lo so che non ti fidi, ma che alternative hai? È tardi e ti garantisco che non ti succederà nulla se mi segui. Se non lo facessi... beh, non potrei darti la stessa certezza.»

Forse aveva ragione. Mi allontanai dal muro sudicio, provando un sospiro di sollievo, e lo seguii, tenendomi comunque a debita distanza. Lungo il tragitto recuperai da terra una bottiglia di vetro spezzata. Poteva comunque essere un'arma nel peggiore dei casi.

Hyperion osservò il mio nuovo ricordino e sorrise, limitandosi a non commentare. Ci incamminammo verso la Villa. Spinse in avanti la cancellata di ferro e mi fece entrare per primo nei giardini.

Mi sentivo così stanco che ogni passo sembrava un'agonia. Mi limitai a osservare alcune siepi in disordine. Oggetti da giardino erano sparsi ovunque.

Hyperion aprì l'enorme portone cigolante e il tepore caldo del camino e del salotto mi invase di colpo. Restai imbambolato su due piedi a fissare i divani comodi, le poltrone e il tappeto a terra che doveva essere davvero soffice.

«'Perioooon!» Un ragazzino corse nella nostra direzione e aggrottai la fronte terrorizzato. Doveva avere qualche anno in meno dime e a giudicare dalla leggera somiglianza dovevano essere fratelli. «Cos'è?»

Nessuno brillava di intelligenza lì dentro. Roteai gli occhi.

«Un nuovo arrivato. Adesso papà lo libererà dalle catene e potremo mandarlo nella sua nuova dimora.» Hyperion si liberò della giacca e si guardò attorno.

«Io sono Iapetus.» L'altro ragazzino mi guardava confuso. Alzai una mano in cenno di saluto, nonostante fossi esausto.

Iapetus si voltò di scatto verso il fratello. «Possiamo tenerlo? Mi sembra simpatico.»

«Perché per ora non morde.» Hyperion ghignò e io avanzai nella sua direzione, quando alcuni passi in lontananza mi raggelarono sul posto.

«Che succede, bambini?» Un uomo abbastanza alto e dal fisico asciutto ci raggiunse. I capelli scuri erano tirati all'indietro e la barba era elegantemente curata. Gli occhi neri come la notte mi fissarono e provai l'impulso di scappare via.

Dietro di lui apparve una ragazzina dai capelli rossi, tirati in una coda alta. Mi osservò con distanza, restando vicina a suo padre.

Indietreggiai ancora, quando l'uomo si soffermò a fissarmi.

Hyperion scrollò le spalle. Si lasciò cadere sul divano. «L'ho incontrato lì fuori. Deve essere  appena arrivato e, a giudicare da com'è conciato, credo sia una recluta nuova del nostro distretto.»

L'uomo se ne restò in silenzio a osservarmi. La fronte aggrottata. «Rhea, tesoro, puoi andare a prendermi le tenaglie?»

Mi ero paralizzato. Se mi avessero fatto in mille pezzi e gettato in qualche vicolo, l'avrei capito. Anche se non avevo una gran voglia di morire. Ci avevo impiegato un mese per scappare da quel maledetto scantinato, ripromettendo a me stesso che tutti l'avrebbero pagata. Non volevo perdere quell'unica occasione di sopravvivere che ero riuscito a crearmi, solo per farmi uccidere nel peggiore dei modi, per essermi affidato a un ragazzo poco più grande di me.

«Io sono Uranus, ragazzo.» L'uomo mi indicò il divano per farmi accomodare, come se avesse letto la mia mente. Decisi di sedermi, solo perché le gambe mi facevano troppo male per restare altro tempo in piedi. «Il distretto Cenere accoglie tutti gli assassini e violenti. Da oggi sei uno di noi, immagino.» Sorrise paziente in direzione di Rhea, quando gli portò le tenaglie.

Mi si avvicinò con calma. «Se resti fermo, non rischierò di farti male.»

Stai fermo, tesoro. Così non farà male.

Sentii le loro voci rimbombare in testa, riverberare nelle pareti della mente.

Mi alzai di scatto e arretrai nervoso. Iniziai a tremare. Non riuscivo a gestire il mio corpo. Le lacrime presero a pizzicarmi gli angoli degli occhi. Scossi il capo.

«Che gli prende?» Hyperion inarcò un sopracciglio. Iapetus mi osservava come fossi il suo nuovo animaletto domestico spaventato.

Rhea incatenò i suoi occhi verdi ai miei. Mi sentii confuso. «È terrorizzato. Ha paura per quello che gli hai detto, mi sa.»

Uranus abbassò le tenaglie con calma. Si inginocchiò a terra e mi mostrò i palmi delle mani. Di colpo il suo sguardo si alleggerì. «Queste mani, ragazzo, sono sporche di sangue almeno quanto le tue. Ma non si sono mai sporcate né si sporcheranno mai di quello di un bambino.»

Presi a respirare regolarmente. Mi guardai attorno smarrito. Mossi un passo verso di lui e socchiusi gli occhi, anche se provai comunque a sbirciare.

Uranus fece un mezzo sorriso e avvicinò le tenaglie alle catene. Di colpo i polsi furono liberi e presi a massaggiarmeli. Erano arrossati, quasi violacei, ma mi sembrò di tornare in parte a respirare.

«Immagino vada già meglio.»

Uranus si spostò alle mie spalle. Sentii le mani armeggiare con la museruola e pochi istanti dopo mi liberò. Mi massaggiai la mascella e presi un grosso respiro.

Alzai lo sguardo su tutti loro, che mi fissavano aspettandosi qualcosa.

«G-grazie.» La voce mi uscì così leggera, che ebbi il sentore che nessuno potesse averla percepita. In realtà, anche quando parlavo chiaramente, nessuno aveva mai fatto caso a me. Ero invisibile agli occhi di tutti nella Grande Città.

Uranus allontanò via museruola e catene con un calcio e mi sorrise. Inclinò il capo. «Come ti chiami?»

Non gli risposi. Mi limitai a scrollare le spalle.

«Sei un osso duro, eh?»

Iapetus gli tirò la giacca. «Possiamo tenerlo?»

«Non è un cane.» Rhea lo rimproverò.

«E dove lo mettiamo?» Hyperion inarcò un sopracciglio.

«Perché non possiamo tenerlo?» Iapetus era insistente.

«Papà non ha ancora detto nulla.»

«Certo,» Hyperion ghignò, «perché tu sei la principessa di papà e devi ricordarci tutto?»

«Ti spacco la faccia e poi ti mostro chi è la principessa di casa.» Rhea lo fulminò con lo sguardo.

Uranus si portò le mani in volto e prese un grosso respiro. «Kronos.»

Tutti si voltarono a guardarlo e io mi paralizzai sul posto.

«Kronos, ti piace?»
Annuii.

Javier era morto.
Javier non sarebbe mai più tornato. «Credo di sì.»

Uranus mi sorrise. «Allora benvenuto a casa, Kronos.»

Da quel momento sono diventato Kronos Hell.
E ho ucciso novantasette persone.
Per poco non sono arrivato a cento.





🫀🫀🫀
Angolino
Ben tornati! Come state? Domani uscirà l'altro prologo col pov di Adonis.
Ancora scusate per la mia penosa prima persona, ma mi sto allenando💀
Alla prossima ❤️‍🩹

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