Incipit. La Fragilità del Bene


Molti millenni prima che la civiltà giungesse sulle terre di Sverthian, luogo che ormai sconfina nel mito, i soli a essere lì presenti erano creature immortali che vivevano a stretto contatto con la natura incontaminata, natura che proprio loro avevano contribuito a plasmare e li circondava.

Questi esseri divini non conoscevano nulla se non sentimenti puri e positivi. Non esistevano cose come il dolore, la rabbia, il rancore e la gelosia e tutti loro vivevano in armonia gli uni con gli altri, o almeno era ciò che credevano. Tutto, infatti, sarebbe dovuto durare per sempre, ma come in ogni cosa dove esiste un principio, lì vi è anche una fine ed essa giunse in silenzio, senza farsi notare, come nero fumo favorito dalla notte più oscura.

In un luogo che nei millenni successivi sarebbe stato conosciuto come Terre dell'Ombra, quando ancora esso si limitava ad essere una semplice zona ricoperta da rocce, deserti e lande dove non cresceva altro se non una distesa di sterili arbusti, nel cuore del Monte Arnak si originò qualcosa.

All'inizio gli dèi non vi badarono, accecati dalla convinzione che la pace sarebbe durata in eterno, eppure fra di loro — senza che se ne rendessero conto — il seme della discordia stava già germogliando. Grazie alla collettiva ingenuità, quel qualcosa annidato sul Monte Arnak continuava a crescere: si trattava di una fonte che dava vita ad acqua sporca, nera come la notte, densa come fanghiglia e dalle venefiche esalazioni. Ben presto si rivelò essere un problema impossibile da ignorare, perché la Fonte continuava a diventare sempre più grande e il suo contenuto dilagava e si propagava nelle profondità della terra; cominciò a infettare qualunque cosa, dai piccoli affluenti di fiumi più grandi, fino ad arrivare agli abissi più profondi.

Proliferava senza freni, avvelenando piante e animali, il ventre del suolo e la stessa aria.

Fu allora che Tredar, figlio primogenito del dio Vesmanir, all'epoca una divinità ancora nel fiore della sua millenaria esistenza e custode della luce che splendeva nel cielo, così come del suo sconfinato e benefico potere, protettore di Sverthian, sollecitato dal padre decise di prendere in mano la situazione e indagare l'origine di quel male, per comprenderne le radici e annientarle.

Tredar non era solo, aveva molti fratelli e uno fra tutti era quello da tutti più amato e rispettato: il suo nome era Grober.

Egli sarebbe stato ricordato come il dio della distruzione e padre di ogni genere di male e calamità, ma pochi conoscono la reale storia e di come essa sia stata alla fine soffocata dal mito, dalle vicende che seguirono la spedizione dei due fratelli divini atta a distruggere la Nera Fonte.

Prima ancora di diventare ciò che tutti impararono a conoscere, Grober era un dio benevolo come il resto dei suoi fratelli, quello dal cuore più puro, ma anche il più fragile fra tutti.

Divinità capace di creare la vita, di plasmarla, accudirla e proteggerla, custode della purezza nella sua forma più primordiale e immacolata, emblema del bene e unico tra i suoi fratelli a non possedere alcuna arma, Grober era amato in particolar maniera dal padre fino al punto da venir designato suo erede, perché con lui il bene sarebbe prosperato e avrebbe regnato per millenni ancora.

Lui era il prediletto, scelto non per diritto di nascita, ma per ciò che dentro di sé racchiudeva e custodiva: gli dèi non avevano un vero cuore, nel loro petto rifulgeva una luminosa scintilla di pura luce divina, una comune eredità trasmessa a tutti loro da Vesmanir. La scintilla di Grober splendeva come nessun'altra, il suo colore era la somma delle altre scintille sorelle: bianco. Puro, incontaminato, certo, ma fragile come la fiamma di una candela soggetta alle intemperie.

Come le generazioni future avrebbero col tempo imparato, spesso è talmente semplice estinguere la fiamma del bene, quella minuscola scintilla, da risultare dolorosamente banale.

La scintilla nel cuore di Grober si spense, soffocò tra le spire dell'Oscurità che ormai si era impossessata di lui, macchiando in modo irreparabile tutto ciò che il figlio prediletto di Vesmanir un tempo era stato: il giorno si tramutò in notte, la luce in buio e da quel momento, sotto lo sguardo ricolmo di orrore dei figli del Giorno, Grober rinacque a nuova vita, riemerse dalle torbide tenebre come Padre dell'Oscurità, della malvagità, dei mostri, della guerra e della desolazione e, come ultimo, della morte.

Con lui tutte le creature, dèi compresi, conobbero la fine che annullava il principio, il male dal quale nessuno era immune, al cospetto del quale ognuno trema per il terrore: la morte. Prima concetto inesistente e a dir poco assurdo per chiunque, essa divenne purtroppo un'amara certezza, un destino inevitabile contro cui era impossibile lottare in eterno.

La prima a cadere vittima, insieme a molti animali, piante, e le stesse creature che erano state plasmate a immagine e somiglianza degli dèi, coloro che sarebbero stati poi chiamati Sverthiani, fu la divina e sfortunata sposa di Grober.

Ella perì nel generare il terzo frutto della sua unione un tempo felice con Grober, ma non diede alla luce un figlio splendido come gli altri: ciò che nacque in quel giorno di dolore e morte fu una creatura orribile e ripugnante, di fronte alla quale persino il padre non poté non storcere il naso per il disgusto e la vergogna.

Egli, all'epoca, non era ancora del tutto consapevole di essere cambiato per sempre, di non essere più il bene, ma il principio e la causa primaria del male, ma di fronte a una tale progenie comprese finalmente la verità.

Non appena gli altri dèi seppero del neonato scempio, della venuta al mondo di quel vivente insulto alla vita stessa, non ressero oltre e cacciarono il fratello e i tre figli di quest'ultimo, condannandoli a un esilio non chiesto, ma a loro avviso necessario.

Il solo luogo nel quale amaramente Grober e figli riuscirono a trovare rifugio dal disprezzo comune fu proprio dove tutto aveva avuto inizio: lo sterile, nero Monte Arnak, nel cui cuore non solo si celava la Fonte del Male, ma anche un nucleo di fuoco liquido che non dormiva mai e si limitava a tornare di tanto in tanto quieto.

La figlia deforme di Grober, Gylea, crebbe più come una bestia che come un essere divino, nonostante i disperati tentativi del padre di riportarla alla civiltà; più il tempo trascorreva e più la famiglia di esiliati andava sgretolandosi, finché una notte Grober fece ritorno e vide i suoi amati e splendidi figli smembrati, i pezzi dei loro corpi sparsi per la caverna che era divenuta la nuova dimora.

Gylea, in preda al suo animalesco e mostruoso istinto, li aveva uccisi, divorandone anche alcune parti. Grober la trovò in un angolo, rannicchiata e in preda a gemiti penosi, tali fino al punto da far pensare a suo padre che forse in lei c'era un minimo di coscienza, di raziocinio.

Inizialmente desideroso di uccidere quella deforme oscenità, il dio un tempo luminoso e amato si scoprì incapace di agire, di farsi giustizia, perché Gylea restava anch'essa sua figlia, colei per la quale la sua amata sposa aveva dato la vita. Quella notte, però, Grober comprese finalmente di non essere più quello che era stato un tempo; capì che da lui mai più sarebbe scaturito nulla di buono, né puro, ma solo osceno e orrido male. Capì di aver ucciso lui stesso la propria divina compagna, perché era anche nella sua natura il distruggere, come lo era in quella di sua figlia.

Abbandonato dagli affetti, privato di ciò che un tempo lo aveva reso tanto amato, ammirato e benvoluto, Grober il Maledetto cominciò a riflettere sulla fragilità del Bene e a covare nell'animo il seme dell'odio, un rancore che nei millenni a venire lo avrebbe portato ad essere la divinità più temuta e detestata di Sverthian.



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