Capitolo XLVII. Le lacrime dell'oblio
Musica consigliata: "I shall believe" di Sheryl Crow.
https://youtu.be/8CHmVpxK6h0
Quello di Dario fu un risveglio agitato e in preda a un'angoscia senza nome, malgrado la compagnia di Gareth della notte precedente e ciò che essa aveva portato con sé.
Si svegliò di soprassalto, il respiro ansante e il corpo squassato da un tremore incontrollabile.
Il posto accanto a lui era vuoto e ormai freddo. Fuori dalla finestra il sole era già sorto e alto nel cielo grigio e spento. Doveva aver dormito fino a tarda ora, ma si sentiva ancora stanco e spossato, come se in realtà non avesse riposato affatto.
Scuotendo la testa nel tentativo di allontanare i ricordi confusi dell'incubo che aveva fatto e che non riusciva però a identificare con esattezza, scostò le coperte e scivolò fuori dal giaciglio. Il camino era acceso e scoppiettava dall'altro capo della stanza, più o meno di fronte al letto.
Avvertendo un gelo che nulla aveva a che fare con la camera, senza neppure badare al fatto che era ancora privo di vestiti, si avvicinò al caminetto e allungò le mani. Non servì a nulla, il freddo era sempre là, dentro di lui, aggrappato alle sue ossa, nella sua mente, ovunque.
Perché si sentiva di nuovo assalito da una tristezza orribile, tanto chiara e nitida da togliergli il respiro?
Perché una voce, dentro di lui, continuava a ripetere, in un debole sussurro, che non avrebbe mai e poi mai ottenuto la pace tanto desiderata?
I suoi pensieri vennero interrotti dal suono chiaro e nitido di qualcuno che stava bussando.
Si sbrigò a infilarsi la sopraveste simile a un kimono nero e ad allacciarne la cintura sui fianchi. Fatto ciò, raggiunse le porte e si affacciò sull'anticamera. Vide Petya e anche se sembrava tranquillo, capì che era una semplice facciata. Qualcosa non andava, glielo leggeva negli occhi.
«Niente salamelecchi e arriva al punto» disse diretto.
Yakovich aprì e chiuse la bocca, poi sembrò prendere una decisione e si sfilò di tasca qualcosa. Gli tese un pezzo di carta e Dario, confuso, lo prese e dispiegò. «Che roba è?»
«Leggi e lo saprai.»
Il vampiro roteò gli occhi, non avendo molta voglia di scherzare, e brevemente fece scorrere gli occhi sulle parole vergate nel trafiletto di giornale. Quando terminò, lo ripiegò lentamente e forzò un sorriso. «Beh, vaffanculo» sentenziò, strappando infine il ritaglio con una rabbia che non si disturbò a celare.
Petya deglutì. «È stato Fingal a scoprirlo per primo. Dice che... che in poche parole, ormai tutta Obyria lo sa già. A suo parere dovremmo lasciar perdere, ma... la scelta è tua, non mi permetto di importi alcunché.» Lo vedeva che era furioso e sin da quando Fingal lo aveva avvisato di quella storia, aveva temuto proprio quella reazione. La peggiore di tutte, a suo parere. «C-Credo che dovresti cercare di fare un respiro profondo, di calmarti e valutare il da farsi, sempre con calma.»
«Tu mi vieni a parlare di calma mentre là fuori sicuramente tutti si staranno facendo una risata? Mentre magari là fuori qualcuno, leggendo quel che c'è scritto qui, si accenderà una sigaretta e dirà che c'era da immaginarselo e che finalmente si è trovata la maniera di rimettermi al mio posto?» ringhiò il vampiro. «Io torno dritto nell'Oltrespecchio e prendo a calci nel culo Grober! Ecco cosa faccio! Non gliela lascio passare!»
Petya entrò nella camera e si chiuse dietro le porte. «Non dici davvero. Sei solo arrabbiato e lo capisco. Reagirei allo stesso modo se qualcuno, da un giorno all'altro, iniziasse a sbandierare ai quattro venti il mio passato. È comprensibile, ma quello che vuoi fare è stupido, irresponsabile e per nulla nel tuo stile. Sai che ho ragione, Dario, non fare quella faccia. Sto solo cercando di aiutarti.»
«Se vuoi aiutarmi, allora non metterti sulla mia strada!»
«Sto solo provando a evitare che tu finisca col farti ammazzare!» L'Efialte tentò di calmarsi. «In fin dei conti cosa te ne importa? Come se il resto del mondo non avesse dei segreti, cose di cui si vergogna! C'è di peggio, no?»
«Tu dici?» lo schernì il vampiro. «Non farmi ridere, Petya. Non verrò più preso sul serio da nessuno. Se la cosa dovesse arrivare fino alle orecchie di gente come Dracula, sta' pur sicuro che ci giocheremo il loro aiuto e allora sai che ridere! È un disastro!»
«Grober sta agendo così perché vuole spingerti a cedere. Vuole che ti convinca che ormai non ti resta altro che arrenderti, visto che la tua reputazione, ciò a cui più tieni, è compromessa. Lascia perdere e continuiamo a fare quello che stiamo facendo. In fin dei conti sei sempre stato una persona agli occhi altrui controversa, no? Cosa vuoi possa mai cambiare? Si sapeva già della storia di New York, d'altronde! Tutti sanno che hai dovuto agire in maniera spregiudicata per conto di Richard e la colpa non fu di certo tua, come non lo fu che non avesti altra scelta pur di aiutare l'uomo che amavi. Non fu colpa tua, ma della persona che ti bandì da casa e ti negò qualsiasi aiuto. Per fortuna che almeno non hanno parlato della faccenda dei quadri di Arrighi per i quali posasti nudo!»
Dario sbatté le palpebre. «Io non ricordo di averti mai detto tutto questo. Non sono mai sceso in quei particolari sul come finii in miseria né tantomeno dei quadri» osservò, restringendo lo sguardo.
Se prima si era sentito violato, proprio come si era sentito quella maledetta sera con Cassian di tanti anni addietro, in quel preciso momento la situazione era appena peggiorata drasticamente. «Le persone che ne sono a conoscenza sono così poche che una mano basta e avanza a enumerarle. Tu non eri fra quelle, perciò, Petya, te lo richiedo: chi te lo ha detto?»
Forse stava esagerando, ma fino a prova contraria quelli erano affari suoi che andavano ben oltre la semplice sfera personale.
Petya deglutì. «S-Senti, non farne una tragedia. Va bene? Insomma...»
«Sto per farne un massacro, a dire la verità» lo interruppe Dario. Solo per un momento all'ex-sovrano dell'Oltrespecchio parve di aver appena visto un guizzo scarlatto negli occhi del vampiro. Si ritrovò a pregare che fosse stato un semplice gioco di luci, anche se non ne era molto convinto, specie considerando cos'era accaduto di recente.
«Voglio solo che non ti arrabbi.»
«Mi sto già arrabbiando e la cosa peggiora di secondo in secondo!»
Yakovich si fece coraggio. «È stato Max a dirmelo. Okay? È stato lui e... Askan lo ha detto a lui a sua volta.»
«Askan non avrebbe mai fatto niente del genere. Se le cose stanno così, allora Max è un gran bugiardo e la cosa non mi stupisce, considerando cos'è stato capace di fare.»
«Non era in cattiva fede. Stavamo... si stava solo scherzando e... mi ha assicurato che fu Askan a dirglielo. »
«Oh, capisco! Quindi scherzate sugli affari miei? Buono a sapersi! Trarrò le mie debite conclusioni!» Il vampiro sollevò le mani, sdegnato e sull'orlo di un pianto di pura frustrazione. «Sai cosa? Fuori.» Accennò con la testa alla porta. «N-Non riesco neanche a pensare lucidamente, adesso. Fuori. Fuori, Petya. Adesso.»
«Dario, io... mi dispiace, davvero.»
«Fuori!» sbottò il non-morto, la voce incrinata. «Voglio stare da solo! Avrò diritto almeno a questo!»
Tutti e due si concentrarono su chi era appena entrato: Gareth. L'ibrido guardò prima l'uno, poi l'altro. «Lo sa già? Stavo... stavo venendo a dirglielo, ma credo di essere arrivato tardi» disse a Petya, poi si concentrò sul fidanzato e gli si avvicinò, leggendogli negli occhi immediatamente che era arrivato al famoso punto di rottura. Il momento in cui la corda si era talmente tesa, che di lì a poco avrebbe finito con lo spezzarsi. Gli posò le mani sulle spalle con gentilezza. «Adesso cerca di fare un bel respiro e di calmarti.»
«Come faccio a calmarmi?» sbottò di nuovo Dario. Ormai piangeva, incapace di trattenersi. Mai si era sentito più umiliato e quel che era peggio, era che era stato deriso in quell'articolo. Deriso per, testuali parole, aver fatto la parte del santarellino quando invece aveva un curriculum talmente torbido che persino la peggiore prostituta di bassa lega sarebbe impallidita e parsa una suora di clausura. «N-Non potrò più mostrare la mia faccia in pubblico! E io che... che iniziavo a convincermi che ci sarebbe stata finalmente un po' di pace per me! Prima di addormentarmi, ieri, mi sono detto che oggi avrei raccolto il coraggio che mi restava e mi sarei deciso a conoscere mia figlia, ma dopo una cosa del genere forse è meglio che io ceda definitivamente la sua custodia a Lorenzo e Alice! C-Come posso crescerla sapendo che potrebbe essere seguita sempre dalla mia vergogna? Non posso farle un torto come questo! Non a lei!»
Petya abbassò lo sguardo. Non ce la faceva a vederlo in quello stato e già starlo a sentire era abbastanza arduo. «Cristo santo» mormorò fra sé. Non era nessuno per giudicare Dario né per dargli torto fino in fondo, eppure, a suo parere, era sbagliato arrendersi a quel modo in partenza. Lui aveva scelto di stare lontano da André convinto che fosse per il suo bene e quello di Sophie, ma invece aveva solo spalancato le porte al male nella sua forma più pura e terrificante, e a pagarne le conseguenze era stato suo figlio, quel bambino un tempo dolce e innocente come tutti gli altri.
Gareth intanto prese parola: «Le faresti un torto imperdonabile allontanandola e impedendole di conoscerti, e lo sai. È una situazione difficile e fa venire i nervi anche a me, ma non puoi permettere a tutto questo di influenzare il futuro che sai di poter ancora avere. Lo sai, Dario. Ti basta solo volerlo, avvicinarti e afferrarlo. E poi quella testata giornalistica è sempre stata a tuo sfavore, lo sappiamo tutti quanti. Quando Andrew è fuggito di prigione e la notizia si è sparsa dappertutto, ti hanno definito in modi ancora peggiori, eppure non te n'è importato niente, o sbaglio? È il tuo passato e non puoi cambiarlo, nessuno può farlo, e non devi vergognartene. Loro dovrebbero vergognarsi ad aver preso di mira te in un momento difficile come questo, non pensi?» Azzerò la distanza e lo strinse a sé. «In qualche maniera le cose torneranno a posto. Credimi, lo faranno» gli sussurrò. Gli faceva male sentirlo e vederlo piangere, ma sapeva che nel suo caso era molto meglio in quel modo, anziché nell'altro, quando fingeva di fregarsene e si comportava come una pentola a pressione.
Petya, capendo che almeno per il momento quell'emorragia era stata tamponata, decise di lasciarli un po' da soli e uscì. Era stato più difficile dell'essersela dovuta vedere con Godric e la rabbia che quell'Efialte aveva provato non appena era venuto a sapere di cosa Dante aveva chiesto in cambio dell'aiuto che presto avrebbe prestato alla sua controparte. Era stato ancora più logorante, il che la diceva lunga.
Si riscosse dai pensieri quando vide avvicinarsi qualcuno: Desya. Deglutendo lo raggiunse.
Per quanto avesse detto e ripetuto a tutti che stavano solo attraversando una difficile fase, la verità era che fra di loro la situazione si era raffreddata, forse in maniera irreparabile.
Si erano lasciati, quasi quattro anni prima, con la promessa di riunirsi e ricominciare una vita da capo e lontano dalle ombre del passato, eppure aveva fatto male i calcoli. Ultimamente accadeva sempre più spesso, proprio come ad esempio era successo con Misha. Quattro anni prima, pur avendo percepito che qualcosa in lui non andava, non aveva riconosciuto in tempo l'inganno ordito da suo padre, il famigerato e da lui odiato Loki. Era rimasto con le mani in mano mentre suo padre aveva spinto verso la morte uno dei suoi amici più cari, malgrado tutto. Non c'era giorno che non pensasse, almeno una volta al dì, a Misha. Lo rivedeva sempre lì, sul punto di partire per una missione dalla quale mai era tornato, e negli incubi spesso invano aveva cercato di seguirlo, di raggiungerlo e dirgli di fermarsi, di non andare, che pur odiandolo per averlo tradito non voleva vederlo sparire, che era ancora suo amico, che per lui c'era ancora una speranza.
Ricordava ancora il momento in cui Iago gli aveva mostrato il corpo del suo amato e perduto fratello e lui... lui si era sentito male. Aveva finalmente dato un nome allo strappo che dentro di sé aveva percepito, proprio mentre altrove il suo Efialte era stato torturato e infine ucciso a pugnalate da Thor, sacrificato per consentire a James di vivere. James che invece, tornato dall'esilio, gli aveva sottilmente fatto intendere di aver scelto consapevolmente di morire, proprio come lo aveva scelto Alex.
A conti fatti, forse Misha era morto per niente. Forse tutto quello che avevano fatto avrebbe portato solamente alla distruzione definitiva di Obyria, dell'Oltrespecchio, di Sverthian, del mondo umano e chissà cos'altro.
«Cos'è successo?» chiese rauco. Desya era diventato una fortezza impenetrabile, ma c'erano momenti in cui Petya ancora riusciva a capirlo al volo, a decodificare i suoi atteggiamenti. «Hai... hai bisogno di qualcosa?»
La cosa che più lo inquietava e preoccupava, era l'aver capito che Desya era adirato con lui. Davvero adirato.
«Te lo dico subito cos'è successo, Petya» disse l'altro Efialte, il tono di voce tranquillo, fin troppo calmo. «Poco fa mio fratello è venuto da me. Conosco Iago da quando siamo nati, insomma, siamo gemelli! Lo conosco da tanto e giuro sulla Grande Madre di non aver mai visto mio fratello in quello stato: piangeva come un bambino e quando ha finito di parlare, mi sono reso conto che stava di nuovo avendo un attacco di panico, come più o meno succede da quando Misha è morto e la donna che amava lo ha scaricato dopo quel maledetto aborto. Non so neanche perché te lo sto ricordando. Non c'eri neanche, me l'ero dimenticato!»
Yakovich respirò forte. «Per favore, arriva al punto.»
«Ci arrivo subito! Ho scoperto, dopo secoli di esistenza, che io e i miei fratelli eravamo dei principi o roba del genere. È stato Dante a dirglielo, anche se in un primo momento mi sono detto che sicuramente era opera di Godric. Invece no! Altra sorpresa! Quello che io voglio sapere da te, Petya, è questo: da quanto ne eri a conoscenza?»
Petya deglutì. «I-Io non...»
«Non prendermi per il culo. Non ti azzardare, Petya! Non hai battuto ciglio quando poco fa te l'ho spiattellato! La tua espressione colpevole parla al tuo posto, cazzo!», perse la pazienza Desya. «Sarei felice, almeno per una volta, che ti decidessi a essere sincero!»
L'ex-sovrano si umettò le labbra. «L-L'ho scoperto più o meno un paio di anni fa, mentre ero ancora latitante.»
Desya rise e scosse la testa. «Avrei dovuto immaginarlo. Non ti smentisci mai. Non so neanche perché mi disturbo ancora a prendermela quando viene fuori una delle tue solite porcate! È peggio di quando non hai voluto saperne di uccidere Isabelle, anche se si è unita a Grober e ha scelto di mandarti a quel paese e di fregarsene di te e di suo figlio! Anche se fu lei a chiedere a Misha di ammazzarla, in modo da poter tornare a essere una Strige! Neanche quando è stato evidente che da prima di morire si era messa a tramare alle tue spalle hai voluto saperne di riconoscere i tuoi sbagli! È sempre così con te! Sempre!»
«Se non te l'ho detto, è perché non mi sembrava ancora il momento adatto. Sai che non avrei mai fatto niente per ferirti, non intenzionalmente.»
«Mi prendi in giro? Avresti dovuto dirmelo subito! Ne avevo il diritto! Guarda, adesso, quanto sono ferito!»
«La tua reazione sarebbe stata la stessa, Desya. Stai... stai solo cercando qualcuno con cui prendertela. Prova a dire che non è vero.»
«Quindi non hai la minima intenzione di scusarti? Buono a sapersi! Cristo santo... tu... tu sei incapace di chiedere scusa! Neanche adesso hai l'umiltà di ammettere di avermela fatta sporca!» Desya scosse il capo. «Io... io ci rinuncio! Basta! Questa... questa è stata la goccia fatidica, Petya! Non so più cosa dire o come giustificarti!» Inutile girarci attorno, inutile negare che fra loro fosse finita. «Io e Iago abbiamo scelto tutti e due di non parlare più di quella storia e di ignorare apertamente la faccenda. Lui non vuole saperne di scavare oltre nel nostro passato e io sono d'accordo con la sua decisione. È una responsabilità che non vogliamo sulle spalle. Nessuno può chiederci di dare via quel poco di anima rimasta a entrambi.»
Sin da quando Iago era tornato, Desya non aveva ignorato il cambiamento radicale che suo fratello aveva affrontato in quei mesi di lontananza. Era cambiato in un modo che mai si sarebbe aspettato e iniziava a rimpiangere lo Iago di una volta, quello di tanto, tanto tempo addietro. Per quanto freddo e distaccato, era stato anche la colonna portante della famiglia, aveva saputo tener uniti, nel bene e nel male, lui e Misha. Aveva fatto loro da padre e da fratello, si era prostrato e umiliato per entrambi, per garantire loro un futuro. Per Iago niente era mai stato facile, eppure aveva resistito, lo aveva fatto finché Jake non era arrivato e lo aveva ucciso per consentire all'uomo che Desya aveva di fronte di tornare a vivere.
Quando era stato riportato indietro, non aveva dato segni di esser mai cambiato, ma poi... poi Misha se n'era andato per sempre ed era stato allora che aveva visto Iago dare i primi segni di cedimento e di sofferenza. Quattro anni di sacrifici e rinunce, di scelte difficili, di responsabilità e rimpianti, solo per poi dover fronteggiare altro dolore, altra morte e altri sensi di colpa.
Quando poco fa avevano parlato, Iago aveva detto una cosa che lo aveva angosciato. Gli aveva rivelato di sentirsi nelle ossa che uno di loro sarebbe finito male, proprio come era accaduto a Misha. Gli aveva letto negli occhi che non si trattava di un timore, ma di una certezza.
Alcuni dicevano che le persone che erano tornate dalla morte non si riunivano mai fino in fondo al mondo dei vivi. Una parte di loro restava incastrata fra i vivi e i morti, prigioniera dell'Aldilà, un marchio indelebile che ricordava sempre loro di non appartenere più sul serio alla vita, bensì alla sua cupa gemella. Una volta gli avevano detto che coloro che venivano richiamati indietro dalla morte, prima o poi cominciavano a udirne, poco a poco, il richiamo, e come pecore che si erano allontanate dal pastore, trovavano il modo di tornare nel gregge.
Lui aveva intravisto negli occhi di Iago che quel richiamo nella sua mente era ormai assordante, forse impossibile da ignorare, e aveva paura. Aveva paura di vederlo gettare del tutto la spugna e che commettesse una sciocchezza, qualcosa di definitivo e di terribile.
Era come se in silenzio gli avesse confidato di non farcela più e di non vedere ormai nessuna via d'uscita da quel disastro. Forse si era persino arreso agli eventi, alla voce che gli sussurrava all'orecchio che quello non era il posto adatto a lui e che forse, dopo aver vagato come uno spettro per quattro anni, era tempo che facesse ritorno nel sepolcro.
Misha aveva ceduto per primo alla tristezza e aveva scelto di infilare la testa nel cappio, consapevole di cosa sarebbe accaduto, e Iago, di quel passo, avrebbe fatto la sua fine.
Persino la consapevolezza che sarebbe presto diventato padre non sembrava risollevarlo, anche se non c'era da stupirsene, visto che non aveva voluto saperne di parlare con Zelda da quando era tornato. Non aveva fatto altro che starsene per conto proprio e non aveva mai voluto affrontare neppure la questione di Alex né la cruda realtà di ciò che presto sarebbe accaduto.
In un certo senso, sembrava già pronto per congedarsi di nuovo dalla vita. Forse l'aveva già fatto e non era rimasto altro di lui, se non un pallido fantasma.
«Dico solo questo, Petya: se succederà qualcosa a mio fratello per via di questa storia, giuro che il primo a pagarne le amare conseguenze sarai tu. Voglio che tu pensi a questo giorno e notte, fino all'ultimo istante. Voglio che tu viva con il costante terrore, con il perenne pensiero che se Iago dovesse morire o correre un serio pericolo, tu a quel punto lo seguiresti a ruota nell'Aldilà, anche se, considerando cos'hai fatto in passato, direi che il solo posto adatto a te potrebbe essere solo l'Inferno.» Forzò un sorriso. «Per sicurezza e come forma di scaramanzia, però, ti auguro già da ora ti andarci, mio caro Petya. Va' all'inferno e già che ci sei restaci. Aveva ragione Misha su di te: diceva che avresti distrutto tutto quanto, per prima cosa la nostra famiglia o ciò che ne restava, e cazzo... lo hai fatto eccome! Avrei tanto voluto dargli ascolto e fidarmi di lui, di mio fratello, piuttosto che di te. Col senno di poi, credo che forse gli avrei dato una mano a buttarti giù dal trono e a darti finalmente ciò che davvero meritavi.»
Gli rifilò un'ultima sprezzante occhiata e poi se ne andò. Tutto quello che c'era da dire, dopo quattro anni, era stato detto.
«Tra qualche giorno raggiungeremo le Terre dell'Ombra, sempre che questo maledetto maltempo decida di darci tregua.» Aleryn lanciò un'occhiata cupa e irritata alla finestra a bovindo che si trovava proprio dall'altro capo della cabina, di fronte alla scrivania sulla quale giaceva una mappa. La conformazione delle terre lì descritte minuziosamente ricordavano molto vagamente il mondo umano, ma vi erano tante di quelle differenze che Andrew solo dopo averci riflettuto aveva notato quelle piccole somiglianze del tutto trascurabili.
La nave, ad ogni modo, era in balia di una tempesta. Pioggia scura e fitta bagnava da quasi due giorni il veliero e nelle ultime ore la situazione era peggiorata. Drew, che aveva sempre preferito la terraferma, non si sentiva affatto a suo agio a bordo di quella bagnarola che oscillava e a stento pareva riuscire a proseguire il viaggio verso il continente abitato dai Græber.
«Qualche giorno?» ripeté, tentando per puro orgoglio di celare il disagio e il nervosismo. «Più specificatamente?»
«Direi tre o quattro, ma vista la situazione attuale... una settimana, temo. Sempre che riusciamo a uscire incolumi dalla burrasca, s'intende.»
«All'inizio era tutto calmo. Com'è che adesso si sta scatenando il finimondo, si può sapere?»
«Purtroppo qui né io né Sardan abbiamo potere e la gente di Sverthian sa che più ci si avvicina a quella terra maledetta e più si corre il rischio di incorrere in tempeste.»
Andrew sbuffò. «Mi chiedo come mai non mi sia venuto in mente di chiedere a Iago di aprire un portale che ci conducesse direttamente laggiù. Ci saremmo risparmiati 'sto guazzabuglio, almeno.»
Aleryn alzò gli occhi al cielo. «Non avrebbe potuto farlo neppure volendolo e credo che ne fosse consapevole. Qui a Sverthian non si possono creare portali che conducono a luoghi di cui non si conosce l'ubicazione e la precisa destinazione. A quanto pare, a differenza tua, Iago si era preso la briga di fare i compiti e studiarsi per bene le regole di questo mondo.»
«Scusa se sono stato impegnato in ben altre faccende, tra cui cercare invano di scoprire cosa abbia in mente mio marito. Non ero propriamente in vena di approfondire le mie conoscenze di Sverthian.»
Lei lo scrutò per una manciata di secondi in silenzio, seria in volto. «Non hai bisogno di scoprire un bel niente. Dentro di te conosci la risposta a questo quesito. Il problema, Andrew, è che ti ostini a non accettarla né a prenderla in considerazione.»
«Invece non la conosco» la rimbeccò gelido Drew, pur avendo provato un tuffo al cuore alle parole di Aleryn. «E se anche fosse, ormai penso di non sapere più un bel niente. Ogni mia singola convinzione, ogni mia credenza, da quella più sciocca ed elementare alla più complicata, sono state scardinate. Non so cosa abbia intenzione di fare sul serio Alex, non appena saremo a terra. So solo di voler fare ritorno a casa con lui al mio fianco o di non farlo affatto, nel caso accada qualcosa.»
Aleryn di nuovo lo squadrò. «Niente è mai tutto nero o bianco. Non puoi essere così selettivo e testardo. È proprio per questa tua mentalità che in parte ora ti ritrovi nei pasticci.»
«In cosa sarei selettivo e testardo? Illuminami, forza» la provocò in parte Andrew. Credeva di essere ormai un po' troppo cresciuto per le ramanzine, specialmente quando provenivano da persone che a malapena conosceva.
«Lo sai molto bene. Non sono tua madre e non spetta a me elencarti i tuoi difetti e dirti come smussarli.»
«Wow, sei di grande aiuto!» commentò sarcastico il vampiro. Trascorse un po' di teso silenzio. «Ricordi quando tu e tuo fratello mi avete raccontato la verità su Dario? Prima che uscissi sul ponte, tu mi hai congedato con una frase molto strana. Hai detto, testuali parole, che farei molto meglio a non affezionarmi troppo a lui. Che intendevi?»
«Esattamente quello che ho detto. Capirei la tua perplessità se avessi pronunciato tale frase nella lingua di Sverthian, quella antica, ma pensavo ti avessero insegnato a capire e a parlare l'inglese.»
Andrew restrinse lo sguardo e sghignazzò forzatamente. «Davvero spassosa» commentò poi. «Fare la stronza non ti aiuterà a sviare il discorso e a scoraggiarmi, perciò falla finita di menare il can per l'aia e parla chiaro.»
Aleryn sospirò in modo volutamente esagerato. «Sapere a cosa mi riferivo non ti farà sentire meglio. Credimi, ti conviene non pensarci. A volte certe cose sono scritte nel Fato e non si può fare niente per cambiarle o piegarle al nostro volere.»
«Stai dicendo, in maniera molto contorta, che sta per accadergli qualcosa?»
«Ripeto: non posso...»
«Ho capito. Non sono sordo. Voglio solo sapere, va bene? Sono stufo delle omissioni e dei segreti. Non puoi gettare la pietra e poi nascondere la mano. Non sono tipo da lasciar perdere.»
Aleryn tacque, poi: «Molti secoli addietro un equilibrio delicato venne infranto. Colui che aveva il compito di gestire le anime dei defunti e di reclamarle per condurle nel Regno dei Morti venne a mancare. Aveva tradito Grober e facendolo si era condannato da solo, senza badare alle conseguenze gravi di un gesto così sconsiderato. Certo, lo fece per dare un freno a mio fratello, perché forse non c'era altro modo per fermarlo, ma aveva dimenticato di non essere più un angelo fuggitivo e ribelle che poteva fare quel che voleva quando gli pareva. Nel vostro mondo era definito dagli antichi ‟Dominus Mortis", ovvero il Padrone della Morte. A lui si deve la nascita della pianta i cui frutti rendevano chiunque ne facesse uso un Padrone della Vita e della Morte. Non è un caso che poi fu Lucifero, suo fratello minore, a custodirne gli esemplari rimasti nei suoi giardini infernali. Rasya e Azrael assieme crearono quella stirpe maledetta e crudele di potenti negromanti che col tempo si lasciarono corrompere dalla sete di potere e di sangue innocente. Erano soliti mettersi d'accordo quando si trattava di questioni di vitale importanza e pare che così fecero anche quando dovettero trovare un modo per fermare Grober. Sapevano anche, però, che l'equilibrio fra vita e morte, fra defunti e viventi, è come un orologio che non si ferma mai e che continua a girare in cerchio dall'alba dei tempi. Un orologio non può funzionare se un solo ingranaggio viene sottratto alla sua struttura e quando Rasya venne a mancare, una delle lancette cadde e le anime dei morti di Sverthian si ritrovarono senza una guida e sì, anche uno spauracchio. Rasya era astuto e spregiudicato, era pronto a tutto pur di averla vinta e non permettere a Grober di farla franca o cantar vittoria. Questa sua spregiudicatezza, la sua stessa crudeltà, hanno condotto alla presenza di due individui che dentro di loro custodissero quanto restava di lui in attesa che il momento propizio per il suo ritorno giungesse».
La dea si strinse nelle spalle.
«Per tale ragione ti ho detto di non affezionarti troppo a quell'uomo, Andrew. Dario e il suo Efialte altro non sono che agnelli sacrificali pronti a essere uccisi sul ceppo del macellaio. Conoscevo Rasya così bene da poter dire con certezza che non si fece problemi di fronte alla prospettiva di tornare a discapito di due vite a confronto suo innocenti e ignare del loro terribile destino. Era la Morte e come tale era crudele, capace di guardare chiunque negli occhi senza mai abbassare lo sguardo o sentirsi in colpa. Così crudele da aver stabilito che due persone, un giorno, per farlo tornare indietro e all'antico splendore, sarebbero dovute perire in modo da riunire i pezzi mancanti. Essere gli Eredi di Rasya fa di quei due uomini le creature più sfortunate che abbiano mai solcato il suolo terrestre. È un orrendo privilegio quello con cui sono venuti al mondo e se Rasya diceva che avrebbe fatto qualcosa, si poteva star sicuri che l'avrebbe fatta davvero, poco importava quanto altro avrebbe dovuto sacrificare sulla strada per il traguardo. La verità è che sono già morti, solo che non se ne sono resi ancora del tutto conto. Sono morti dal primo istante in cui sono nati.»
Andrew, profondamente scosso, deglutì a fatica. «Ma non è Grober quello che vuole a tutti i costi far tornare Rasya? Dario e Dante, da quel che so e che tu stessa hai detto, non sembrano inclini a voler dargliela vinta.»
«Beh, è chiaro che Rasya intendesse tornare da divinità libera. Suppongo che mio fratello, che stupido non è mai stato, abbia infine compreso la sua strategia e scelto di appropriarsene e piegarla a proprio vantaggio. Grober è uno stratega e come tale agisce e ragiona.»
Quella storia era davvero demoralizzante e preoccupante. Andrew, tuttavia, si concentrò su una parte in particolare del racconto di Aleryn: «Hai definito Rasya un angelo ribelle. Credevo che il ribelle per eccellenza fosse Lucifero».
«Lucifero seguì solo le sue orme e lo fece spinto dalla disperazione. Rasya era un angelo e nacque assieme a Metatron e ad Azrael. Furono i primi a venir generati e lui, all'epoca, era conosciuto come Rasyel. Come i suoi fratelli era dotato di una visione celeste che gli consentiva di vedere e sapere cose che altri neppure potevano immaginare, ma non era altrettanto dotato di disciplina e di saggezza. Era l'inquieto di famiglia, per farla breve, e forse per questo ebbe dei contrasti con suo Padre e decise di andarsene. Se ne andò in esilio per sua stessa volontà e le sue ali, un tempo state iridescenti e luminose, divennero nere come la notte, specchio dell'oscurità che albergava dentro di lui. Fu Rasyel il primo Caduto, non Lucifero, ma questa definizione è errata. Rasyel non cadde mai. Prese il volo e non fece più ritorno, il che è ben diverso. Divenne apprendista di Azrael, da lei imparò tutto quello che poteva e poi scelse di avere una propria volontà, cosa che lo spinse a volgere lo sguardo su Sverthian. Portò con sé la fine dell'immortalità per tutte le creature, compresi noi, a nostra volta divinità. Forse fu la sua presenza a dar vita alle Tenebre nel nostro mondo, alla fonte malefica che poi reclamò Grober e lo tramutò in un essere crudele e vendicativo.»
Drew, scosso, ragionò. «Perciò... questo farebbe di Rasya, in un certo senso, il solo responsabile di questo casino.»
«Essere responsabili di qualcosa non sempre ci rende attivamente colpevoli degli effetti collaterali. Non credo avesse in programma quanto poi avvenne, ma ciò che davvero stupisce è come fece mio fratello a divenire il suo carnefice, dopo esser stato una vittima. Nessuno prima o dopo lui è mai riuscito a piegare la volontà di Rasya, ma lui ce la fece. A volte... non lo so... non posso non ipotizzare che fece leva sul piano affettivo.»
«In che senso?»
«Rasya poteva aver pure voltato le spalle alla sua famiglia, ma essa resta pur sempre tale e non si può sempre ignorarne il richiamo. Era comunque legato ad alcuni suoi fratelli, tra i quali proprio Lucifero e... come dire... lui e Grober, dopo che mio fratello abbandonò temporaneamente Sverthian, si conobbero, approfondirono tale conoscenza, capirono di andare più che d'accordo e... alla fine... Grober divenne sovrano dell'Inferno al fianco dell'Angelo Caduto. Divenne il suo compagno, fu allora che acquisì il soprannome di Padre delle Tenebre e poi, più avanti, Satana. Inizialmente pare che fu un re altrettanto giusto come Lucifero, il suo sposo, che credo amasse molto. Era come se lui avesse riportato un po' di luce nel suo animo, perdonami il gioco di parole, ma poi suppongo che le Tenebre intensificarono la stretta sul suo cuore, tornarono a ghermirlo come le fauci di una belva rimasta nascosta fino ad allora e fu così che divenne sempre più crudele, sempre meno ragionevole e sempre più assetato di sangue. Fra i loro sudditi, i demoni, si formarono delle fazioni: alcuni approvavano il suo pugno di ferro, altri invece lo odiavano e disprezzavano i suoi metodi. Dopo un po' di tempo, penso che Lucifero non ce la fece oltre e fu così che fra lui e Grober si formò una voragine. Ancora in seguito... accadde ciò che sicuramente Grober non ha ancora perdonato all'Angelo Nero: Lucifero lo tradì e ordì una congiura mortale a suo danno. Fra i vari partecipanti, ovviamente, c'era anche Rasya. Fu lui a rivelare agli altri il modo per annientare Grober.»
Andrew si sentiva quasi mancare. Fu costretto a lasciarsi cadere seduto sulla seggiola di fronte alla scrivania. «Ancora non mi è chiaro cosa fece tuo fratello per assicurarsi l'obbedienza di Rasya» disse con un filo di voce.
«Io... io ho paura che Grober lo minacciò di spiacevoli ritorsioni contro Lucifero o Michele in persona, se non avesse acconsentito a lavorare per lui e diventare suo schiavo.»
«Ma hai detto che amava Lucifero!»
«Magari era solo un bluff o forse non fece niente del genere e prese una strada differente» disse cauta Aleryn. «Tuttavia, sospetto che in minima parte si fosse unito a Lucifero per interesse prettamente personale, politico e di potere. Erano fra le coppie più potenti del Mondo Ultraterreno e lui, paradossalmente, aveva acquisito maggior popolarità fra i demoni di quanto avesse mai fatto il Portatore di Luce. Grober ha sempre avuto la pericolosa e conveniente qualità di possedere una personalità magnetica. Sapeva trascinare gli altri e convincerli a fare di tutto e di più. Un tempo si serviva di tale capacità per fare del bene e in modo innocente, ma dopo che ebbe fatto ritorno da noi e dalla Fonte, quell'innocenza sparì e così pure i buoni propositi che l'accompagnavano. Se Tredar fece quello che temo, allora Grober sin dal ritorno era pieno di odio e rancore, di sete di rivalsa a qualsiasi costo. Bramava vendetta, la brama ancora, ma non è questo il suo obiettivo principale.»
Andrew si accigliò. «E allora quale sarebbe? Che senso ha tutto questo macello?»
Aleryn dischiuse le labbra per parlare, ma si arrestò quando udirono qualcuno bussare alla porta della cabina. «Avanti» disse a voce alta.
A entrare fu Alex, seguito da Sardan. Erano fradici di pioggia nera fino al midollo, fuori c'erano un acquazzone spaventoso.
Andrew scattò in piedi e come un razzo raggiunse subito il compagno. Lo fece entrare del tutto e poi studiò la sua espressione. Qualcosa non andava, glielo leggeva in faccia.
Sardan si avvicinò e guardò la sorella con gravità. «È stato Tredar, Aleryn. Lui... lui davvero uccise Grober.»
Aleryn, benché non del tutto stupita, lo stesso sentì il cuore fare un balzo nel suo petto. «Cosa? Ma come... quando...»
«Alex stava dormendo e quando si è svegliato, è corso subito da me per dirmi cos'aveva visto in sogno. Suppongo abbia assistito all'ennesimo ricordo di Grober» spiegò in breve Sardan, cupo. «Ma non è solo per questo che l'ho convinto a venire da voi.» Guardò il vampiro dai capelli biondi. «Diglielo, coraggio. Non c'è motivo per cui tu debba vergognarti.»
Andrew fece un passo avanti. «Dirmi che cosa?»
Sardan fece un respiro profondo, poi con un cenno invitò la sorella a lasciare i due da soli e uscirono entrambi dalla cabina, chiudendosi dietro la porta.
«Alex?» incalzò Drew. «Che succede?»
Lex, malgrado i vestiti fossero bagnati, per puro riflesso se li strinse addosso, desiderando di trovarvi un calore e un conforto che sapeva non avrebbe ottenuto. «I-Io...», esitò. «M-Mi capita di spaziare ogni tanto con la mente nei ricordi. Lo faccio spesso, ultimamente, ma prima... prima ho... ho realizzato che... n-non ricordo più il nome dei miei genitori. S-So di averne avuti, m-ma... n-non ricordo più i loro nomi e le loro fattezze. So di aver avuto un passato, dentro di me... s-sento di esser stato come tutti un bambino, un ragazzo, ma... n-non gli eventi verificatisi in quel lasso di tempo. Persino il ricordo della prima volta che ti ho visto sta... sta iniziando a sfumare. È come se ti rivedessi di nuovo quando avevi diciotto anni, ma attraverso un velo che offusca i tratti del tuo viso di quando eri un ragazzo.» Delle lacrime irrefrenabili cominciarono a scendere sulle sue guance. «Io so nel mio cuore di aver avuto un amico, un amico speciale, ma non ricordo chi era, Andrew!»
Andrew avrebbe voluto avere la forza di consolarlo, di stringerlo forte a sé, proprio come l'amore per Alex gli imponeva di fare, ma scoprì di non riuscirci. Di non poter muovere un muscolo, di essersi come pietrificato sul posto.
«I-Io non capisco» mormorò, confuso e in stato di shock. «C-Che intendi dire? Come... come puoi non ricordare tutto questo?»
Che stava succedendo? Che storia era quella?
Riuscì a fare forza su se stesso, sollevò le mani e le pose ai lati delle spalle del marito. «V-Vuoi dirmi che non ricordi il tuo passato? Niente?»
«Niente» singhiozzò disperato l'altro, in stato forse confusionale. «S-Sto impazzendo, vero? È per questo che non ricordo nulla?»
«No, non stai impazzendo!» replicò allarmato Andrew, scuotendolo piano. «Alex, guardami! Non stai impazzendo! Questo... questo è solo... magari è... è solo una cosa temporanea! Sei... sei stressato, sei stanco, non ti nutri da non so quanto! Ricordi com'ero io quando sono risalito dalla mia tomba? Cavolo, n-non capivo più niente! Forse è normale, no?» Eppure una voce dentro di lui gli urlava che non era affatto normale, che qualcosa non andava e che la situazione, forse, sarebbe addirittura peggiorata. Ricordava di aver una volta visto, da ragazzo, un documentario sulla perdita di memoria e l'Alzheimer. Era come se ad Alex stesse accadendo proprio quello, seppur in modo velocizzato e anomalo, nonché insensato. Stava perdendo brandelli di se stesso, di chi era ed era stato. Aveva scordato tutto, compresi forse gli eventi che avevano segnato il destino di entrambi.
Gli tremavano le mani. Le fece risalire fino al viso di Alexander e scacciò da esso le lacrime. Cercò di sorridergli e di rassicurarlo. «Torneremo a stare bene. Anche tu, Alex. Capito? Anche tu.» Forse era una fortuna che fosse già morto una volta, altrimenti... era convinto che dopo quell'ennesimo colpo, sarebbe sicuramente morto di crepacuore. «E s-se non ricordi certe cose, allora... allora io ricorderò per entrambi, lo farò finché non ti tornerà la memoria. Va bene? Ci sono io con te. Sempre. Fino alla fine e anche oltre.»
Gli faceva male, così male, vederlo piangere come un bambino spaventato. Gli sembrava davvero un bambino, non un uomo bello che cresciuto. Fragile e indifeso, inerme contro un nemico che adesso sembrava aver deciso di prendere di mira la cosa più importante che lui possedeva: i ricordi, la sua identità.
Alex lo afferrò per i vestiti e lo guardò. Era disperato. «D-Dobbiamo arrivare alle Terre dell'Ombra in fretta, Andrew! N-Non c'è più tempo! Dobbiamo farlo prima che... che io finisca per dimenticare anche te, per dimenticare di averti amato, di amarti ancora! È importante che io lo ricordi! Devo farlo o non potrò proteggerti! Lo capisci?»
«Proteggermi da cosa?» chiese Thorne con un filo di voce. Non sapeva chi gli stesse dando la forza di non mettersi a piangere come Alex.
«Da... da ciò che ci attende laggiù e... anche da me. Soprattutto da me» rivelò Alex, come non facendocela oltre. «N-Non ho più tempo, Andrew. Il tempo per noi ormai sta scadendo.»
«Cosa? Ma che dici?»
«N-Non posso... non posso dirtelo. Ho giurato che non l'avrei fatto. Non ne sarei in grado comunque. N-Non mi è permesso.»
«Alex, mi sto spaventando, cazzo!» sbottò in lacrime Andrew, arrivato al limite. «Come faccio ad aiutarti, se tu neanche ti fidi di me?»
«Ma io mi fido di te!»
«Allora dimmi che cosa sta succedendo! Dimmi perché vuoi proteggermi! Ti prego!»
«Non te lo posso dire. Vorrei solo che... che ci fosse un altro modo. Vorrei tanto che ci fosse, ma non c'è. Vorrei che tu potessi dimenticarti di me. Dimenticare il mio viso, la mia voce, ogni cosa che mi riguarda. Vorrei solo questo» disse sfiancato Alexander. Malgrado lo sguardo fosse puntato sul pavimento, lo stesso Andrew riusciva a vedere i suoi occhi stanchi e spenti. Stanchi di vivere, di soffrire, di quella lunga agonia che si era protratta per anni e anni. I suoi occhi imploravano pace, così tanto che il cuore di Andrew finì per spezzarsi nel raggiungere una consapevolezza così atroce e dolorosa. Capì di non aver visto niente di tutto questo perché non aveva voluto vedere.
«Come puoi proteggermi, se prima non proteggi te stesso?» chiese abbattuto, sconfitto.
Alex si scostò e si voltò. Esitò prima di uscire. «Non ho bisogno di proteggere me stesso. Non per cosa ho promesso di fare. Ho giurato a tua sorella, a tutti quelli che ti vogliono bene, che tu... che tu saresti tornato a casa sano e salvo. L'ho giurato a me stesso. Questo è il solo modo che io abbia per mantenere la promessa.»
Si arrischiò a guardare l'uomo che amava, ma del quale già faticava a rimembrare le azioni e le parole passate. Lo amava senza ricordare cosa lo avesse spinto a innamorarsi di lui, a ritenerlo un uomo meraviglioso, unico e speciale. Un uomo così bello, dentro e fuori, da averlo spinto a scegliere di morire per aver in cambio salva la sua vita. Un uomo per il quale si sarebbe presto dovuto sacrificare. Lo amava senza sapere il come o il perché. Sapeva solo che ne era valsa la pena, che tuttora ne valeva la pena. Sapeva solo che sarebbe morto mille volte per un suo semplice sorriso, per vederlo stare bene, in pace.
Dentro di sé sentiva che c'era un torto che un tempo gli aveva fatto, un torto grave, mostruoso e imperdonabile, torto che tuttavia era stato invece perdonato e capito, anziché punito. Sentiva anche, però, che lui non aveva perdonato se stesso. Sapeva di non averlo mai fatto, che mai avrebbe potuto farlo, e sapeva che presto avrebbe rimediato a quell'antica colpa, espiato finalmente il peccato e ristabilito l'ordine.
«Devi... devi giurarmi che appena saremo arrivati a terra... da quel momento in avanti tu mi darai sempre ascolto. Giurami che farai tutto quello che ti dirò di fare, senza discutere, senza chiedere perché.»
Se ti dirò di scappare, di andartene via senza di me, di lasciarmi indietro al mio destino, tu dovrai farlo, amore mio. Dovrai andare avanti senza di me. Sii forte, Andrew. Sii forte nella vita come lo sei stato nella morte. Così forte da abbandonarmi, anche se farà male.
Sconcertato da tutto quello che aveva udito, Andrew scosse il capo. «Io... io non posso giurarti una cosa simile. Non quando non so nemmeno in cosa ci stiamo andando a cacciare.»
«Che tu lo giuri o meno, arriverà un momento in cui dovrai per forza fare una scelta. Dovrai scegliere, Andrew, e io... io ti prego, ti imploro di scegliere te stesso. Fai ciò che feci io tanti anni fa. Voltati e vattene. Non importa se ti griderò di tornare indietro, di non lasciarmi. Dovrai essere sordo a tutto.»
Per un attimo, uno solo, nelle sue orecchie risuonò l'eco assordante della sua stessa voce che strozzata, flebile e rotta dal pianto pregava qualcuno, che sapeva essere Andrew, di restare, di tornare da lui, di non lasciarlo indietro.
Andrew sarebbe dovuto essere forte perché lui, al contrario suo, non lo sarebbe stato, non fino alla fine. Era sempre stato il più forte. Sempre. Gli stava solo chiedendo di esserlo un'ultima volta, di affrontare la prova più difficile che mai avesse fronteggiato. Gli stava chiedendo di tornare, per un solo attimo, a essere l'Andrew crudele e spregiudicato che era tornato dalla morte per punirlo.
Lo stava implorando, dopo quasi un anno dal suo ritorno, dopo aver lasciato in sospeso per tanto tempo la sua oscura promessa, una delle pochissime cose che a stento Alex riusciva a ricordare ancora, di portare finalmente a termine la vendetta. Ne valeva della sua sopravvivenza, del suo futuro.
Andrew scosse il capo e lo raggiunse. «No! Non farò mai niente del genere! No, Alex! No!» disse disperato, certo, ma anche determinato. «Non potrò mai mettere me stesso prima di te! Mai! Non ti abbandonerò! Se tu cadrai, io tornerò indietro, ti solleverò da terra e continueremo a scappare insieme! A costo di portarti in braccio! A costo di rischiare il peggio! Siamo compagni di guerra, non solo sposati! Solo un vigliacco, un traditore, abbandonerebbe un compagno nel momento del bisogno!»
«No, Andrew.» Alex gli sfiorò una guancia. Un gesto d'amore delicato come il tocco di una piuma. «Sono tante le cose che chiunque potrebbe dire di te, ma mai e poi mai, mai, potrebbero definirti un vigliacco. Tu... tu sei un uomo splendido a cui sono capitate fin troppe cose orribili. È arrivato il momento che tu smetta di portare sulle spalle una croce che in fin dei conti mi sono scelto da solo. Non è più necessario che tu mi aiuti a portarla.»
In un certo senso, parlando per metafore antiche, ormai il Golgota era vicino. Era finita. La marcia si era conclusa.
«Grazie per amarmi. Grazie... per avermi amato, anche quando lo meritavo di meno. Io... posso non ricordare cos'è accaduto molto tempo fa, ma so di non aver meritato il tuo amore. So di essere stato ingiusto, in qualche maniera, con te, e so di averti fatto soffrire per questo. Perciò... prima che io dimentichi molto altro ancora... voglio chiederti scusa un'ultima volta. S-So di averti promesso che non saremmo più tornati sull'argomento, ma ho bisogno di chiederti di nuovo scusa. La colpa è stata solo mia, dal primo all'ultimo istante. Meritavi più di quanto io sia riuscito a darti. Meriti più di quanto io potrei mai darti. Lo meriti, Andrew, perché tu... tu non sei come me. Tu sei buono. Sei un uomo buono, e io... io non ho bisogno di ricordare di averti fatto del male, non ne ho bisogno per odiare me stesso.» Quella colpa non se n'era mai andata e non rimembrare faceva male, faceva male perché era come se si fosse privato di un peso che invece avrebbe meritato di portare interamente. Non meritava il sollievo dell'oblio, in cuor proprio lo sapeva fin troppo bene. Era stato una persona cattiva, forse lo era ancora, lo sarebbe rimasto fino all'ultimo.
Magari una redenzione mai era esistita davvero.
Andrew non ce la fece e lo strinse forte a sé, soffocando penosi singhiozzi sulla sua spalla, tra i suoi capelli biondi. «Basta» gemette, come se fino ad allora lo avesse bastonato senza pietà. «Basta, ti prego!» Lo strinse più che poté, come se facendolo avrebbe impedito ai suoi restanti ricordi, a lui, a tutto ciò che Alex era e che in lui amava di scivolare via dalla sua presa, dal futuro che sempre più stava sbiadendo all'orizzonte. Un futuro nel quale, con orrore, vedeva Alex man mano scomparire accanto a lui, come se mai ci fosse stato.
Un dolore come quello che stava provando non l'aveva mai sentito. Mai. Neppure quando aveva scoperto dello scherzo, neanche quando aveva visto Alex fuggire e lasciarlo tra le grinfie di Arwin; neanche quando quel bastardo gli aveva detto che Alex si era sposato, che aveva avuto un figlio, che sembrava felice senza di lui e averlo dimenticato. Non era stato così male nemmeno quando aveva ritrovato il senno e compreso di essere diventato uno sporco assassino. Neppure nel momento in cui Dario era entrato nella sua cella e gli aveva detto che Alex era morto il suo cuore aveva subito un colpo così intollerabile. Niente sarebbe stato mai paragonabile allo strazio di quegli attimi, quelli che stava vivendo e odiando con tutto se stesso.
«Anche tu meriti ogni cosa! Mi senti?» singhiozzò, quasi con rabbia. «Anche tu, dannazione! Anche tu!» Si scostò, ma solo per baciarlo. Nelle fiabe di solito funzionava, risvegliava persino dalla morte e infrangeva i sortilegi. Magari, baciandolo, gli avrebbe restituito la memoria, la gioia di vivere e dello stare assieme, fianco a fianco. Gli avrebbe ricordato che non si poteva amare il prossimo senza prima amare se stessi. Gli avrebbe ricordato che erano l'uno la sola speranza per l'altro. Che lui, senza il suo amato Alex, il suo dolce e malinconico Alex, era niente, peggio che morto, e perduto.
Riportalo indietro! Riportalo da me, ordinò angosciato a quel bacio.
«Torna da me» gemette, la voce rotta dal pianto. Una gran voglia di urlare lo consumava. Di nuovo lo guardò negli occhi e poi, alla fine, crollò in ginocchio, davanti a lui, senza lasciargli andare le mani. Erano così fredde, magre, quasi scheletriche. Sembravano le dita della morte in persona. «Non mi importa di Grober! Non mi importa di niente! Torniamo a casa, Alex! Io e te! Torniamo a casa e andiamocene lontano! Se verremo chiamati traditori, allora così sia! Sono stato chiamato mostro e sono riuscito a sopportarlo! Sopporterò tanto altro, lo farò se tu sarai con me! Ricominciamo una vita altrove! Prendiamoci quel... quell'appartamento di cui parlavamo tanti anni fa! I-Io te lo giuro... ti giuro che ti permetterò di arredarlo come vorrai! Non baderemo a spese! Lo renderemo il nostro piccolo regno, il nostro rifugio!» Cercò di sorridergli, anche se era convinto di star versando tutte le lacrime dell'eternità che cercava di immaginare al fianco dell'uomo che amava alla follia. «T-Tu dicevi di... di immaginare un balcone con delle rose! Il loro profumo... tanto intenso da dare alla testa! Dicevi di voler stare con me in quel piccolo paradiso! Io ora te lo sto offrendo di nuovo, Alex! Prendimi la mano e lascia che ti salvi! Dimmi di sì! Di' di sì al paradiso e a me, ti prego! Che il mondo finisca pure! Vorrà dire che lo guarderemo tramontare insieme! Io e te!»
Gli bastava una sola parola, un suo cenno, e avrebbe lottato fino all'ultimo per rendere reale tutto quello che aveva detto. Gli bastava solo che lui gli dicesse di sì. Un semplice sì e sarebbero stati dei reietti, certo, ma liberi. Liberi e vivi.
Eppure... eppure la sua speranza svanì del tutto quando osò incrociare lo sguardo pieno di lacrime di Alex. Il loro stesso futuro scomparì quando nei suoi occhi non vide la speranza. Si era spenta per sempre. Alex aveva già detto addio a quell'avvenire, a tutti i loro sogni, ai loro progetti.
Non si erano neppure resi conto che la nave oscillava di meno, che la pioggia si era placata, che la burrasca era sfumata nel nulla, come se mai ci fosse stata.
Alex si inginocchiò e gli sfiorò le guance. «Facciamo finta che tu non sia mai stato preso in ostaggio da Arwin. Fingiamo che io sia ancora in quel letto, la mia vita appesa a un sottile filo, tu sull'uscio della porta, a vegliare su di me, a pregare che per me ci sia ancora una speranza. Torniamo a quel momento, Andrew. Resta al mio capezzale, stringimi la mano, più forte che puoi, e ricordami che al mondo c'è ancora qualcuno che mi ama, qualcuno che non mi ha dimenticato. Ricordami che non sono solo davanti alla fine. Sii il mio angelo, come sempre sei stato. Accompagnami all'inferno, Andrew, e poi lasciami lì, davanti a quelle nere porte. I tormenti e la dannazione saranno come neve fresca sulla mia pelle, se li affronterò col dolce ricordo dei tuoi occhi. Non oso chiederti niente più di questo. Restami vicino fino all'ultimo istante e poi, ogni tanto, ricordami. Ricorda com'ero, chi sono stato, chi sarei potuto essere ancora. Non lasciare che quel ricordo svanisca, ogni tanto torna a rispolverarlo. Se lo farai, io non me ne sarò mai andato del tutto. Ogni tanto, se ti guarderai intorno, troverai sempre delle piccole parti di me, ti sentirai meno solo.»
Abbandonò la fronte contro la sua, contro quella di un Andrew rassegnato e pieno di dolore, colto da un orribile presentimento, dal sentore di una fatalità che uno di loro non sarebbe riuscito a schivare.
«Questo è il mio calvario, Andrew, e ti chiedo solo di accompagnarmi nella salita. Sii il mio Simone, il mio Giovanni. Sii forte come lo fu Pietro. Un giorno capirai, un giorno ti renderai conto che non c'era un'altra strada e che tu sei la causa per cui ho lottato fino alla fine.» Fu lui a stringerlo, ad abbracciarlo con dolcezza, a cercare di tranquillizzarlo mentre piangeva e iniziava a capire, a realizzare l'esito del loro viaggio e ad accettare che ormai non si poteva tornare indietro, che bisognava andare avanti, anche se ad attenderli c'era un mostro con le fauci spalancate, un mostro che reclamava sangue e che forse sarebbe stato dissetato.
«Amami e basta, come nessuno ha mai fatto prima» disse, ripetendo di nuovo quello che una volta era stato Andrew a dirgli nel corridoio della loro scuola, dove tutto era iniziato. Erano state quelle parole a suggellare il destino di entrambi. «Amami, Andrew» aggiunse, serrando le palpebre per arginare il pianto di nuovo alle porte. «Fallo, ora che lo merito di meno. Amami più di quanto tu abbia mai fatto.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top