Capitolo XII. Le Origini del Male


Musica consigliata: ‟Nature's Altar (The Earths Witch)" di Peter Gundry.

https://youtu.be/3mhivbJhgZI

La luce di Vesmanir era da un pezzo svanita dalla volta azzurra che regnava su tutte le terre, quando Tredar finalmente — dopo tanto peregrinare — riuscì a trovare il coraggio di varcare l'ingresso della caverna dove più di una creatura vivente gli aveva detto essersi rifugiato suo fratello.

Quale ripida e indegna discesa era stata quella di Grober dallo splendore e dagli agi delle Mille Albe!

Rimase per un attimo in ascolto di qualcosa che al suo divino udito parve somigliare molto a un singhiozzo.

Con la scintilla che nel petto tremolava di angoscia, di sensi di colpa e amarezza, batté una sola volta l'estremità dello scettro sul terreno roccioso e grullo, spingendo la sfera di luce sulla sua sommità a rifulgere con più intensità, così da annullare quasi completamente quelle tenebre opprimenti.

Fu solo allora che finalmente, dopo tanto tempo, poté rivedere il fratello esiliato: lo scorse a terra, in un cupo angolo della grotta, con la nera e lunga veste macchiata di una sostanza trasparente e luminescente. Si trattava di sangue, sangue divino, tale e quale a quello di tutti gli dèi.

Sulle ginocchia di Grober, che non aveva ancora sollevato lo sguardo, giaceva placidamente assopita una creatura ripugnante e dalle dimensioni di un infante: un corpo rugoso, pallido e avvizzito; una naturale gobba sulla colonna dotata di una cresta ossea che fuoriusciva dalla pelle; un cranio lungo nel quale non v'erano occhi, ma nere fessure in quell'attimo serrate; la bocca era oscenamente grande, già provvista di tanti, minuscoli e acuminati denti; minuscole e nodose dita terminavano in artigli e davano il tocco finale a quell'essere empio e anormale.

Dunque l'abominio era ancora in vita.

Se fosse stata una mia creatura, l'avrei uccisa dopo la nascita e lo avrei fatto solo per pietà. Quale possibilità potrà mai avere un'empietà del genere, fuori da questo antro?

Gli era davvero difficile realizzare che quella cosa era pur sempre sua nipote, la figlia di suo fratello.

Si fece coraggio e si avvicinò. C'era nell'aria un odore strano che non gli piaceva per niente, un odore che permeava tutta la caverna.

«Fratello» esalò, «sono Tredar».

Trasferì il peso del corpo maggiormente sul lungo e rifulgente scettro nel quale custodiva, ogni notte, la luce del padre Vesmanir che poi di nuovo lasciava libera di tornare a splendere nel cielo, più brillante che mai.

Quello era il suo compito, dopo che il Padre degli Dèi aveva scelto di ritirarsi. Il ruolo che, in realtà, sarebbe dovuto essere del dio decaduto che in quel momento era ai suoi piedi, come un avversario sconfitto che aveva gettato le armi.

Come ho potuto farti una cosa del genere? Cosa mi ha spinto a farti del male fino a tal punto?

Qualcosa di orribile era accaduto alla Fonte, proprio nelle profondità del Monte Arnak; qualcosa in lui, per un fatale attimo, aveva abbracciato la follia, la gelosia, l'odio e la voglia di avere tutto quanto solo per sé, portandolo ad estinguere la Scintilla di Grober in quelle torbide e malvagie acque.

Tredar si era rivelato il più indegno di tutti, eppure era lui ad aver alla fine ottenuto lo scettro di suo padre, il potere incontrastato su tutte le creature, sul mondo intero che tutti assieme avevano chiamato Sverthian in onore del Creatore Primordiale, il Padre Supremo Sverthos che dal nulla aveva ricavato ogni cosa che tutti loro potevano ammirare nel presente.

Era indegno e non perché cominciava a sentirsi inadatto, ma perché dentro di sé celava un orrendo segreto rimasto sepolto fino ad allora, un segreto del quale Grober era all'oscuro. Quando era tornato, dopo che tutti lo avevano dato per disperso, aveva ammesso di non ricordare più niente, se non di esser riemerso con estrema fatica dalla Fonte e di aver per giorni e giorni vagato in preda allo smarrimento e a una sofferenza mai provata in precedenza.

Quando si era presentato, nessuno lo aveva riconosciuto, neppure Tredar: i suoi capelli splendenti e dello stesso colore della luce di Vesmanir erano spariti, al loro posto una chioma simile alle nere acque della Fonte; negli occhi dove prima v'era il colore della luce di Veras che splendeva al calare della notte, avevano visto il buio e al centro di esso solo una corona di luce dorata.

Grober era diventato qualcos'altro, era come se il veleno di quelle acque fosse penetrato dentro di lui, fino a estinguere la scintilla nel suo petto e rimpiazzarla con tutt'altro.

Grober aveva detto una cosa, a un certo punto: «Sono dentro di me. Le Tenebre sono dentro di me e le sento tutt'ora qui, nella mia testa. Dicono che prima o poi vi prenderanno tutti. Prima o poi la fine calerà su ogni cosa».

La fine...

Nessuno di loro, fino ad allora, aveva mai conosciuto il reale significato di tale concetto, almeno finché non avevano imparato a dargli un nome vero e proprio, come a personificarlo. Quel nome era Rasya: l'antitesi del principio e dell'eternità che solo fino a tempo addietro mai era esistita, era giunta purtroppo fra di loro, aveva stretto Grober fra le proprie spire e permesso alle Tenebre Primordiali di trovare finalmente qualcosa cui aggrapparsi e in cui proliferare.

La sua prima vittima della fine, della morte, oltre a molte creature innocenti, era stata la loro amata e ormai perduta Larysia, custode della pioggia che recava con sé la vita, pioggia che ormai era rimasta orfana e abbandonata a se stessa, senza più nessuno a governarla.

La povera Larysia si era unita come tante altre volte al proprio sposo, ma insieme avevano per disgrazia generato qualcosa ben lontano dall'essere una creatura divina.

«Non avremmo dovuto cacciarti. Non è colpa tua se lei è nata così» continuò angosciato Tredar, accennando a Gylea. «È successo e basta. Avremmo dovuto offrirti riparo, anziché spingerti all'esilio e alla vergogna.»

L'odore persistente nella caverna cominciava a infastidirlo parecchio, così tanto che poco dopo ne chiese la causa. «Da dove giunge questo olezzo?»

Grober, il quale fino ad allora era rimasto in silenzio, sollevò una mano pallida ed evanescente e con il magro ed emaciato indice accennò a qualcosa sulla parte opposta della grotta.

Tredar allora si voltò e non appena comprese cosa c'era a terra, di chi erano quei resti smembrati e maciullati, fu sul punto di stare male.

«Ma cosa... cosa è successo?» chiese, a un passo dalle lacrime.

Grober sembrava galleggiare in un torpore dove le emozioni e i sentimenti si annullavano, in un luogo della sua mente nel quale c'era solo assordante silenzio, il vuoto assoluto.

Prosciugato, ecco come appariva e forse si sentiva.

«Non ho potuto fermarla. Quando sono tornato loro se n'erano già andati.» I suoi occhi simili a due voragini nere e lucide, con la sola eccezione di quei minuscoli cerchi dorati a coronare le pupille, si trasferirono su Gylea. «Per un attimo ho provato il bruciante desiderio di ucciderla per ciò che aveva fatto ai suoi fratelli, ma poi ho capito che la colpa non era sua, bensì soltanto mia. Sarei dovuto andarmene senza portare con me i miei adorati bambini. Li ho uccisi io, come ho ucciso Larysia.»

I sensi di colpa arsero come non mai in Tredar, il quale a sentir tali parole si inginocchiò e lo scosse per le spalle nel tentativo di farlo tornare in sé.

«No, no, non dire questo!»

Restava suo fratello minore, fuori poteva esser cambiato, ma dentro era sempre Grober. Persino in un momento come quello non cessava di pensare agli altri, al male che poteva aver arrecato al prossimo.

Oh, fratellino... se solo potessi capire, sapere quanto mi sento ignobile!

Non lo aveva fatto apposta, però. Mai avrebbe fatto in maniera consapevole quello che purtroppo aveva fatto la sera in cui si erano recati alla Fonte col preciso scopo di studiarla e carpirne i segreti quanto bastava a poter trovare la maniera di distruggerla.

Come avrebbe potuto sapere che le esalazioni venefiche scaturite da essa lo avrebbero infine portato ad ascoltare una voce che prima di allora mai aveva avuto modo di sentire? Come avrebbe potuto resistere alla gelosia, alla brama, quando prima di quell'attimo mai aveva avuto modo di provare sentimenti del genere?

Era stato assalito, soverchiato. Aveva agito spinto da una volontà più grande della propria. Quel momento lo tormentava sempre, lo rivedeva continuamente: lui che si avvicinava alle spalle del fratello e sempre lui che, un istante dopo, gli assestava un violento spintone e lo faceva cadere nelle acque nere della Fonte.

Aveva in qualche modo messo fine all'esistenza di Grober, fatto in modo che restasse sepolto nella Fonte. Negli istanti successivi, con una rabbia scaturita dal niente, aveva impedito ripetutamente al fratello minore di risalire in superficie, lo aveva fatto finché non aveva smesso di agitarsi, solo per convivere per giorni e giorni con i sensi di colpa, la realizzazione di aver commesso un atto atroce e irreparabile, nonché imperdonabile e vile. La Fonte gli aveva suggerito di farlo e lui, in quell'attimo di folle cecità, obbedito a ogni singolo ordine e forse permesso in tal modo al male contenuto in ogni singola goccia di appropriarsi di Grober e renderlo una Fonte secondaria e gemella.

Da qualche tempo gli Sverthiani, gli esseri divenuti ormai completamente mortali e soggetti alla fine, avevano formulato un nuovo vocabolo atto a rappresentare l'azione che aveva commesso Tredar stesso: rasy'lren, assassinio.

Mai avrebbe sperato di rivedere alla fine Grober, di vederlo tornare a Palazzo Alba, nella casa del loro amato padre. Lo avevano visto tutti arrivare, senza riconoscerlo, chiedendosi chi o cosa fosse quella creatura dal passo malfermo e la veste di un così tetro colore, una tonalità che nessuno di loro aveva avuto il coraggio di indossare e che invece Grober pareva aver adottato in modo perpetuo, quasi a simboleggiare la diversità ormai abissale che lo separava da tutti loro.

Il nero, infatti, simboleggiava il niente, l'annullamento di tutto, il vuoto primordiale nel quale non v'era nulla e le tenebre regnavano sovrane.

Grober aveva dato l'impressione di esser riuscito a tornare per puro miracolo, perché qualcosa aveva stabilito che lo facesse e non appena gli altri gli avevano domandato cosa fosse successo, non aveva saputo dare una spiegazione. Aveva perso la memoria di quegli ultimi, fatali istanti; appena Tredar gli si era avvicinato, Grober aveva pianto per il sollievo, rincuorato nel vederlo stare bene. Lo aveva abbracciato, stretto a sé il traditore fra i traditori, colui che aveva spergiurato di amarlo e di proteggerlo da tutto e, alla fine, lo aveva spinto tra le braccia del male che avrebbero dovuto sconfiggere assieme. Tredar mai si era sentito più miserabile e indegno di affetto.

Le cose, poi, erano collassate, culminando con la fine di Larysia e l'esilio forzato di Grober, del fratello per il quale non v'era più posto tra di loro, perché diverso, forse corrotto e andato ormai perduto per sempre. L'ennesima cosa che quei tristi eventi avevano imparato a ognuno di loro: non v'era un vero posto per i diversi a Palazzo Alba.

Nessuno in Grober aveva percepito più la presenza della Scintilla dentro di lui, era sparita e questo aveva messo in allarme i presenti e fatto emergere il loro lato peggiore; la decisione era stata irremovibile e quasi unanime alla vista di Gylea, il mostro generato dalla perduta Larysia.

Sono responsabile della tua miseria, fratello, eppure questo ti sfugge ancora. Forse si sbagliano, forse in te è rimasta molta più luce di quanto si pensi.

Grober lo guardò finalmente negli occhi, i suoi così differenti da prima, tutto fuorché luminosi e ardenti di vita e calore.

«Metti fine alle sofferenze di tutti e due. Te lo chiedo per spirito di carità, da fratello a fratello. Niente di buono può ormai provenire da me, o da questa creatura. Non resta altro da fare, questo incontro è stato voluto forse da Sverthos stesso. Se è questa la sua volontà, sono ben felice di abbracciarla.»

Non stava scherzando né esagerando, desiderava sul serio quel che aveva detto. Voleva che Tredar completasse il lavoro rimasto incompiuto quella sera e lo voleva, in primo luogo, perché sapeva che in tale maniera parte del male e dell'oscurità sarebbe stata annientata per sempre.

«Sono il primo a essere ormai ridotto a un abominio, Tredar. Non sarei mai dovuto tornare, mai sarei dovuto riemergere dalla Fonte. Devi farlo, o le tenebre dilagheranno e saranno impossibili da fermare. Fallo finché sei in tempo, finché sono ancora me stesso, altrimenti finirò per smarrirmi e perdere la ragione. Potrei compiere azioni delle quali potrei non pentirmi. Se almeno in te sono rimasti un po' di affetto e di rispetto per me, eliminami e fallo senza indugiare.»

Grober gli stava chiedendo di porre fine alla sua esistenza divenuta ormai uno strazio, una condanna tra l'altro immeritata. Le cose mai sarebbero dovute andare in quel modo, ma era successo e non si poteva tornare indietro, né cancellare quel che era stato.

Tredar diede inizialmente l'idea di voler acconsentire alla richiesta del fratello: estrasse la spada, talmente lucente che il minore — adattatosi ormai alle ombre — fu costretto a coprirsi il viso per non restare accecato. Le armi degli dei erano tutte a quel modo: splendevano fino al punto da sembrare fatte di pura luce e, fra i tanti pregi, possedevano una volontà propria che rispondeva unicamente a quella del loro legittimo possessore. Assurdo pensare che fino a tempo addietro anche il fratello minore di Tredar ne avesse posseduta una tale e quale, benché con reticenza avesse accettato tale dono fattogli dal padre.

L'erede di Vesmanir sollevò la spada, la tenne sospesa a pochi centimetri dal capo di Grober, ormai soprannominato il Maledetto; le sue mani tremavano, per la prima volta in vita sua era restio a far uso dell'impetuosa violenza con cui in passato era stato capace spesso di riportare l'ordine e la pace.

«Non credo di riuscirci» gemette, la voce soffocata dalla straziante tensione di quel momento. «Grober, c'è una cosa che devi sapere. Avrei dovuto dirtelo sin dall'inizio, fin da quando sei tornato fra di noi.»

L'altro non lo stava ascoltando, però. Stringeva a sé la sventurata figlioletta, pronto a ricevere il colpo letale. «Non pensarci, Tredar. Fallo e basta. Niente è più importante dei tuoi doveri, adesso» lo implorò.

Il maggiore, tuttavia, strinse con forza l'elsa della spada e senza preavviso ne conficcò la lama nella roccia; tutto attorno a loro, sopra e sotto di loro, di colpo cominciò a tremare con violenza, le crepe attorno alla spada lasciavano filtrare la sua luce abbagliante.

Non appena il terremoto cominciò a placarsi, Tredar non osò guardare il fratello e disse: «È colpa mia se ora sei ciò che sei. Sono stato io a renderti così. Non sei caduto nella Fonte per un semplice incidente».

Grober riaprì gli occhi e rimase immobile, fissando il vuoto. Nei suoi occhi v'era sconcerto, così come la confusione.

«Quando siamo giunti lì, abbiamo inalato entrambi le malvagie esalazioni di quell'orribile posto e la mia mente è stata assalita da mille pensieri. Ho ripensato a come nostro padre aveva annunciato a tutti e due che saresti stato tu il suo erede e in quel momento è stato come se avessi perso la ragione. Qualcosa che mai avevo provato è esploso dentro di me: rabbia, gelosia... odio. Ho ancora impresso nella memoria l'attimo in cui ti sei voltato per dirmi che dovevamo restare vicini e far attenzione. Come sempre riponevi una sconfinata e cieca fiducia in me.»

Le guance di Tredar si bagnarono di lacrime lucenti e sincere, esprimevano tutto il pentimento e tutto il dolore.

«Prima di poter rendermi conto delle mie azioni, ti avevo già spinto nella Fonte. Prima, però, hai lottato, hai cercato di farmi rinsavire, eri terrorizzato e non riuscivi a capire perché mi stavo comportando in quella maniera. Ti ho dato un pugno, hai perso l'equilibrio e sei precipitato nell'acqua nera. Ti ho visto poi riemergere e cercare di nuotare a riva, ma io ti ho afferrato una spalla e il capo e ti ho costretto a tornare sotto. Hai continuato ad agitarti e a lottare per un po', poi... poi hai smesso di muoverti, ti ho lasciato andare e il tuo corpo è affondato, risucchiato da quella disgustosa Fonte. Inizialmente ho cercato di aspettare, ma quando ho capito di aver in qualche maniera estinto per sempre la tua Scintilla, sono... sono scappato.»

Crollò in ginocchio, si chinò fino a sfiorare la roccia con la fronte. L'atto di contrizione massimo. «Perdonami, fratello» singhiozzò. «Mi dispiace così tanto! Perdonami!»

Pianse di più quando percepì le dita di Grober, un tempo calde come la luce di Vesmanir e ormai gelide come tutto ciò che quei raggi non riuscivano a raggiungere, posarsi sui suoi capelli e sulla spalla.

Una carezza, poi esse scivolarono sotto il suo mento e fecero sollevare il suo capo, così che potessero guardarsi.

Tredar venne attraversato da una scossa di orrore non appena vide che gli occhi di suo fratello erano di nuovo cambiati: completamente neri, fatta eccezione per le iridi che erano di un oro fin troppo acceso e pulsante, le pupille sottili e verticali. La corona di luce dorata era sparita e al centro di quei sinistri e luminosi occhi fiammeggianti v'erano quelle piccole fessure che non promettevano niente di buono. Due minuscole e affilate porte che forse conducevano al vuoto più oscuro e opprimente.

Era come se avesse appena innescato qualcosa tutto fuorché positivo. Fino a minuti addietro aveva continuato a percepire lo stesso uno spiraglio di luce provenire da Grober, ma ormai la sola cosa che riusciva a sentire era soltanto la medesima Oscurità già avvertita alla Fonte.

La battaglia che si era fino a poco fa protratta dentro Grober era stata alla fine persa dai pochi squarci di benevolenza rimasti.

Tenebre, solo e soltanto Tenebre.

Quegli occhi erano spiragli dentro i quali si poteva avere un assaggio del più profondo e nero abisso. In essi non v'era perdono, né misericordia. Grober era definitivamente morto, se n'era andato per sempre e forse le Ombre avevano appena trovato il giusto mezzo attraverso il quale operare e scatenarsi sul serio. Suo fratello le aveva combattute fino a pochi attimi addietro, cercato di respingerle e nel farlo sofferto senza tregua, ma persino un dio aveva una soglia massima di dolore e Grober doveva averla superata.

Gylea si era ridestata, nel frattempo, e le minuscole e rotonde fessure che aveva al posto degli occhi erano piantate addosso al padre. Sembrava incuriosita, qualcosa aveva attirato la sua attenzione. Che avesse percepito a sua volta il cambiamento, il risveglio delle Tenebre dalle quali era in fin dei conti stata originata?

«Tuo padre ora ha degli affari da sbrigare, bambina» disse Grober, il tono dolce e paterno che stonava con il suo aspetto decisamente più inquietante, almeno rispetto a prima.

Si rimise in piedi e Tredar fece lo stesso, per poi arretrare. Scorse delle fiamme nere sorgere dalle mani pallide e contratte di suo fratello. Fiamme che non emettevano né luce né calore, ma in egual modo sapevano essere distruttive e, in un certo senso, parevano quasi risucchiare il bagliore che lo scettro del fratello spandeva.

L'erede di Vesmanir percepiva la sua ira, una silenziosa ed opprimente esplosione di energia negativa dava l'idea di aver assorbito e concentrato in un solo attimo tutte le tenebre che si celavano negli angoli della caverna, richiamandole e unendole in un unico e spaventoso nucleo di devastazione e rabbia.

Sul pavimento le crepe si moltiplicavano e da esse fuoriuscivano fiamme simili a quelle evocate da Grober, grandi lingue di fuoco nero che lambivano il soffitto e parevano intenzionate a fare lo stesso con colui che da gradito ospite era diventato di colpo un detestabile intruso.

Sulle pareti dell'antro, invece, una fitta, rossa e incandescente ragnatela si espandeva. Da essa Tredar sentiva propagarsi pura corruzione, mentre sembrava serrare in una soffocante morsa tutto l'ambiente, come a voler sgretolare ogni oncia della caverna. Seguirono presto delle profonde e fumanti crepe, attraverso di esse sgorgarono altre fiamme oscure.

Estrasse di corsa la spada, un secondo prima che rischiasse di sparire nelle voragini formatesi qui e là, in quel pavimento di roccia che stava iniziando a deformarsi e spaccarsi. Persino Tredar, di fronte a una forza così violenta, inarrestabile e distruttrice, scoprì di non poter fare altro se non tremare.

«Fratello, ti prego... abbiamo sempre parlato, facciamolo anche stavolta» cercò di appellarsi alla ragione di Grober, ma lui era ormai cieco e sordo a qualsiasi prospettiva di pace o tregua.

Bramava solo la distruzione, il suo annientamento.

Le fiamme sulle mani del minore saettarono con maggiore irruenza, aumentarono di dimensione. Attorno a lui la carica negativa crebbe a dismisura.

«Lo sai, fratello?» sibilò Grober. «Avresti dovuto terminare il lavoro che avevi cominciato, invece di sigillare la tua condanna!» Con tale rabbioso ruggito scagliò in direzione di Tredar una violenta e nera massa di fiamme ed esse emisero un ruggente boato.

L'altro fratello evocò una barriera di luce che respinse l'attacco. «GROBER, TI SCONGIURO!» sbottò. «LORO NON VORREBBERO VEDERCI LITIGARE!» Si riferiva ai loro amati genitori, soprattutto alla madre che avrebbe sofferto nel sapere che erano giunti a quel punto di rottura, la stessa madre che aveva pianto di gioia e poi di dolore nel vedere il suo figlio prediletto così cambiato, corrotto dalla Fonte.

Il minore fendette l'aria col braccio e Tredar si ritrovò in pochi istanti circondato da un cerchio di fuoco oscuro che gli impediva la fuga.

«Come osi parlare di nostro padre e nostra madre?» ringhiò Grober, la voce spezzata come se stesse piangendo, ma le sue guance erano asciutte. «Tu che li hai feriti per primo! Neanche a loro hai avuto il coraggio di confessare quello che hai fatto a me!»

Le fiamme oscure, anziché bruciare tutto ciò che toccavano, sembravano invece risucchiarlo e convertirlo in altro fuoco, alimentarsi di quello che riuscivano a lambire. Non s'era mai visto nulla di simile, ma d'altro canto l'Oscurità agiva proprio in quel modo: fagocitava tutto e si lasciava dietro solo vuoto, desolazione e distruzione.

Grober, ormai, era diventato il suo supremo strumento, il suo portatore, forse ne era addirittura il padre incontrastato.

Tredar di nuovo cercò di far uso dello scettro, ma come cercò di scacciare le fiamme con la luce di Vesmanir, essa venne attratta e inghiottita dal fuoco nero, come avrebbe fatto un orribile gorgo degli abissi con una minuscola e insignificante pietra.

A quanto pareva, non v'era nulla che potesse contrastare le Tenebre, neppure la Luce.

Sulle labbra incolori di Grober, il Signore di Palazzo Alba intravide un sorriso inopportuno, lieve e poco rassicurante.

«Non lo sai, fratello?» disse, avvicinandosi. «Le tenebre più profonde le si trovano persino nella luce più abbagliante. Non v'è luogo immerso in essa in cui le ombre non possano infiltrarsi.»
A quelle parole seguì un secco movimento del suo braccio e Tredar venne sollevato da una forza violenta e invisibile e sbattuto contro il soffitto della caverna.

Ricadde poco dopo nel cerchio, le vesti logore dopo un impatto di tale portata.

«Sei patetico» commentò gelido Grober, osservandolo mentre cercava di rialzarsi e intanto spremeva l'intelletto alla ricerca di una soluzione. «Non perdere tempo a ragionare. Contro di me non hai valide armi.»

Assalito dall'ira, dimentico del dolore e della tragedia in corso, l'erede di Vesmanir scagliò la spada verso il fratello, attraverso le fiamme, ma il minore la intercettò e afferrò in tempo la lama un secondo prima che essa potesse colpire.

La furia nei suoi occhi neri ribollì più che mai, ma il sorrisetto sulle sue labbra invece rimase dov'era. Nonostante la nera linfa che gocciolava su ciò che restava del terreno roccioso dalla mano serrata sulla spada, sorrideva ugualmente, anche se quel contatto stava facendo quasi fumigare la pelle di Grober.

«Di nuovo mi sottovaluti. Solo perché non ho mai fatto uso di armi, non significa che io non sappia lottare o difendermi. Alla Fonte mi hai solo colto impreparato, ma in uno scontro leale ti avrei ricordato perché ero stato scelto io da nostro padre come suo successore.»

«E cosa direbbe, ora, nostro padre? Cosa direbbe vedendo ciò che sei diventato?» ringhiò Tredar. «Non è facendo così che risolverai tutto! Non è così che allevierai la tua sofferenza!»

«Il dolore, per me, è ormai un semplice punto di vista. Un male che si è rivelato necessario. Devo ringraziarti, in realtà: ero cieco e finalmente, adesso, riesco a vedere con chiarezza tutto quanto. Non sono io a essere marcio, ma tu e il resto dei nostri ipocriti fratelli. Ti guardo e vedo solo un minuscolo e patetico essere che trema di fronte a ciò che non può controllare né annientare.»

La lama della spada di Tredar, nel frattempo, perse tutta la luce e iniziò a diventare scura, sempre di più, fino a cedere il posto a un nero lucido e uniforme.

Le dita di Grober, le sue unghie scure come il suo manto e i suoi capelli, nel serrarsi di più graffiarono la superficie dell'arma ed essa, con uno stridio acuto, si infranse a metà. Ciò che rimase cadde a terra, inutilizzabile.

«Ti prometto» sibilò Grober, «che quanto accaduto a questa misera lama, molto presto succederà anche a tutto quello che le Tenebre riusciranno a inghiottire. Non vi sarà più spazio per voi delle Mille Albe, nessuno luogo nel quale rifugiarvi. Sverthian conoscerà il dolore, come l'ho conosciuto io, e solo a quel punto l'uguaglianza potrà essere ristabilita. Col tempo anche voi capirete che la sofferenza non è sempre un male, ma aiuta ad aprire gli occhi e a comprendere cose che fino ad ora avete ignorato senza riguardo.»

«Grober, no... ti prego, non farlo!» urlò Tredar. «Avresti il coraggio di distruggere tutto quello che anche tu hai contribuito a creare?»

«Io non voglio distruggere niente» puntualizzò l'altro, serio. «Parti dal presupposto che nelle tenebre e nella sofferenza nulla possa vivere, ma io sono la prova del contrario. Non credi?»

«E poi cosa accadrà? Sarai soddisfatto quando vedrai attorno a te creature prostrate che conoscono solo le lacrime e i patimenti?»

«Questo mondo ha bisogno del progresso. Non ce ne sarà alcuno, senza prima aver distrutto ciò che ormai è stantio e superato. Darò a tutti loro qualcosa per cui lottare davvero, ambizioni, un fuoco che alimenti la volontà collettiva e li spinga a rincorrere il domani e ciò che esso porta con sé. Impareranno ad amare di più ciò che proprio noi abbiamo donato a tutti loro; impareranno a lottare per ottenere risultati e gratificazioni, il valore del sacrificio, che niente si ottiene senza di esso. Tu, però, non puoi capire e mai potrai farlo. Vivi nel passato, come tutti gli altri. Vi siete crogiolati nel benessere, nella pigrizia e nella luce finché l'Oscurità non ha iniziato a toccare quello che per voi era importante e degno di considerazione. Ho commesso questo errore a mia volta, ma adesso ho nuove prospettive, ho voltato le spalle alla staticità che caratterizza voialtri.»

Grober levò le mani, poi le abbassò lentamente e con esse anche le fiamme nere si estinsero poco a poco. Alla fine rimase solo una caverna semi-distrutta.

«Ti permetto di continuare a esistere solo per guardare i miei successi e capire che, in fin dei conti, per la prima volta hai fatto qualcosa di realmente utile. Sverthian avrà finalmente qualcosa e qualcuno di cui varrà la pena stilare delle memorie. Quanto accadrà d'ora in avanti rimarrà scolpito nell'eternità.» Indicò con l'indice fuori dalla grotta. «Ammira, fratello, la tua opera!»

Quando Tredar, reticente, si convinse a guardare, corse all'uscita e crollò in ginocchio.

In quelle terre non v'era più niente, se non un terreno arido e immerso nelle tenebre, pochi alberi ritorti e morti che spuntavano dal brullo terreno e assenza totale di animali, di qualsiasi cosa.

Non c'era vita laggiù. Niente di niente.

«Che cosa hai fatto?» singhiozzò.

Che cosa ho fatto io?

Grober, tornato serio, roteò gli occhi e stufo marcio dei suoi piagnistei, della sua stessa presenza, si avvicinò e disse a bassa voce: «Quello che tu hai permesso che accadesse. Goditi la vista, nel precipitare».

Non gli diede il tempo di capire: con un secco calcio lo spinse giù dall'alta e arida montagna. Sapeva che in tal modo non lo avrebbe eliminato, lo aveva fatto solo per il gusto di vederlo precipitare come era successo a lui, seppur in maniera assai diversa.

Tuttavia... una caduta, era pur sempre una caduta. Giusto?

«E ora corri pure a piangere dagli altri. Io sarò qui ad attendervi.»

I suoi occhi si spostarono verso Gylea, la quale era al suo fianco e osservava incuriosita Tredar giacere ai piedi della montagna.

Le accarezzò dolcemente il capo privo di chioma e rugoso.

«Queste terre, adesso, saranno la nostra nuova casa. Nessuno ce la porterà via, te lo prometto. Siamo soli, bambina, da questo momento dovremo imparare a guardarci le spalle a vicenda.»

La sola figlia rimastagli poteva non essere gradevole alla vista, né tante altre cose, e aveva addirittura sottratto la vita ai propri fratelli, ai suoi adorati primogeniti, ma era tutto ciò che gli restava e in ogni caso non sarebbe mai riuscito a farle del male.

Non aveva colpe, era nata in quel modo e forse giunta a lui per una ragione che al momento ignorava, ma col tempo avrebbe magari compreso e accettato.

«Forse è stato meglio così per loro. Se ne sono andati col ricordo di un padre ancora degno di essere chiamato tale, e non di un mostro.»

Delle lacrime, scure e ben visibili, solcarono il suo viso magro e pallido. Nel cielo tetro e avvolto da fitte nubi, nel frattempo, tuoni risuonarono e fulmini accecanti schioccarono, influenzati dall'umore che Grober il Maledetto non necessitava più di celare.

La debolezza era un peccato nel quale mai più avrebbe osato indugiare. Mai più.

Non c'è più niente per me qui, né per mia figlia.

Forse era tempo di cambiare veramente aria, di andare avanti sul serio e, soprattutto, lontano dai suoi fratelli ipocriti, bugiardi e traditori.


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