Capitolo 8
Please kill me, I'm serious
Please kill me, I'm not singing, I'm asking
Locked in a cage with all the rats
I've slipped through the cracks
And now I'm stuck with the scraps and I can't seem to find my way back
Get me out, get me out of here (not kidding around)
I'm ready for stardom after all these years
-Little Girls, Cameron Diaz
Real love doesn't meet you at your best.
It meets you in your mess.
Djævel
«Sei serio?» Eros lo guardava confuso, mentre, nel salottino, Djævel armeggiava con una ventiquattrore.
Sfilò dal suo interno una serie di fogli e matite, poi aggrottò la fronte. «Perché no?»
Eros scoppiò a ridere. «Mi hai prenotato di nuovo per tutta la notte per disegnare? Quanti anni hai?»
Djævel corrugò la fronte. «Insegnarti le costellazioni mi pareva banale, considerando che siamo chiusi qui dentro. Tu sai disegnare?»
Eros arricciò il naso, indossando un'espressione buffa. «E quindi conosci le costellazioni?»
«Ma chi? Io? No.» Borbottò, armeggiando con la valigetta. «Però, se fosse stato necessario, cioè se volevi, avrei preso in prestito qualche tomo dalla Biblioteca e le avremmo imparate insieme.»
«Che cerchi di fare, per l'esattezza? Speravo che potessi insegnarmi più qualche tecnica di combattimento, in verità. Sai per difendermi.»
Djævel sospirò piano. «Quello lo faccio ogni giorno, però se preferisci-»
«Okay, va bene.» Eros alzò le mani in segno di resa, facendo un sorriso tenero, ma timido. Sembrava piuttosto disorientato. Soprattutto quando si era presentato con delle matite, passandogliene una, senza dire nulla. Djævel sapeva di non essere un campione nella comunicazione, tutt'altro. Ma aveva anche pensato che Eros potesse conoscere davvero così poche cose di se stesso, al di là del sesso, droga e alcol. All'Eden era importante fosse un bel faccino e nient'altro.
Voleva solo dargli una possibilità di conoscersi meglio. «Che ne sai? Magari sai disegnare bene-»
Eros si accomodò sul materasso, sedendosi a indiano. Inclinò il capo. Nel suo sguardo c'era un luccichio felice. «Okay, cosa disegniamo? Tu sai farlo?»
Djævel corrugò la fronte. Poi scosse il capo in maniera meccanica. «Ah, assolutamente no. Faccio schifo a disegnare.»
Eros scoppiò in una risata, cercando di soffocarla in qualche modo. Cadde di peso sul materasso. «E come credi di riuscire a insegnarmelo?»
«Non voglio insegnartelo. Possiamo fare qualcosa di diverso, che cazzo ne so. Immagina se scoprissi di avere un talento per il disegno.» Si strinse nelle spalle, sedendosi sul bordo del letto.
Eros si protese verso di lui. Il suo profumo alla vaniglia era sempre più vicino, addosso. Era intenso e inebriante. Si ritrovò a socchiudere gli occhi senza neanche rendersene conto.
«Sicuro di non volerne approfittare?» Eros gli sfiorò il collo con le labbra.
Djævel si spostò di scatto. Prese a sistemarsi nevroticamente il colletto della divisa. «Non devi lavorare con me. Non sono qui per questo.»
Eros si corrucciò. «Volevo solo dimostrarti di esserti grato-»
«E mi basterà un semplice e solito grazie.» Gli passò una matita e poi un foglio. «Oppure possiamo leggere un romanzo. Ne porto uno, leggiamo per qualche ora e poi andiamo avanti insieme la prossima volta che vengo.»
Eros sbuffò piano, sorridendo. Iniziò a tracciare qualche linea sul foglio, accovacciandosi su sé stesso.
«Perché non ti metti alla scrivania?» Djævel si espose verso il disegno.
Eros alzò lo sguardo di lui, facendo un mugolio d'assenso. Si tirò in piedi, strascicandosi, alla scrivania. Prima di riprendere a disegnare, gli lanciò un'occhiata. «Sai, di solito quando mi chiedono di mettermi alla scrivania è per ben altro... tutto questo è strano.»
«E non ti piace?»
«Anche troppo. Ho paura di abituarmici, Comandante. E ritornare alla realtà, poi, diventerebbe troppo doloroso.» Eros tornò a prestare attenzione al proprio foglio. Tamburellò con la matita sul tavolo, il ticchettio riempì d'improvviso la stanza.
Djævel lo guardò tenendo l'angolo della bocca increspato all'insù. Prima o poi l'avrebbe portato via da lì, in qualsiasi modo. Era una promessa silenziosa che faceva ad entrambi.
In quel momento di serena contemplazione, Djævel si ritrovò catturato dal profilo di Eros mentre si concentrava sul suo disegno. Ogni tanto tendeva a mordicchiarsi il labbro, in una smorfia di concentrazione. La luce soffusa illuminava delicatamente il suo volto, delineando gli zigomi con una grazia quasi eterea. Pensò che somigliasse più a un angelo, qualcosa che nessuno avrebbe dovuto toccare in quel modo. Gli occhi di Djævel si posarono su di lui con una certa devozione. Si sorprese di sé stesso, per essere ancora capace di provare sensazioni simili.
Si tirò in piedi, per avvicinarsi a lui a passi silenziosi. Nessuno in quel mondo l'aveva sentito o percepito mai, eppure Eros lo osservò con la coda dell'occhio per qualche istante, prima di tornare al proprio lavoro.
Il tratto deciso di Eros si muoveva con grazia sul foglio, catturando ogni dettaglio con una precisione quasi sorprendente. Djævel osservò il modo in cui la mano di Eros si muoveva con una sicurezza innata, trasformando le linee e le ombre in una forma di bellezza straordinaria. Trattenne il fiato. Era come un mondo inesplorato. Eros era una tela ancora non scritta che molti si erano divertiti a squarciare.
«Sapevi già disegnare?»
Eros si strinse nelle spalle. «Da bambino mi era sempre piaciuto, in realtà. Mi insegnò mia madre... poi ho smesso di farlo.»
Djævel si appoggiò allo stipite della porta. «Perché non me l'hai detto quando te l'ho proposto?»
«Perché volevo sorprenderti.» Eros sorrise appena. «Però mi son fatto prendere la mano.» Gli tese il foglio, col proprio ritratto abbozzato. Djævel storse il naso. In realtà non amava il proprio riflesso, lo evitava a ogni costo. Ma forse, visto con gli occhi di Eros non era poi così mostruoso.
«Mi sorprendi già ogni minuto che trascorriamo insieme. Non hai bisogno di forzarti a farlo.»
𖣔𖣔𖣔𖣔
Tornare a casa era sempre estenuante.
Quella notte girava una strana aria.
Djævel non avrebbe saputo spiegarlo, ma ebbe la sensazione che qualcosa non andasse. Si voltò a guardare alle proprie spalle.
Si strinse nella divisa, mantenendo un atteggiamento guardingo. Sentì qualcuno correre sui tetti. D'istinto, si nascose dietro un vicolo al buio, attendendo che i rumori fossero abbastanza lontani. Almeno per quella notte, non voleva rogne. Aveva già abbastanza problemi, non sentiva l'esigenza di aggiungerne altri con i ribellisti, ai quali bastava solo intravedere lo stemma di Sol per andare in escandescenza.
Prese un paio di grossi respiri. Faceva freddo e osservò le nuvolette d'aria condensarsi davanti a sé, come spire di fumo di un dragone.
Si affacciò lungo la strada e decise di riprendere il cammino fino a casa propria. Svoltò per alcuni angoli, passando per un quartiere che in molti evitavano, perché considerato infestato dai fantasmi dell'Incidente.
Sospirò piano, osservando la serie di Ville che si susseguivano una accanto all'altra, come tanti piccoli fiori appassiti in un campo una volta fertile.
Un senso di angoscia gli travolse tutto il corpo, quando si fermò a osservare la vecchia tenuta Storm. Era cresciuto tra quelle alte siepi. Quante corse aveva fatto ogni mattina lungo le scale insieme alle sue sorelle. Era stato male per anni, ma poi, dopo la morte di suo padre, erano tornati a splendere, come la miglior famiglia nobile che Sol potesse mai desiderare. Era la sua famiglia. Era compito suo proteggerli. Era colpa sua, sempre.
Insieme ad alcuni dei loro vicini, le loro famiglie, sua madre stessa, facevano parte del Consiglio. Varavano e discutevano delle decisioni dell'invisibile e impenetrabile Governo.
Se socchiudeva gli occhi, poteva ancora sentire le voci dei suoi amici e delle sue sorelle. Gridavano tutti felici, correndo nel fango, nonostante fosse proibito. Forse c'era stato davvero un tempo in cui era stato felice.
Dopo l'Incidente, tutta la famiglia Storm era morta, come conseguenza del siero dell'immortalità. A lui era stata risparmiata la vita, con la condanna della sterilità.
Se solo sua moglie avesse scoperto delle sue menzogne, del test falsificato, la sua intera carriera ne avrebbe risentito. Non poteva permettersi una cilecca con la Procreatrice. Lei era perennemente sotto controllo, il problema sarebbe risultato lui, lampante sotto gli occhi di tutti.
Doveva valutare tutte le possibilità per sopravvivere.
Dopo l'ultima occhiata malinconica a casa sua, fece ritorno a quella che condivideva con Lilian.
Spinse lentamente il portone in avanti. Salì silenzioso le scale, per non svegliare sua moglie, ma, quando entrò in camera, lei era lì, seduta alla finestra come sempre. A contemplare chissà cosa di quella città così splendente di giorno, ma altrettanto cupa e pericolosa di notte.
«Dove sei stato?»
«Ronda.»
«Non era il tuo turno, Djævel. Credi che sia una stupida, forse?» Lilian si voltò a guardarlo di scatto, posando gli occhi furenti su di lui.
Avrebbe voluto dirle tanto di sì. Lei e tutto il mondo che lo circondava non solo erano stupidi, ma anche così insopportabili da dargli l'orticaria e risvegliargli la voglia di ucciderli. Si limitò a un'espressione tranquilla. «Ciò che faccio non ti riguarda.» Si liberò della giacca della divisa, andando a posarla sulla sedia. Evitò di annusarla, ancora impregnata del profumo di Eros. Anche quella sera gliel'aveva prestata per coprirlo, nella speranza che capisse che non riusciva a vederlo come una semplice puttana di lusso, così come amava definirsi lui stesso.
«Non mi importa come vai a divertirti, né chi ti eccita. Ma è importante. Il Generale non fa che prendersi gioco di noi.» Lilian gli si piazzò davanti, le forme del suo corpo mal celate dal vestito semi trasparente di seta. Alla luce soffusa della stanza, forse un tempo gli sarebbe apparsa come la migliore delle visioni. Adesso doveva solo ingoiare quella rabbia, per non vomitare tutti i suoi istinti peggiori.
«Domani mattina incontrerò la tua Procreatrice. Voglio conoscerla. E ci parlerò da solo, però.» Si sbottonò la camicia. «Contenta?»
«Molto.» Lilian continuava a voler tenere su un'espressione dura, pur di nascondere -molto male- il sorrisetto che cercava disperatamente di incresparle le labbra. Si allontanò da lui, andando a sedersi sul bordo del letto. Gli afferrò il polso, costringendolo a seguirla. Si posizionò, in piedi, tra le sue gambe. Da lì avrebbe potuto spaccarle perfettamente il cranio.
«C'è dell'altro.»
Djævel storse il naso, passandosi una mano sul volto. «Ma non mi dire. Che c'è?»
«Schultz. Faceva allusioni al tuo frequentare l'Eden. E non mi importa. Ma, sai, se prima ancora di un figlio, lui...»
Djævel sapeva bene a cosa stesse alludendo. Fece un mezzo sorriso. Nella penombra apparve più come un ghigno, con la cicatrice che si contorceva su tutto il volto. Per una volta, le proposte di sua moglie non erano così inutili. Forse non era mai successo che fosse d'accordo con lei. «Ci sto lavorando.»
Si allontanò da lei, lasciandole la mano, e si spogliò. Si infilò sotto le coperte e fissò per alcuni lunghi istanti il soffitto.
«Perché?»
«Perché cosa, Lilian? Non so ancora leggere le menti. Quando succederà, ti terrò aggiornata.» Sbuffò, intrecciando le braccia dietro il capo.
Lei gli assestò una gomitata al fianco, facendolo sussultare, come quando erano ancora davvero amici e condividevano sogni e speranze. «Ti ho aspettato tutta una vita, Djævel. Perché non mi guardi come hai guardato quella puttana alla festa?»
Lui serrò la mandibola. Il desiderio di metterle le mani alla gola ritornò prepotente nella sua testa. Almeno Djævel non sfruttava ragazzi e ragazze innocenti, costringendoli a vendersi. Proprio Lilian avrebbe dovuto sapere cosa significasse per lui. «Dormi, è tardi.» Spense il lume sul comodino, girandosi su un fianco e voltandole le spalle, così come aveva fatto lei anni prima.
Aveva solo bisogno di riposare. Sentì Lilian sbuffare piano. Mugugnò qualcosa di incomprensibile, prima di voltarsi anche lei, dandogli le spalle allo stesso modo. Una volta le loro strade si sovrapponevano. Adesso erano a un bivio e si erano separate inevitabilmente. E Djævel credeva che non si sarebbero più incrociate in alcun modo. Mai più.
Il mattino seguente Djævel raggiunse l'Akademie a grandi falcate. Si sistemava smaniosamente il colletto della divisa, un po' pungente e fastidioso. Sbuffò nervoso, aggiustando i capelli lungo il tragitto.
Una volta arrivato nel salone principale, fu costretto a sbracciare nella folla. C'erano così tanti studenti accalcati lì, nei dintorni. Non capiva che diavolo fosse successo.
«Largo!»
«Comandante!» Ægon gli corse incontro. Era pallido e una goccia di sudore gli imperlava la fronte. Sospirò piano e provò ad abbracciarlo. Si bloccò appena sul posto, come a volersi dare una regolata.
«Ægon, che succede?»
Il ragazzo lo afferrò per il braccio. «Seguimi. Ho delle informazioni importanti da dirti. E poi ti devo mostrare una cosa.»
Djævel si strinse nelle spalle, scrollandosi di dosso il ragazzo. C'era qualcosa nell'aria, della tensione gli percorse la spina dorsale come una scarica elettrica, tipica di uno dei loro bastoni attrezzati. «Vuoi spiegarmi o no?»
Ægon aprì le porte dell'infermeria. Su uno dei lettini, Herica era sdraiata, con una flebo infilata nel braccio. Non appena incrociò il loro sguardo, si tirò a sedere. Si sistemò i capelli quasi in gesti meccanici. «Comandant-»
«Cos'è successo?» Djævel si avvicinò al lettino. Lei era una delle sue migliori studentesse. Solo dopo qualche istante fece caso al generale Schultz, seduto su una delle piccole sedie accostato alla brandina.
Ægon si passò una mano tra i capelli. «Ieri eravamo di ronda e abbiamo fermato un uomo in giro oltre l'orario del coprifuoco. Per evitare di farsi arrestare ci ha dato informazioni. Esiste qualcuno, il suo nome è Doom, lo chiamano così. Ci ha mostrato che il suo quadrante è stato manipolato.» il ragazzo agitava le mani, preso dalla foga di parlare, ogni tanto doveva prendersi una pausa per riprendere fiato. «E comunque, ci ha raccontato di uno strano giro. In pratica, quando uccidono qualcuno, ne rubano le vite vissute, accumulandole per sé.» Ægon continuava ad agitarsi.
Djævel aggrottò la fronte. Prese un grosso respiro. «Cosa diavolo state-»
«Già! E mentre ne stava parlando qualcuno gli ha sparato. In piena fronte. Così Ægon è corso nella direzione dello sparo, ma non ha trovato nessuno e al suo ritorno ero svenuta!» Il tono di voce di Herica raggiunse quasi gli ultrasuoni. «Non trovate la storia assurda? Sembra quasi un modo psicopatico di portare avanti il progetto del governo sull'immortalità!»
Il generale si tirò in piedi. «Sciocchezze! Questi sono i pazzi ribellisti che cercano solo di provocare altri problemi.» sbuffò annoiato. Poi si avvicinò a Djævel e gli fece cenno di seguirlo fuori. «Queste sono informazioni confidenziali. Non dovete parlarne con nessuno. Non ancora. Ci penseremo noi.»
Si allontanarono dall'infermeria, camminando fianco a fianco in silenzio. Djævel osservava il generale con la coda dell'occhio. Una volta raggiunto il cortile, si accostarono sotto alcune arcate, in disparte da voci indesiderate da parte degli studenti. «Tu lo sapevi già?»
«Sì. Me ne avevano parlato. Per questo attacchiamo all'improvviso alla ricerca dei ribellisti. Molti potrebbero nascondere dei quadranti falsati come quell'idiota che Ægon ed Herica hanno trovato ieri sera.»
Djævel serrò la mandibola, senza dire altro. «E dall'alto, ti hanno dato idee? Ipotesi? Sospetti?»
«Thanatos c'entra qualcosa.»
«Quel bastardo c'entra sempre qualcosa.» Djævel fece in modo da nascondere un sorrisetto: stava per seminare un'idea folle, che avrebbe portato Schultz a farsi molto male nel migliore dei casi. Nel peggiore avrebbero perso un'occasione. «Dobbiamo liberarcene.»
«E come?» Schultz sembrava pendere di colpo dalle sue labbra.
«Potremmo proporre a Thanatos un duello. Quel bastardo ama lo spettacolo. Non vedi come lascia sempre segnali melodrammatici? È una diva, ama il pubblico.» Djævel vide gli occhi del collega scintillare dalla curiosità. Doveva colpire il suo orgoglio da insopportabile megalomane. «Possiamo sfidarlo col migliore dei nostri uomini, in un'Arena davanti a tutti. Se rifiuterà, sembrerà un codardo agli occhi dei suoi fan. E se andasse bene, ce lo leveremmo dai coglioni.»
Il Generale gli assestò una pacca sulla spalla. «Mi piace come idea. E chi lo ucciderà, verrà notato da tutti. Farebbe un grande favore al Governo. Posso salire di grado, lasciare questo posto di merda, smettere di allenare questi stronzetti egocentrici. Sarò io ad ammazzare quello stronzo.»
Djævel annuì, silenzioso.
"O quello stronzo ammazzerà te."
☀️☀️☀️
Angolino
Come va? Spero che Sol stia continuando a intrattenervi.
Come andrà a finire?👀
Avete qualche teoria per ora? Sono curiosa di conoscerle.
Ricordatevi sempre della stellina 🥹 ⭐️
E non fatevi mai problemi a commentare. So che ultimamente sono un disastro, ma vi leggo sempre ❤️
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