Capitolo 4
Oh life is bigger
It's bigger than you
And you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no I've said too much
I set it up
That's me in the corner
That's me in the spot-light
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don't know if I can do it
Oh no I've said too much
I haven't said enough
I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing
I think I thought I saw you try
Every whisper, of every waking hour
I'm choosing my confessions
Trying to keep an eye on you
Like a hurt, lost and blinded fool, fool
Oh no I've said too much
I set it up
Losing my religion, R.E.M
I'm the Commander.
No one fights
for me.
Djævel
A volte il mondo girava troppo forte per i suoi gusti. Le idee si accavallavano tra loro, formando grovigli difficili da risolvere. Non amava i puzzle, erano troppo complicati per lui.
E non aveva la pazienza di sbrogliare i nodi della sua vita. Così la lasciava fluire, semplicemente complicata e contorta com'era.
Se avesse punito Ægon, lo avrebbe condannato a punizioni dolorose e non poteva permetterlo. Doveva sperare che il ragazzo mantenesse il silenzio con lui, che l'aveva coperto.
Jacob era malleabile, in fondo. Sarebbe bastato dirgli che durante la discussione la donna l'aveva colpito alle spalle e che al resto ci avevano pensato loro.
Quando l'allarme smise di suonare, la piazza tornò a riempirsi man mano di gente. Tutti i cittadini erano attori ormai entrati perfettamente in quella parte. Sapevano benissimo quale ruolo recitare. Si accalcarono, raggiungendo il solito palchetto delle punizioni.
Lì i ribellisti venivano puniti e impiccati in pubblico. Alcune volte avevano proposto di usare la ghigliottina, ma quella sarebbe stata un privilegio da riservare solo a Thanatos.
Il Generale Schultz costrinse i prigionieri a seguirli, colpendoli con manganellate alla schiena.
Ormai rassegnati, i ribellisti catturati non si agitavano più, accettavano serenamente la loro condanna. Forse Djævel un po' li invidiava.
Le persone li guardavano dal basso del piccolo palco in legno, spintonandosi tra loro.
In fila, i quattro nemici dello stato vennero sistemati uno accanto all'altro, col cappio alla gola. La botola che li avrebbe lasciati sospesi all'aria traballò per qualche istante.
Djævel si perse a guardare la folla di cittadini. Forse li odiavano e non avevano poi tutti i torti. Deglutì in tensione, sbirciando con la coda dell'occhio Ægon, che se ne stava in silenzio, con sguardo basso. Forse rimuginava sui propri doveri, divorato dal senso di colpa per aver colpito il suo migliore amico.
«Questo è per ricordare cosa succederà ancora se nasconderete Thanatos e i suoi uomini!» Jerome Schultz diede un calcio alla botola. Il meccanismo scattò e i corpi presero a penzolare per aria.
Djævel socchiuse gli occhi per un istante, quando li riaprì incrociò quelli oltraggiati e spaventati dei cittadini. Osservò Schultz, che era così fiero del suo operato. Nel mentre alcuni ragazzi liberavano i corpi senza vita per poi lanciarli ai piedi del pubblico, come sacchi di farina marcia.
«Il coprifuoco scatterà alle nove. Chiunque sia in giro ancora dopo quest'ora verrà portato via nelle prigioni e interrogato sui suoi crimini. Se la cosa si ripeterà ancora, verrà giustiziato come questi.» Indicò con un cenno del capo, sdegnato, i corpi morti.
La folla si disperse poco dopo. Djævel individuò degli occhi femminili scuri. Il volto era nascosto da un velo. La ragazza corse via.
E anche Ægon se ne accorse, perché scattò in avanti al suo inseguimento.
Djævel doveva impedirgli di combinare altri guai per quella giornata. Spinto da un rabbioso senso di rimorso, Ægon avrebbe potuto commettere errori e prendere decisioni fatali.
Si allontanò, disperdendosi anche lui tra le persone, facendo un cenno a Jerome che sarebbe stato lui a occuparsene.
Conosceva bene ogni angolo della città di Sol. Quando era un ragazzino, l'unico rampollo della nobile famiglia Storm, trascorreva giornate intere in giro, pur di non essere costretto a restare a casa e a subire in silenzio le angherie di suo padre. Si era abituato così tanto al dolore da renderlo una seconda pelle, una parte di sé fin troppo annidata nell'animo.
«Ægon! Ægon, torna indietro, cazzo.» Gli gridò dietro, ma il ragazzo non l'ascoltava.
Si ritrovò con lui in un vicolo cieco. Ægon teneva il fucile puntato sulla ragazza, che saltò, arrampicandosi lungo le tubature della casa, sul balcone di una struttura. Li guardò dall'alto, tenendo un velo a coprirle metà volto.
Djævel spostò l'attenzione sul ragazzo e un sorrisetto divertito gli sfuggì al controllo. Intrecciò le braccia al petto, appoggiandosi a una parete. Seguì il loro gioco di sguardi, fino a che una voce dall'alto dei tetti chiamò la ladra.
«'Liyah, andiamo!»
Lei si riscosse e ammiccò in direzione di Ægon, disperdendosi in una cortina di nuvole e dubbi.
Ægon si voltò a guardare Djævel confuso. «Perché non l'hai fermata tu?»
Il Comandante si strinse nelle spalle, cercando di ricomporsi. «Ah, scusami. Volevi fermarla? Credevo steste cercando di innamorarvi telepaticamente.»
Ægon fece uno sbuffo rumoroso. «Oggi sei molto pieno di risorse.»
Djævel fece schioccare la lingua contro i denti e gli si parò davanti. «Non dimenticare la tua posizione, Ægon. Ti sto evitando una punizione dolorosa. Fossi in te ringrazierei a testa bassa, seguendomi in silenzio.»
Il ragazzo deglutì, ammutolendosi di colpo. Fece un cenno d'assenso con il capo, richiudendosi a riccio, come colpevole. «Sì, d'accordo. Hai ragione... volevo seguirla e catturarla, ma mi sono paralizzato. Ho ancora i volti terrorizzati di quei bambini nella mente-»
Djævel gli diede un buffetto sulla guancia. «Lo so, ma ti ci abituerai.» Si incamminò fuori dal vicolo, scortandolo fino all'Akademie.
***
Quando fece ritorno a casa, Djævel ebbe la sensazione di tornare a non respirare. Come tenuto a forza sott'acqua, gli mancava il fiato.
Sbuffò nervoso, liberandosi della giacca della divisa, quando una delle domestiche gli andò incontro, pronta a sistemarla e a stirarla per il giorno seguente.
Si chiese se Lilian fosse ancora al lavoro. Una parte di sé desiderava disperatamente che sua moglie non fosse in casa, così da non dover riprendere ancora una volta le stesse discussioni.
Si concesse un'occhiata allo specchio, osservando il proprio riflesso. D'istinto prese a sfiorarsi la cicatrice che gli sfasciava metà volto, fino a nascondersi sotto il colletto della camicia. Partiva dalla fronte, attraversava il lato sinistro del volto, arrivando alla clavicola.
Suo padre aveva deciso di lasciargli un marchio che non avrebbe mai dimenticato.
Si rivolse alla donna di mezz'età, mentre armeggiava con la sua giacca. «Lilian è in casa?»
Lei annuì, alzando poi lo sguardo scuro e vacuo su di lui. «Sì, la aspetta in camera, signore.»
Djævel storse il naso e si mosse verso le scale, calpestandole con nervosismo. I suoi passi rimbombavano per tutta la villa. Spinse in avanti la porta della propria camera da letto.
Lilian era lì. Seduta sul letto, intenta a spazzolare i lunghi capelli rossi. Fissava un punto indefinito verso l'esterno, come se al di fuori della finestra ci fosse un mondo magico da amare, e non uno al devasto da ricostruire.
«Com'è andata oggi?»
Djævel sbuffò scocciato. Andò a stendersi sul letto, intrecciando le mani dietro la nuca. Osservò con insistenza il soffitto. «Al solito. Sono morti altri tre studenti. Quel Thanatos del cazzo ha lasciato un messaggio fuori l'Accademia.» Si passò una mano sul volto, provando a ricomporsi. «Abbiamo fatto una dimostrazione e un'impiccagione pubblica. Sperando che capiscano che i ribellisti non sono ben accetti.»
Lilian si voltò a guardarlo e annuì.
Non aveva idea del perché l'avesse sposata. Forse perché era l'ultimo esponente di una famiglia importante e ancora fertile -o così tutti credevano.
Forse perché la loro unione avrebbe rappresentato un'ottima mossa politica.
Lilian gestiva la Mostra. Portava avanti l'azienda più amata e vicina al Governo. Gli era utile così tanto che neanche immaginava. Sceglieva e proponeva lei alle famiglie i migliori Procreatori e Procreatrici, aiutandole a progettare il figlio perfetto, così come l'avevano sempre immaginato.
Riusciva ad accontentare tutti i loro sogni, la scienza poteva qualsiasi cosa.
La donna si allungò ad accarezzargli i capelli. «Ho trovato la Procreatrice perfetta. Credo che dovresti darle una possibilità. Finalmente potremmo avere un erede e non avresti più nulla che ti metterebbe in secondo piano col Generale.»
I figli ormai erano simbolo di potere. E Djævel non ne aveva, non ancora almeno.
Deglutì nervoso e si tirò a sedere. Si passò una mano tra i ricci scuri e sospirò piano. «Bene. Ma adesso sono stanco-»
Lei ridacchiò e scosse il capo. «Sei sempre stanco. Una volta hai mal di testa. L'altra sei ferito. E poi c'è una riunione-»
Djævel serrò la mandibola, così forte da sentire i denti scricchiolare. Non avrebbe violentato una ragazzina solo per avere un figlio. Non era come suo padre. Si tirò in piedi di scatto e guardò la moglie con rabbia. «E allora, Lil? Credi che tutti andiamo al nostro fottuto lavoro e sorridiamo a delle coppie false e felici, proponendo figlioletti perfetti e puttane?»
Lilian si alzò anche lei, puntandogli un dito contro. «Non provare ad alzare la voce con me.»
Djævel avanzò verso di lei, superando il letto. «Tu forse non hai capito. Non sono io l'inutile sterile della coppia. Decido io qualsiasi cosa voglia fare con la Procreatrice. E adesso non ho né tempo né voglia di vederla. Ti è chiaro?»
Lilian non si scompose, anzi. Fece un sorriso. «Sei un Generale nato, non lo vedi, Djævel? Perché non mi ascolti? Avere un figlio ti aiuterebbe a scalare di grado... Schultz ha solo Jacob in più a te, nient'altro. Sappiamo entrambi che potresti ambire a molto di più. E ti conosco. So quanto desideri avere quel potere tra le mani. Regalaci un figlio. È la nostra occasione.»
Lui rise esasperato e indietreggiò. «Uccido ogni cazzo di giorno persone. Arrivo a fine giornata che vorrei stringere le mie fottute mani attorno alla gola di qualcuno e basta.» Si avvicinò di più a Lilian, per testare il suo coraggio. Avrebbe potuto strangolarla e basta. Una parte di lui lo desiderava. Strinse i pugni così forte da sentire dolore. «Scopare e avere un bambino non è la mia dannata priorità! Me ne sbatto il cazz-»
Lilian lo avvolse in un abbraccio, carezzandogli la schiena. Si irrigidì, ma la lasciò fare. Djævel era stanco di recitare una parte che gli andava stretta.
Lei avvolse il suo volto tra le mani, sfiorandogli la guancia con un pollice, delicatamente. «Lo so, ma tu vuoi salire di grado, ricordi?»
Djævel annuì. Lo voleva. Lo voleva eccome, quel potere.
«Allora devi dimostrare che tra te e Jerome Schultz non ci sono differenze...» Posò le labbra sulle sue. Djævel ricambiò quel bacio, facendo scivolare le mani sui suoi fianchi. Appoggiò poi il capo sulla spalla di Lilian, riprendendo fiato.
«Magari nei prossimi giorni ti farò conoscere la Procreatrice. Per ora prova a riposare un po', mh? Oggi dovresti avere il turno di ronda notturna.»
Djævel si lasciò scappare un sorrisetto soddisfatto, nascosto con attenzione.
Anche per quella volta era riuscito a scansare abilmente l'incontro con la Procreatrice.
***
Aveva portato alcuni dei ragazzi con sé per il turno di ronda. Li osservò, mentre giravano per le strade, chiacchierando sommessamente tra loro.
Ægon continuava a guardarlo con insistenza, poi si fece coraggio e decise di avvicinarsi. «Posso farti una domanda?»
«Anche due.» Djævel si sistemò il fucile in spalla. Era da un po' che aveva in mente di staccare da quella notte, di estraniarsi e basta. E aveva anche idea di come.
«Perché? Perché non mi hai denunciato oggi? Potevi farlo. Insomma, ho tradito uno dei miei compagni-»
«Ed evitato che una madre venisse violentata davanti ai suoi figli. A volte si dimentica di essere umani, tutti. Va bene così, Ægon.»
Il ragazzo si strinse a disagio nelle spalle. «Ma noi dovremmo essere divinità imprescindibili, un giorno.»
L'Accademia si radicava nelle loro menti. Lo capiva. Djævel scosse il capo e gli diede una pacca sulla spalla. «Sei tu il capo di pattuglia, oggi. Io ho bisogno di una pausa.» Si allontanò da lui.
Ægon lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, penzolanti. Lo guardava confuso, stordito. Si toccò l'orecchio in un gesto nervoso e in tensione. «E dove andresti? Se succedesse qualcosa? C'è Thanatos in giro.»
«Hai paura delle ombre, Ægon?» Djævel fece un mezzo sorriso, sparendo poi in uno dei vicoli delle città. Controllò il proprio quadrante, assicurandosi che i ragazzi continuassero il proprio lavoro per le strade.
Se avesse avuto bisogno di lui, gli sarebbe bastato chiamarlo. Si liberò del rilevatore ottico, scostandolo dall'occhio sinistro. Si rigirò il vetrino grigio tra le mani e lo lasciò scivolare nella tasca in alto della divisa.
Prima di entrare al Club, si sistemò i capelli ricci, specchiandosi nella finestra. Spinse in avanti la porta e l'ambiente a luci rosse soffuse lo riscaldò di colpo.
Osservò il nuovo ragazzo al bancone e deglutì. A volte sognava ancora il suo corpo sanguinante ai propri piedi. Poteva cercare di star lontano da quel male, da quel sangue.
Ma quel sangue non sarebbe mai stato lontano da lui.
«Comandante! Che piacere rivederla, cosa posso fare per lei questa sera?» Poul West gli andò incontro, con un sorrisetto a increspargli le labbra gonfie. Gli zigomi alti erano ingrossati all'inverosimile e i capelli rasi iniziavano a crescere di nuovo.
A Sol la chirurgia plastica era quasi all'ordine del giorno tra i ricchi. Si cercava di combattere la paura di morire in quel modo, avvinghiandosi a una finta eterna giovinezza, nell'attesa della tanto promessa Immortalità dal Governo.
Djævel pensava che una vita infinita fosse più una condanna che un premio, nel suo caso. Avrebbe dovuto sopportare chissà quanto altro. «Quanto vuoi per tutta la notte con Eros?»
Lo sguardo dell'omuncolo ebbe un guizzo d'eccitazione. Probabilmente stava già contando tutto il denaro che avrebbe potuto spillargli. «Mille e cinquecento scudi. Il ragazzo vale molto.»
Djævel scrollò le spalle. Spiccioli per lui, troppi per chiunque altro avesse la sua stessa brillante idea. Sfilò dalla tasca le banconote grigiastre e gliele lasciò scivolare tra le mani. Nel mentre che Poul le contava, si diresse nel solito salottino due, che l'uomo gli aveva indicato.
Si richiuse la porta alle spalle e cercò di trattenere un sorriso, quando Eros si alzò dal letto, andandogli incontro. I suoi occhi chiari sembrarono dilatarsi nella penombra della stanza.
I muscoli si rilassarono quando lo riconobbe, ma un attimo di tentennamento lo fece indietreggiare di poco. Poi scosse il capo e gli elargì il suo migliore sorriso. I ricci chiari gli incorniciavano alla perfezione quel volto quasi angelico. «Allora? Cosa posso fare per accontentarti, Comandante?» Eros gli si avvicinò di colpo, annullando le distanze tra loro. Gli accarezzò la giacca, strusciando i pollici sui bottoni dorati della divisa. Accarezzò il simbolo del sole sul lato sinistro, all'altezza del cuore.
Djævel seguì disorientato quei movimenti, perdendosi per qualche istante in quel momento, quasi dilatato nel tempo. Deglutì e gli afferrò i polsi, allontanandolo da lui. «Lo sai che non voglio toccarti come gli altri.»
Eros aggrottò la fronte, sebbene non riuscisse a nascondere un piccolo sorriso. «E perché hai pagato per tutta la Notte?»
«Così non sarai costretto a stare con qualcuno. Non dovrai tremare tutta la notte.» Djævel si strinse nelle spalle, superando Eros e avvicinandosi al letto. Posò il fucile accanto al materasso, ai propri piedi. Si sbottonò la divisa della giacca, lanciandola su una delle sedie. Restò con solo una maglia a mezze maniche. «Te l'ho detto che non sono come loro. Voglio solo parlare.»
Vide che Eros teneva lo sguardo fisso sulla cicatrice che si disperdeva da sotto la maglia, ma non commentò e gliene fu grato. Certo, quando aveva sentito le sue dita sfiorargli la pelle, in uno dei suoi punti più marci, si era sentito ristorato, tornato in vita, come se avessero provato a seminare in un campo da tempo arido. «Parlare tutta la notte con una puttana di lusso come me?» Eros scivolò al suo fianco, scrutandolo con quegli occhi azzurri, come quel cielo limpido che non si vedeva da tempo a Sol.
«Te l'ho detto, Eros. Non sono come il tuo padrone.»
«E di cosa vorresti parlare?» Eros si strinse nelle spalle a disagio. Indossava solo dei pantaloni di pelle, lasciando l'addome scolpito scoperto. Djævel si allungò a prendere la propria giacca della divisa e gliela sistemò sulle spalle.
Ripensava all'impiccagione della mattina. Alla rabbia negli occhi di Jacob. Al terrore dei bambini. Alla sua voglia di strangolare Lilian, pur di sentire qualcosa in modo disperato. Ripercorreva il sangue sul pavimento del locale solo qualche tempo prima. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Di qualsiasi cosa, pur di non sentirmi ancora un mostro.»
Eros si addolcì di colpo e lo fece distendere. Poi fece lo stesso, crollando sul materasso al suo fianco. «Per quel che vale, Djævel, non riuscirei mai a vederti come il mostro nella mia storia. Tu non mi stai toccando.»
Djævel annuì. «E non lo farò mai. Non qui. Non senza che tu lo voglia.» Fissò il soffitto. Potevano anche restare per sempre in silenzio. Non conosceva nulla di Eros, semplicemente nei suoi occhi aveva riconosciuto una sofferenza fin troppo familiare. Una solitudine soffocante.
Eros fece un sospiro rumoroso, poi sorrise. «Qual è il tuo colore preferito?»
Djævel cercò di trattenere una risata. Neanche da ragazzino si era mai sentito così leggero. Era pur sempre stato il rampollo degli Storm. Una serie di regole e precetti da seguire gli gravavano sulle spalle come un macigno. Aveva dovuto portare avanti la sua famiglia, quando -per fortuna- suo padre era morto. Non aveva mai avuto preoccupazioni diverse della sua famiglia. «Perché? Così mi farai trovare le lenzuola di quel colore la prossima volta?»
Eros ridacchiò, puntellandosi su un gomito, per osservarlo dall'alto. Gli sfiorò la cicatrice. «Quindi ci sarà una prossima volta... vero?»
Djævel annuì. «Se potessi, lo farei ogni sera... mi dispiace per il tuo amico.»
Eros si incupì. «Sapeva di dover stare fermo. Lo sappiamo tutti qui.» Mormorò sconsolato.
Djævel osservò i suoi lineamenti dolci, quasi nascosti dalla luce soffusa della camera. Il rosso dei neon riverberava e si specchiava tra quei ricci biondi. «Il blu.»
«Cosa?»
«Il mio colore preferito è il blu. Il tuo?» Djævel inclinò il capo di lato.
Eros abbassò lo sguardo per un momento. «Il verde. È il colore della speranza, dicono.»
☀️☀️☀️☀️
Angolino
Come va? Ho aggiornato oggi perché così a caso, per non farvi capire un cazzo.
Scherzo, aggiornerò sempre quando ho tempo tra venerdì e domenica🫶🏼
Cosa ne pensate di Djævel? 👀
Alla prossima 🌝
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