Capitolo 33
Djævel/Thanatos
Sapeva che Eros ormai lo detestava dal profondo del cuore. Ma comunque faceva male leggere tutto quel rancore nei suoi occhi.
Continuava a ripetersi di aver fatto la scelta giusta, ma iniziava a non esserne davvero certo. Lo teneva al sicuro dai suoi segreti, dai suoi problemi, eppure gli mancava. Avrebbe voluto poter sentire ancora una volta le sue carezze sulla pelle, lungo la cicatrice.
Anche solo saltare per i tetti insieme. Gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa.
Era svilente quanto quel mondo così disastrato fosse ancora fatto quasi per due. E lui credeva di essersi abituato ad essere solo.
Fissò un'ultima volta Aaliyah con quell'idiota di Ægon, prima di lasciarli soli. Il ragazzo lo aveva fatto preoccupare. Quando Doom aveva premuto la canna della pistola sulla sua fronte aveva temuto il peggio.
Quando tutta la sua famiglia era morta, Djævel si era ripromesso di non legarsi più a nessuno. Era destinato alla solitudine e a perdere comunque tutti. Si lasciò cadere sul proprio letto, dopo aver fatto scattare la serratura della porta. Si liberò della maschera asfissiante e sbatté le palpebre secche.
Credeva che farsi odiare da Eros sarebbe stato semplice. Sopportare il dolore era sempre stata una delle sue migliori capacità. Ma adesso quella rabbia cominciava a bruciarlo vivo.
La dinastia Storm si è ufficialmente estinta.
Forse neanche meritavano di esistere.
Forse era meglio così.
Djævel si distese nel letto, ancora ordinato, e prese a fissare il soffitto; l'intonaco era appena un po' scrostato. Sfilò dal cassetto al suo fianco un ciondolo.
Un puntino luminoso a forma di rosa, attaccato a una catenina sottile d'oro bianco, gli strappò un piccolo sorriso. Ricordava ancora quando l'aveva comprato per regalarlo alla sua sorellina. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per vederla sorridere.
A volte gli sembrava di sentire ancora la sua voce, nei suoi sogni migliori, ma soprattutto le urla negli incubi peggiori.
«Oggi è stata una giornata pesante.» Cælin si accomodò su uno sgabello pieno di polvere, dopo averlo fatto scivolare sulla ghiaia del palco.
I flebili raggi del sole filtravano attraverso il tendone del circo. Djævel si voltò a guardare sua sorella, restando in bilico sulla corda alta in aria. Teneva un bastone tra le mani per mantenere l'equilibrio e avanzava lungo il sottile filo sospeso nel vuoto. «Perché? Cos'hai fatto?»
«Ho fatto compagnia a Rosie. Oggi aveva un paio di clienti. A uno di loro ci ho pensato io, mentre l'altro aspettava.»
Djævel rischiò di cadere nel vuoto. Il bastone gli scivolò da mano e si aggrappò giusto in tempo alla corda, o presto si sarebbe spiaccicato come un inutile insetto a terra. «E papà te l'ha lasciato fare?»
«Lo sai che dobbiamo farlo.» Cælin si sistemò i capelli biondi sulle spalle. «Così fidelizziamo i clienti.»
Djævel storse il naso. Sua sorella aveva solo dieci anni, cosa poteva mai saperne lei? «Sai almeno cosa significa quella parola?»
Lei gonfiò il petto, tronfia d'orgoglio. «No.» Ammise poi, arrossendo.
Djævel sogghignò. Aveva solo quindici anni e doveva prendersi cura delle sue sorelle. L'anno successivo sarebbe entrato in Akademie e chi avrebbe continuato a guardare le loro spalle? Nessun altro l'avrebbe fatto. A quel bastardo di suo padre importava solo del circo. A lui non fregava un cazzo. Voleva solo che smettesse di usare le sue sorelline come delle prostitute.
«Voglio parlare con lui-»
Cælin lo prese per il polso, trascinandolo all'indietro. Di colpo i suoi occhi si gonfiarono di lacrime, arrossandosi.
«Ti prego, no. Non ho fatto nulla, ho solo letto i tarocchi questa volta.»
Djævel serrò la mandibola. Questa volta. E le altre ancora? E Rosie? Doveva essere destinata a quell'incubo per sempre? La sua sorellina, nel pieno della sua dolcezza, doveva essere toccata e violata senza che lo volesse sul serio? Strinse forte i pugni.
«Non gli permetterò di fare lo stesso con te. O con Adelyn o con Hilda. Hilda ha quattro anni.» Djævel strinse i pugni così forte da sentire le unghie lacerare la carne.
Cælin gli sfiorò la guancia. Percorse tutta la sua cicatrice, strappandogli un rantolo. «La lezione che ti ha dato non ti è bastata? Poteva cavarti un occhio, Kadyr.»
Djævel fissò un punto nel vuoto e inspirò forte. Odiava quando sua sorella non lo chiamava col suo primo nome, come se si rifiutasse di ammettere che era un demone. Era colpa sua se sua madre era morta. Era condannato fin dalla nascita. Tutto ciò che toccava, moriva.
E adesso toccava a suo padre.
Poi avrebbe venduto quel circo di merda. Coi soldi avrebbe ristrutturato la villa della loro famiglia e avrebbe assicurato una vita decente alle sue sorelle. E alla sua nuova madre. Glielo doveva.
«Ci penserò io. Devi fidarti solo di me.»
La ragazza scosse la testa in modo meccanico. Gli accarezzò il polso, passando su alcune lividure violacee e nerastre, come macchie di inchiostro che non sarebbero mai andate via dalla sua anima. «Non puoi fare la stessa fine di zio Xavier. Non possiamo lasciartelo fare. Neanche la mamma sarebbe d'accordo.»
Djævel storse il naso. Suo zio era stato cancellato dall'albero di famiglia anni prima, forse era stato ucciso. Non avevano sue notizie da tempo. Non credeva di meritare l'amore di una madre, figurarsi di una seconda, non dopo che aveva ucciso la sua. Eppure, Josephine continuava a trattarlo come un figlio. Lui, un mostro abominevole, bravo solo a fare l'equilibrista e qualche stupido gioco di prestigio.
Cælin si morse l'interno guancia. «Djævel, hai già abbastanza lividi in volto. Dovresti smettere di litigare con papà. Non ti porterà da nessuna parte-»
Afferrò sua sorella per il mento, costringendola a guardarlo. «Devi solo fidarti di me.» Ripeté.
Un paio di tonfi alla porta lo fecero sussultare. Djævel lasciò cadere il ciondolo e con un grugnito si calò a recuperarlo da terra. «Chi cazzo è?» Lo fece scivolare nella tasca dei pantaloni. Afferrò poi la maschera dal letto.
«Dobbiamo andare. Abbiamo un po' di impegni questa sera, te lo sei dimenticato?» la voce di Ares gli arrivò appena ovattata.
Djævel fissò la maschera per qualche secondo, prima di indossarla. Era la sua seconda pelle. Thanatos era ciò che era sempre stato. Non era altro che portatore di morte e aveva promesso a Cælin che avrebbe vendicato la sua morte.
Aveva promesso che tutta la sua famiglia avrebbe avuto giustizia. Avrebbe ucciso tutti coloro che erano al Governo, tutti quelli che avevano orchestrato, giocando a essere grandi burattinai della vita, e causato l'incidente.
Spalancò la porta e uscì dalla propria camera. Ares inclinò il capo. «Come stai? Sai che farsi picchiare da qualcuno per cui provi qualcosa non è un ottimo modo per dichiararsi o farsi perdonare, vero?»
Djævel aggrottò la fronte. Agitò le mani, come a scacciare degli insetti fastidiosi e sbuffò. «Grazie, e io che pensavo che le cene a lume di candela fossero superate. Non mi voglio dichiarare.» Borbottò, ficcandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. «E io non provo niente, ti pare?»
Ares sospirò affranto. «Abbiamo individuato il Faraone. Vogliamo andare?»
Djævel annuì con un cenno del capo. «Doom viene con noi?»
Il diretto interessato fece il suo ingresso, uscendo dalla propria camera. Con un sorrisetto spavaldo, gli si avvicinò. «No. Andrete voi due. Io vorrei evitare che i nostri ospiti cerchino di fare un'altra passeggiatina.»
Djævel sentì un brivido scorrergli lungo la schiena. «Non farai loro nulla, vero?»
«Non farai loro nulla, vero?»
«Non ho tempo per queste stronzate, Djævel. Piuttosto dovresti esercitarti meglio sul numero di domani. Vuoi che i nostri clienti scappino?» Leopold, perché chiamarlo suo padre era troppo, spense il sigaro con un gesto afflosciato della mano.
Djævel tremò nervoso. Si avvicinò a quel bastardo, sfilando il pugnale per tagliare la carta dalla scrivania e glielo puntò alla gola. «Lascia stare Rosie e le mie sorelle.»
Leopold rise e scosse il capo. Scostò la punta della lama dal volto. Poi gli bloccò il polso, storcendoglielo quasi. Gli strappò un rantolo di dolore. Lo tenne fermo con una mano sulla spalla e strinse la presa. Le dita affondarono nella spalla, premendo contro i nervi. Djævel si ritrovò a cadere sulle proprie ginocchia. La zazzera di capelli gli oscurò la vista. O forse il dolore iniziava ad annebbiargli lo sguardo. «Ricordati che ti tengo in vita solo perché sei uno degli ultimi a portare il mio nome, brutto diavolo. Adesso togliti dai piedi e non ficcare più il naso nei miei affari.»
Djævel sbatté le palpebre e sentì la maschera ripetere i suoi stessi movimenti. Il ronzio metallico gli riempì le orecchie.
Doom aggrottò la fronte. «Il Faraone cambia posizione una volta a settimana. Dopo la morte del Generale», calcò particolarmente quelle parole, con un ghigno divertito, «farà un giro di ricognizione nel bosco assieme a Jacob, alla ricerca di indizi.»
Ares aggrottò la fronte. «Tu come sai tutte queste cose?»
«Conosco i miei polli. E poi non esistono uomini forti. Tutti abbiamo un prezzo, Ares. Dipende solo quale moneta offriamo.» Doom incrociò le mani dietro la schiena e arretrò, fino a lasciarli soli.
Ares posò il suo sguardo su di lui. Djævel sospirò piano e si strinse nelle spalle. «Andiamo a prendere quest'altro bastardo.» Socchiuse gli occhi. «Lo cattureremo. Voglio interrogarlo. Sarà più facile risalire agli altri, così.»
«Gli ordini di Doom non sono questi.»
«Indovina quanto mi importa?» Djævel si guardò intorno. «Lui non lo saprà. Oggi è giovedì. Tra un paio d'ore sarà al Dice da Leia.»
Ares scosse il capo e si allontanò, seguendolo. C'era uno strano silenzio nei corridoi. Dopo l'effrazione di Ægon, tutti sembravano essere in allerta. Djævel svoltò in uno dei cunicoli da poco scavati, che avrebbe permesso loro di spuntare direttamente nel bosco. Attese che Ares lo raggiungesse, prima di tirare su il tombino. Risalì in superficie, come un ratto dalle fogne. Si guardò intorno e sbatté le palpebre per abituarsi al buio di quella notte.
L'aria gelida gli sferzò i capelli e rabbrividì. C'era il solito silenzio inquietante e fece segno ad Ares di avanzare. «Dobbiamo stare attenti agli animali che Lilian ha liberato nel bosco. A quanto pare, alla Mostra si divertono a fare piccoli test per migliorarli e poi li lasciano scorrazzare qui.»
Ares gli fece un sorrisetto divertito e inclinò il capo. «Allora, e chi sarebbe questa Lilian? Ieri piangeva davvero tanto la tua morte.»
Djævel sbuffò. «Era mia amica. Non aveva nulla e la sposai. Dopo l'incidente ebbe la straordinaria idea della Mostra. Mi dispiace essere morto prima di lei, in realtà.»
Ares ridacchiò divertito e insieme si mossero silenziosi nella notte. Djævel premette l'indice sullo schermo, isolando il proprio quadrante da quello degli altri soldati. Ormai, grazie a Doom era riuscito a non far rilevare il suo.
Ares lo imitò e poi sogghignò. «Devono essere loro, nei paraggi.» Indicò un mucchietto di puntini rossi sullo schermo.
Djævel si limitò a stringersi nelle spalle. «Che il divertimento abbia inizio, allora.» Scattò in avanti e si nascose tra delle fronde alte. Afferrò Ares per il colletto della casacca e lo trascinò al suo fianco. Ares ruzzolò tra le foglie, imprecando a bassa voce. «Sei un tale idiota, te lo giuro.»
Djævel sorrise divertito. Spiò la cerchia di soldatini davanti a loro. Se ne stavano a guardarsi intorno. Il Lago era poco distante. Aveva salutato lì per l'ultima volta Ægon nelle vesti del Generale. Forse anche quel ragazzo l'avrebbe odiato per sempre, se avesse saputo.
«Eravamo qui.» Jacob Schultz avanzava impettito tra gli altri soldati, facendosi spazio come un pavone vanitoso.
C'era un continuo vociare fastidioso tra i vari ragazzi. Nel mortale silenzio notturno, rimbombavano solo gli scricchiolii dei rami calpestati. C'era un pungente odore di fumo. Ares osservò le fiamme al centro del piccolo falò che avevano preparato, forse per riscaldarsi per quella notte.
Djævel sapeva di non essere stato progettato per essere perfetto e performante quanto Jacob. Eppure, l'aveva studiato nel tempo e sapeva quanto il ginocchio fosse uno dei suoi punti deboli. L'avrebbe fatto cadere. In un modo o nell'altro. adesso, però, doveva concentrarsi sul Faraone. Governava nell'ombra uno dei quartieri di Sol. Il fatto che fosse in giro, proprio quella notte, era come aver vinto una grossa somma al tavolo da poker, dopo una scala reale.
Djævel si tese appena un po' in avanti a osservare la figura del Faraone muoversi tra la folla di uomini armati.
Una vistosa maschera d'oro, simile a quella di un sarcofago, gli copriva il volto. Gli occhi erano l'unico punto scoperto. Le pupille scure sembrarono dilatarsi alla luce del fuoco. «Quindi in questo punto vi hanno colpiti, signor Schultz?» Ogni suo movimento era accompagnato da almeno un paio di uomini dalle grosse proporzioni. Ne erano quattro. Thanatos avrebbe dovuto abbattersi su tutti loro, prima di arrivare al Faraone. Dovevano distrarre Jacob Schultz. Serviva un tranello, una distrazione adeguata.
«No, eravamo al Lago. Io ero ad assicurarmi che nessuno infastidisse la mia collega Herica durante il bagno. Ægon, a capo della spedizione, era con gli altri soldati quando il prigioniero si è liberato-» Finse un singhiozzo. «Scusate. Era il mio migliore amico, non riesco ancora a metabolizzare il fatto che sia morto.»
Djævel serrò la mandibola. Avrebbe voluto strozzare quell'idiota bugiardo.
Si acquattò contro Ares, rimasto in silenzio fino a quel momento. «Dobbiamo fare da esca. Tu devi attirare lontano Jacob e i soldati. Io mi occuperò del Faraone e delle sue bambinaie.»
Ares si irrigidì. «Non sei immortale, lo sai? Non ti lascerò morire come un idiota.»
Djævel lo ignorò. Attese che Ares facesse così tanto rumore da attirare l'attenzione di un gruppo di soldati. L'amico scappò via, così, una volta visto il Faraone da solo coi suoi uomini, lui decise di agire.
Prese la mira e sparò un dardo velenoso in direzione di una delle guardie, colpendolo al collo. Quello cadde come un frutto troppo maturo, stramazzando al suolo. Djævel strizzò gli occhi e scivolò di lato, non appena uno degli scimmioni del Faraone si lanciò tra i cespugli per ammazzarlo. Djævel lo pugnalò alla carotide e schizzi di sangue gli macchiarono la maschera. Gli altri due uomini gli corsero incontro, scartò il primo fendente e sfilò dal cinturone del secondo la lancia elettrica. Lo colpì con la punta al fianco. Si abbassò sulle ginocchia, evitando l'attacco del primo. Gli diede un pugno in pieno volto, poi affondò la lama della lancia nel suo stomaco. Usò il suo corpo con come scudo difensivo e uccise l'ultimo rimasto.
Aveva visto il Faraone correre nel bosco, in direzione del Lago. Non sarebbe andato poi così lontano. Si lanciò al suo inseguimento. Scartò alcune fronde degli alberi, che gli graffiarono le braccia. Il collo gli si arrossò di colpo.
Per poco rischiò di scivolare nel fango e si appoggiò a un ramo rinsecchito, rompendolo. Individuò poco lontano il mostro che voleva uccidere. Gli saltò addosso, spingendolo a terra. Lo caricò con il ginocchio sulla schiena, poi si tirò in piedi, premendo la suola dell'anfibio sulla colonna vertebrale di quell'idiota.
«Adesso ci facciamo una bella chiacchierata.» Lo afferrò per i capelli e lo legò a un albero. Sfilò delle catene, che teneva legate in vita, e lo attaccò al tronco.
Quello provò a divincolarsi, ma Djævel gli diede un calcio allo stomaco e un rantolo di dolore gli si liberò dalle labbra.
«Ti prego-»
«Che carini che siete quando mi implorate.» Djævel ammiccò e si calò sulle ginocchia. Gli strappò dal volto la maschera e gli assestò un pugno in pieno viso.
Aveva gli occhi chiari e i capelli bianchi. Djævel se lo aspettava più giovane. Adesso sembrava davvero un sarcofago. «Ora capisco il nome in codice, vecchiaccio.» Posò le mani sui fianchi. «Dimmi i nomi e le posizioni degli altri.»
Quello fece una risatina. «E perché dovrei? Chi cazzo sei tu? Tanto morirò comunque.»
Djævel lo afferrò per i capelli unticci e appiccicati per il sudore. Si abbassò, piazzandosi di fronte a lui. «I nomi. O troverò tutta la tua famiglia e la decimerò. Come voi avete fatto con la mia.»
Il vecchio sarcofago sgranò quegli occhietti odiosi e scosse il capo. Tremava come una foglia al vento. «Tu non li conosci-»
«Vuoi mettermi alla prova?»
Il Faraone sospirò piano. «Ci sono altri di loro. C'è il Fantasma. L'imperatore, lui è a capo di tutto. Ci sono anche la Regina e l'Alfiere». Si afflosciò quasi su se stesso.
Djævel gli spalmò il cranio contro la superficie rugosa del tronco. Gli diede uno strattone e mollò la presa, infastidito. «Voglio le loro posizioni.»
«Perché lo fai?»
«Avete ucciso tutta la mia famiglia, con quell'incidente del cazzo.»
Il vecchio ridacchiò. Il sangue gli colava dalla fronte e prese un grosso respiro. «Dovresti chiedere al tuo capo cosa c'entri lui, nell'incidente.»
Djævel si voltò di scatto a guardarlo. «Cosa vuoi dire?»
«Che il vostro caro Doom non è il salvatore. È sporco del sangue della tua famiglia, almeno quanto me.»
Djævel inspirò forte l'aria fredda della notte. «Le posizioni.»
«Se non mi credi, dovresti chiedere di Anthony Fate. Abbiamo cancellato tutto di lui, ma gli altri lo conoscono molto meglio di me. Credi di essere dal lato giusto, Thanatos? Sol è una città di ombre e caos, ormai. E lui ne è stato l'artefice.»
Thanatos serrò la mandibola e gli assestò l'ennesimo pugno sul naso. Sentì le ossa scricchiolare sotto le sue nocche. «Le posizioni.» Ripeté, in un sussurro, più simile a un ringhio.
Rise un'ultima volta. «Presto sarà troppo tardi anche per te, Thanatos. Sta' attento. Guardati bene le spalle da chi ti fidi.»
☀️☀️☀️
Angolino
Scusate il ritardo, ma credo che ormai la domenica sarà il giorno ufficiale per la pubblicazione.
Spero che SaC vi stia ancora piacendo.
So che ha meno parte "romance", ma è perché ha una trama complessa, considerando che è stata scritta letteralmente a cazzo💃.
Grazie per leggermi, nonostante il mio periodo un po' buio e assente.
Buona domenica ❤️
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top