Capitolo 1
•And in the middle of my
chaos there was you.•
Eros
«Devi fare solo quello che ti ho detto. Niente di meno, niente di più.» L'uomo si allontanò dal suo camerino, dopo avergli posato una pacca sulla spalla.
Eros lo osservò andare via, fino a che il tonfo della porta richiusa non prese a risuonare tra le pareti della sua mente come un tamburo battente.
Si era abituato a non avere nulla. Essere soltanto un oggetto da usare e spupazzare era l'abitudine. Un giocattolino erotico per quando ci si sentiva annoiati.
Eros si osservò ancora una volta allo specchio. Quegli occhi azzurri avevano incantato tutti i giudici alla Mostra. I suoi ricci biondi poi li avevano colpiti ancora di più. Era perfetto da abbinare a una Genitrice intelligentissima.
Figli meravigliosi e brillanti erano garantiti. Cosa poteva chiedere di meglio? Forse essere libero? Gli sarebbe piaciuto svincolarsi delle catene di quel destino, ma il mondo non gliel'avrebbe concesso. Mai.
Alla fine, poteva essere soltanto una puttana di lusso.
Ma poi aveva ascoltato la sua migliore amica e quella banda di idioti speranzosi ribellisti. Aveva sperato di essere molto di più: semplicemente se stesso. Così aveva pensato che, forse, poteva scappare dalla povertà in cui era nato, che poteva partecipare anche lui all'Accademia e provare a prendere in mano le redini del suo destino.
Finalmente poteva essere al comando.
Ma i sogni si erano infranti presto. Era bello sì, ma non abbastanza brillante, né altrettanto ricco da poter convincere i giudici che il suo compito all'Accademia era valido. Si ostinavano a raccontare che erano tutti uguali, tutti con le stesse possibilità. Era solo fumo negli occhi per accontentare bambini sognanti.
Al test era risultato perfettamente idoneo al ruolo di Procreatore: bellissimo e affascinante, dicevano. Non poteva essere nient'altro. Non era nient'altro.
I suoi amici e i ribelli erano morti e a lui cos'era rimasto, alla fine? Nulla. Aveva bruciato anche la sua unica occasione di sopravvivenza, solo per non essere un Procreatore.
Perso quel treno, si era ritrovato solo. Senza un posto dove andare, né dove vivere. Dimenticato dagli uomini e inutile per il Governo, ormai.
Alla fine, aveva venduto la propria dignità pur di avere un soldo in tasca con cui garantirsi qualcosa da mangiare, un appartamento e roba abbastanza forte per dimenticare ogni serata trascorsa in quel locale di merda. Il suo parere e consenso non erano importanti, dopotutto.
«Ehi, tra poco tocca a te. Privato due.» Sylvia gli sorrise, sistemandosi i capelli in uno chignon alto.
Eros si osservò per un ultimo istante ancora. Avvicinò le dita agli angoli della bocca, costringendosi a tirarli verso l'alto.
«Si va in scena.» Mormorò a bassa voce, parlando più tra sé che con la collega. «Sono pronto. Chi sarà il mio meraviglioso cliente questa sera?» Uscì dal proprio camerino, riversandosi nei corridoi bui del locale, illuminati solo da soffuse luci al neon rosse. La moquette vecchia sembrava quasi scricchiolare sotto i suoi passi. Sospirò piano, fissando la porta del privato due. Un sorriso e tutto sarebbe finito. Sfilò dalla tasca dei pantaloni una pasticca e la mandò giù. La giusta dose per sballarsi. Spalancò la porta ed esibì uno dei suoi sguardi più ammalianti.
Una donna sulla cinquantina lo aspettava a gambe accavallate sul letto. Lo squadrò da capo a piedi, come se fosse il perfetto spuntino prelibato. «Ho pagato tanto per te, Eros. So quanto vali e mi aspetto la migliore notte della mia vita.»
«Lascia fare a me, tesoro.»
𖣔𖣔𖣔
Era stanco. Aveva bisogno di fumare e dimenticare tutto per l'ennesima volta. Si incamminò giù per le scale, fino a raggiungere il retro del locale. Si appoggiò con la schiena contro il muro e prese un grosso respiro. Alzò lo sguardo verso le stelle. Ammassi infuocati distanti anni luce e insensibili. Guardavano lo scorrere delle loro vite con assoluta e fredda indifferenza.
La sua attenzione fu attratta da un corpo in uno dei cassonetti dell'immondizia. Indossava ancora la divisa dell'esercito dell'Akademie. Aveva sempre sognato farne parte, ma al test non fu considerato idoneo a nessuna divisione. «Ma che cazzo-» Osservò il cranio spaccato, ancora grondante di sangue.
Iniziò a tremare, quando una brutta realizzazione si fece largo in lui. Non aveva testimoni né abbastanza denaro per difendersi e dimostrare di non aver toccato nessuno. Di colpo la sua vita gli si prefigurò davanti come un vecchio film: omicida, assassino, possibile Procreatore ma ormai sterile. Inutile puttana da poter giustiziare. Era il capro espiatorio perfetto. Gli mancò il fiato. Sudava freddo. Le mani tremavano. Non poteva scappare, lo avrebbero trovato col chip impiantato. Aveva firmato un contratto: ormai apparteneva a quel posto, a quel locale. Non era più un essere umano ma un mero burattino nelle mani di Poul.
Dove avrebbe potuto scappare? Non aveva un posto dove andare, né abbastanza soldi. Per un attimo maledisse la sua tossicodipendenza.
«Meglio che torni dentro, dolcezza. Ti conviene.» Una figura incappucciata avanzò nella sua direzione. Eros individuò la maschera metallica sporca di macchie rossastre. Ora non ci voleva un genio per capire che fosse l'artefice di quell'omicidio. Il suo cervello impiegò poco a realizzare che quello fosse Thanatos.
Pensava fosse più una leggenda delle fogne, raccontata ancora dai pochi ribelli per intimorire le guardie e dare un volto fittizio ai loro omicidi. Adesso che invece quel demone era lì di fronte a lui, sentì le gambe farsi molli dalla paura, così tremendamente simili a gelatina.
«Dovrei chiamare le guardie-»
Thanatos gli afferrò il polso, tirandolo a sé. Riuscì solo a fissare quegli inquietanti occhi rossi della maschera. «Adesso tu te ne torni in quel locale di merda e ti fai così tanto che questa sera neanche la ricorderai.» Lo strattonò, spingendolo lontano.
«Quindi non vuoi uccidermi?»
Thanatos si voltò a guardarlo, spostando la sua attenzione dal corpo della guardia a lui. «Ne ho motivo?»
Eros deglutì. «Se chiamassi una delle guardie lì dentro, ti prenderebbero.»
«Non mi troverebbero e accuserebbero te, piccola puttana.» Si appoggiò alla parete. «Senti, sarei un tantino impegnato. Perché non vai a sballarti? Si vede che la dose di prima ha già finito i suoi effetti.» Thanatos tornò a ignorarlo. Sfilò un fiammifero e lo lanciò nel cassonetto, soffermandosi a osservare le fiamme con attenzione.
Eros sospirò piano. L'ennesimo corpo bruciato di una delle guardie del governo. Non capiva l'esigenza di prendersela con persone che eseguivano solo ordini. Erano burattini almeno quanto lui, se non fosse che per tutta la vita a loro erano stati insegnate le leggi e i precetti del loro mondo. Non avevano conosciuto mai altre realtà. «Se mi uccidessi, sarebbe meglio» mormorò a tono basso. Si infilò di nuovo nel locale, allungandosi verso il bancone. Aveva bisogno di bere qualcosa di forte.
Non aveva idea di quante ore fossero trascorse, ma quello era il solito giorno della settimana in cui le serate sembravano non concludersi mai.
Eros avrebbe voluto che quella notte finisse il prima possibile. A quanto pareva, però, si sbagliava di grosso, perché dieci guardie del governo fecero il loro ingresso dopo qualche ora.
Di colpo si ritrovò a tremare. E se avessero scoperto che era tutta colpa sua? Erano lì per arrestarlo? Si portò una mano al petto e corse via, nel suo camerino. Aveva solo bisogno di un'altra striscia. Si accucciò contro la scrivania, ignorando il proprio riflesso, che ancora una volta gi avrebbe ricordato il povero perdente che stava diventando.
Inalò e tirò su col naso l'ennesima droga. Con un sospiro, si accasciò a terra, contro la porta, e socchiuse gli occhi. Drogarsi era l'unico modo per sopravvivere in quell'esistenza dai tratti oramai confusi. Eros si chiedeva fino a quanto avrebbe dovuto resistere. Era solo, ormai. Le lacrime gli pizzicarono gli angoli degli occhi e la paura gli strisciava sotto pelle, mangiucchiando e divorando le sue ultime speranze.
Si lasciò sfuggire un singhiozzo. Alzò lo sguardo verso l'angolino del suo specchio, dove una foto era incastonata come un piccolo oggetto prezioso.
Era felice, in quell'immagine. Era insieme ai suoi due migliori amici. Si abbracciavano e i loro sorrisi sembravano splendere.
Eros ricordava bene quel giorno. Avevano deciso di tenere il loro destino tra le mani. Erano pronti a sottoporsi all'operazione di annientamento. Non sarebbero più stati fertili e avrebbero smesso di contribuire ad alimentare un mondo a cui non importava davvero dei loro sogni e aspirazioni.
Fece un mezzo sorriso. A volte gli sembrava di riuscire ancora a sentire le loro voci. Jayden e Kiara. Erano così uniti. Singhiozzò forte e si ritrovò a ridere poi di se stesso. Rideva come un idiota. Sentiva la loro mancanza, ma era solo come un cane e, forse, se lo meritava. Nell'ultima rivolta era riuscito a sfuggire all'attacco delle guardie e aveva perso i suoi migliori amici, che invece avevano combattuto come dei veri eroi.
Era un vigliacco.
E sarebbe morto come tale.
Aveva preferito scappare per cosa, poi? Tenersi in vita? E quella? Poteva davvero definirla tale, alla fine dei conti?
Era un codardo, la sua paura era ossidata nel midollo, nel suo sangue. Cercava la morte nel fondo di una bottiglia o nel dolore dell'ennesima droga, perché non aveva neanche il coraggio di metter fine a quella pagliacciata di esistenza.
Provò a strisciare all'in piedi, appoggiandosi alla porta. Barcollò verso il bancone del locale, per bere ancora, quando una delle guardie gli andò incontro.
Sulla divisa nera scintillava una spilla dorata a forma di sole come il simbolo del governo. Eros trovava paradossale, però, che chi deteneva il potere si nascondesse nell'ombra, mostrandosi solo di tanto in tanto ai notiziari. Ma la prima cosa che attirò la sua attenzione fu una lunga cicatrice a spaccargli il lato sinistro del volto. Partiva dalla palpebra fino ad arrivare al collo; il resto, poi, era nascosto dal colletto della divisa.
Si voltò verso l'uomo che, a giudicare dalle medagliette sulla divisa e le spalline a indicarne il grado, doveva essere il comandante. «Posso fare qualcosa per te, dolcezza?» Accarezzò una delle medagliette, facendola tintinnare con le altre.
L'uomo arricciò il naso infastidito. «I miei colleghi chiedono del proprietario.»
Eros deglutì. Poul non era un uomo nella sua mente, ma un mostro che si nutriva delle loro anime e dei loro corpi -soprattutto il suo. «Per?»
«Vogliono la compagnia della migliore delle sue ragazze.»
Eros annuì. Fece un cenno al barista. Raphael si strinse nelle spalle e, tenendo il capo chino, si allontanò a chiamare Sylvie. Loro tre erano sempre stati uniti, forse perché avevano iniziato a lavorare insieme anni prima. Ogni volta che o lui o Sylvie dovevano entrare in scena, Raphael si rattristava. Una volta aveva provato a intervenire, ma Poul lo aveva quasi ucciso dai pugni. Eros gli aveva assicurato che non sarebbe più successo, che aveva imparato la lezione.
Osservò, insieme al Comandante, tre uomini allontanarsi in compagnia di Sylvie verso uno dei salottini privati e un senso di profonda vertigine lo avvolse. Sentì la paura ossidargli le vene ed ebbe quasi l'esigenza di vomitare. Gli girava la testa, ma mandò giù l'ennesimo groppone acido di quella serata del cazzo di una giornata del cazzo di una settimana del cazzo di una vita del cazzo.
«Posso fare qualcosa per te, Comandante? Cerchi qualcuno con cui divertirti anche tu, forse?» Gli porse un bicchiere di alcol, utilizzando la sua voce più suadente. Percorse con l'indice le venature della mano, risalendo su per il braccio.
L'uomo lo osservava in silenzio, studiandolo con degli occhi scuri come buchi neri. Teneva i capelli corvini tirati all'indietro dal gel, ma non parlò per qualche istante. Si limitò a mandare giù il bicchiere, per poi tornare a scrutarlo. «Tu saresti?»
«Sono quasi offeso che tu non mi conosca, dolcezza.» Abbozzò un inchino, rischiando di ruzzolare a terra per tutta la droga assunta, ma il Comandante lo afferrò, prima che si schiantasse sul pavimento come un moscerino. «Il mio nome è Eros, qui non c'è anima viva che non mi desideri.» Si allungò per sfiorare il suo collo con le labbra.
«Djævel.» Storse il naso. Gli posò una mano sul petto, allontanandolo appena. «Sei fatt-»
«Djævel!» Un'altra guardia andò loro incontro. Il diretto interessato scattò come un giocattolo a molla, facendo un gesto militare. «Generale.»
«Andiamo, perché non ti distrai un po'?» Il Generale ridacchiò. Poi rivolse un'occhiata fugace ad Eros e un ghigno gli si dipinse sull'espressione anonima. Assestò una gomitata al fianco di Djævel, che sbuffò infastidito, la cicatrice si contorse quasi in maniera inquietante. «Assurdo tu non conosca Eros!» Singhiozzò, chiaramente ubriaco. «So che con la Procreatrice state avendo problemi, ma perché non ti diverti un po'? Pensaci tu, forza.» L'uomo posò delle banconote nel taschino della camicetta semi sbottonata.
Eros sogghignò. Prese Djævel per il polso e lo trascinò fino al proprio salottino riservato. Il Comandante lo seguiva confuso, stordito per reagire. Eros si richiuse la porta alle spalle e prese un grosso respiro. Poteva farcela. Certo Djævel era molto affascinante, ma non aveva il coraggio di farsi toccare, non ancora.
«Come posso accontentarti, caro?» Gli accarezzò il collo con i polpastrelli, avvicinandosi appena a lui per lasciargli una scia di baci umidi lungo la gola. Cercò di trattenere i tremolii che avevano iniziato a percorrere tutto il corpo come una scarica elettrica.
Djaevel trattenne il fiato poi lo spinse all'indietro, facendolo cadere sul materasso. Eros socchiuse gli occhi. Era solo il solito copione. Doveva star calmo e fermo. Presto tutto sarebbe passato e sarebbe tornato alla normalità. Avrebbe finto di star bene. Si girò per dargli la schiena. Come al solito. Trattenne le lacrime che gli premevano agli angoli degli occhi.
«Che stai facendo?» Djævel si sedette sul bordo del materasso. «Ti senti bene?»
Eros si voltò di scatto a guardarlo. Non poteva piangere. Se il Comandante si fosse lamentato con Poul, sarebbe stata la fine. Non doveva succedere. Si allungò a premere le labbra su quelle di Djævel, che lo allontanò con uno strattone. «Ma che cazzo fai?»
Eros aggrottò la fronte confuso. Non era quello che si aspettava. Forse non voleva che lo baciasse, d'altronde era pur sempre una specie di escort, poteva trovarlo ripugnante da baciare. Si inginocchiò ai suoi piedi, rannicchiandosi tra le sue gambe. Deglutì, mandando giù la bile acida che aveva preso a raschiargli la gola.
Provò a sbottonargli i pantaloni e calargli la zip, ma Djævel gli scostò via la mano e si tirò di scatto in piedi.
«Scusa, dolcezza, ma mi confondi. Se mi dici cosa ti piace, ti accontenterò. Vuoi legarmi, forse?»
«Cosa?!» Djævel lo guardò male. «Senti, è stato il mio collega a pagarti per me, ma io-» Sospirò, passandosi una mano sul volto, «io no. Non mi va.» Si lasciò cadere sul materasso. Intrecciò le mani dietro la nuca, tenendo lo sguardo fisso sul soffitto.
Eros sospirò piano. Forse gli era grato. Si distese al suo fianco, di colpo rilassato. Ebbe la sensazione che tutti i suoi problemi fossero scomparsi per un istante. Si posizionò poi su un fianco, prendendo ad osservare la figura di Djævel.
Uno accanto all'altro restavano in silenzio. La luce fioca dei lampioni giallastri della strada filtrava dalle tende semiaperte, rivelando il contorno delicato delle loro figure. Il silenzio si faceva strada, rotto solo dal soffio regolare del respiro di entrambi. Seguì la cicatrice argentea. Eros sollevò delicatamente la mano e la posò sulla guancia di Djævel, seguendo con il pollice la traccia della sua cicatrice, quasi argentea. La pelle sotto le sue dita era calda. «Perché mi hai fermato?»
«Stavi tremando.» Djævel socchiuse gli occhi, cercando di regolarizzare il respiro.
Eros sospirò piano. Sapeva quanto il Governo non fosse a favore dei rapporti tra uomini, non aiutavano nel programma di ripopolazione dopo l'Incidente. Eppure ce n'erano molti che andavano in quel locale a divertirsi, lontani dalle regole della loro città. Ciò che succedeva nel Club, restava nel Club.
La mano di Eros divenne un delicato ponte tra loro. «Grazie.»
«Perché lo fai?»
«Sono sterile. E l'Akademie non mi ha accolto, all'epoca. Non avevo soldi e nessuno voleva assumermi. Poul mi ha voluto dall'inizio. Diceva che fossi bellissimo.»
Djævel lo sbirciò per un istante. «Gli hai venduto l'anima?»
Eros si sentì bruciare dalla vergogna. Non rispose, limitandosi ad annuire con un cenno del capo.
Delle urla li fecero sussultare entrambi. Djævel scattò in piedi. Corse via dal salottini, riversandosi nei corridoi. Eros lo tallonò come un segugio e si raggelò sul posto quando li vide.
Sylvie piangeva a terra, rannicchiata su se stessa. Del sangue le scorreva tra i capelli biondi. «Vi prego... basta» mormorò tremante.
Le tre guardie, che si erano allontanate con lei, si stavano sistemando i vestiti, lamentandosi tra loro. «E questa sarebbe la migliore delle puttane qui dentro?»
«Andiamo, stronza, alzati.»
Eros fece un passo in avanti, ma Djævel lo tirò all'indietro, prendendogli il polso.
«Cosa succede qui?» il Generale li raggiunse.
«Meglio che ce ne andiamo.» Djævel storse il naso, ma pochi istanti dopo Raphael avanzò nella loro direzione. Non appena vide Sylvie in quelle condizioni, le corse incontro, travolgendola in un abbraccio. Le si inginocchiò accanto, mettendosi a sua completa protezione.
«Che cazzo le avete fatto?! Bastardi!»
Il generale lo colpì con un pugno in pieno volto. Il sangue sporcò il pavimento. Eros si sentì morire. All'improvviso gli sembrava di essere catapultato indietro nel tempo. Rivedeva i suoi amici morire tra la folla, sotto le manganellate e i colpi delle guardie.
«Signori!» Eros rabbrividì riconoscendo la voce di Poul. Il proprietario del locale si avvicinò, tenendo un sigaro pendente tra le labbra. I suoi occhi cerulei li studiavano tutti con attenzione. Guardò con odio Raphael e digrignò i denti. «Mi dispiace che il mio barista vi abbia dato problemi. E anche Sylvie. Forse era stanca, ma vi assicuro che in altre occasioni sarà davvero buona con voi, Generale.» Rivolse poi uno sguardo gelido alla ragazza. «Non è vero?»
Lei annuì, trattenendo i singhiozzi. Dei lividi violacei iniziavano a macchiarle la gola; Eros riconobbe i segni delle dita al collo e strinse i pugni così forte da affondare le unghie nei palmi.
«E per Raphael, non sarà più un vostro e mio problema.»
Eros sentì la presa di Djævel allentarsi sul suo polso, quando Poul puntò la pistola contro la nuca di Raphael e un colpo secco risuonò nel silenzio generale. Il Generale fece un sorrisetto soddisfatto, mentre le urla e i singhiozzi di Sylvie rimbombavano come un'eco inquietante per tutto il corridoio.
«Apprezziamo la sua disponibilità» Il Generale gli strinse la mano. Fece cenno poi agli altri di andarsene.
Eros non riusciva a staccare lo sguardo dal corpo senza vita dell'amico. L'ennesimo morto a causa sua e della sua codardia. Le lacrime gli rigavano le guance, mentre osservava il sangue macchiare il pavimento, scorrere come acqua in un ruscello.
Vide dal riflesso dello specchio Djævel osservarlo un'ultima volta, prima di allontanarsi definitivamente con i suoi colleghi.
«Pulite questo schifo.» Poul soffiò il fumo in faccia ad Eros, lasciandolo poi solo.
Solo con quel che restava di Sylvie e di Raphael.
𖣔𖣔𖣔𖣔
Angolino
Ed eccoci qui con un inizio tranquillissimo 💀
Vorrei dirvi che gli altri capitoli saranno rilassanti, ma no.
A domenica prossima (o venerdì, dipende dai risultati del sondaggio)
Grazie per essere qui💜
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