𝙍𝙞𝙘𝙤𝙧𝙙𝙞
❀*̥˚ 𝘒𝘢𝘮𝘪𝘯𝘢𝘳𝘪 ˚*̥❀
Warning:
- Violenza
❀
-Cosa vuoi?-
Borbotta Kaminari con la bocca impastata, con i capelli stretti tra i palmi e le dita, inginocchiato al suolo e raccolto in posizione fetale verso il nulla se non il muro scuro della sua stanza in penombra.
Fuori il cielo è macchiato di stelle e di sputo, si mostra timido attraverso i vetri opachi delle finestre aperte, sembrando fatto di polvere fina destinata a depositarsi al suolo con l'arrivo dell'alba.
Nemmeno la luna ha il coraggio d'apparire per fare luce nella camera polverosa e dimenticata di quel povero diavolo, preferendo lasciarlo al buio con il pavimento a spaccargli le rotule arrossate delle sue ginocchia tremanti.
Al giovane capita spesso di ridursi così, di svegliarsi prima del sole solo per rendersi conto di non poter sfuggire dai suoi incubi: che poi, saranno davvero incubi?
Le sue mani grondano sangue, la sostanza viscosa gli lega le dita impedendogli di muoverle, facendogli sporcare le ciocche chiare e le gote affilate, donandogli i colori caldi di cui la sua melanina l'ha sempre privato, bruciandolo al sole e cancellandolo all'ombra.
Ha le nocche spaccate, coperte di ematomi violacei ma verdastri verso il bordo, probabilmente sono fatti così, gli provocano un dolore sordo ma nemmeno tanto spiacevole quando li tocca, rendendolo incredulo nel provare sofferenza senza che quelle ferite esistano realmente.
Gli fanno male le braccia, che non rispondo al suo volere limitandosi ad essere carne e muscoli, sfruttati fino a diventare latte e pelle.
Ma, soprattutto, gli fa paura il mattone sporco di sangue ai suoi piedi, talmente lo terrorizza da ridurlo ad un pietoso essere ritorto su se stesso, singhiozzante e lamentoso.
Seduto al suolo, caduto dal letto, con il volto percorso da lacrime opache e la bocca storta in singhiozzi lucidi: no, tanto non è reale.
"Ho ucciso un uomo, ho ucciso un uomo."
Grida nella sua testa e certe volte lo grida davvero, facendo accendere qualche lume nella notte, facendo svegliare qualche ascoltatore esterno e curioso.
Grida nella veglia ma poi ghigna nei suoi sogni, in quelli che gli infestano la testa fino a farlo dubitare di cosa sia vero e di cosa sia solo immaginario.
Ride e si spacca la pelle per la gioia nel suo onirico mondo, mentre spacca il cranio di chi gli sta sotto a mattonate.
Tonfi sordi e colpi nitidi in quegli incubi distanti, in quei deliri di cui lui non è il proprietario.
Ogni volta che abbassa il braccio quella testa estranea si abbozza e si deforma, silenziosa ma scrocchiante, accartocciandosi pian pian come fosse carta stagnola nel pugno di un infante.
Perdendo forma prima di spaccarsi come un delicato calice di cristallo, prima di ridursi a brandelli come la tela sottile del ragno.
Scarnifica la sua vittima, con la rabbia cieca e le unghie corte la graffia e gli strappa lembi di pelle fino a farsi bruciare le mani, fino a diventare cieco lui stesso circondandosi di schegge d'ossa e corone di cervella: reso santo nel peccato.
Ma non è lui, Denki lo sa che non è lui, perché quando cade dal letto in preda ai deliri sa che tutto quello non è mai successo.
Non è un sogno ma nemmeno la realtà, è un qualcosa di solido come lo sarebbe un ricordo ma gelatinoso al tatto perché troppo distante per appartenergli, così sconosciuto da non risiedere nemmeno nell'oblio della sua memoria.
Allora, con la voce inzuppata e strizzata dal pianto, alza il volto al suo cielo fatto di soffitto e chiede di chi sia la colpa, senza fiato e con gli arti morti chiede di chi siano quei ricordi:
-Chi sei?
Cosa c'entro io con tutto questo?
Perché le mani sporche di sangue sono le mie, se i ricordi sono i tuoi?-
Ed intanto le sue ginocchia sgraffiate ed ossute giacciono nel sangue, accarezzate dallo scivolare lento della vita e lenite del gelo.
Batte i palmi al suolo, per non sentire nulla sperando d'essere ancora in un incubo, ma il viscido rumore delle cervella gli riempie i timpani, facendogli nascere moti di vomito nella gola arida.
L'ansia gli intasa la bocca e gli cuce le tonsille, stringendo le pareti della sua trachea come se fosse l'orlo di una gonna, cucendogli la pelle con la stessa freddezza con cui lui ha privato la sua vittima della vita.
Passa la punta sporca della proprie dita magre sulla faccia rivolta verso il soffitto del mattone, toccandolo incerto e con il fiato sospeso, potendolo sentire solido e pesante contro la sua pelle nonostante sia invisibile ai suoi occhi senza sonno.
Ne sfiora la superficie cruda e grezza, ne sente la ruvidità vibrando teso perché ogni dettaglio è sempre più vivido, sempre più lucido alla sua vista.
Boccheggia movendo le labbra senza parlare, dando fiato ad un muto discorso che parla di tutto e di niente, un monologo nato solo per rovinargli il bel viso da bambino mentre prende quella pietra tra i piccoli palmi chiari:
-Cosa ti ho fatto?
Io non voglio tutto questo, questo è colpa tua, nessuna delle tue azioni mi appartiene.
Riprenditeli, riprenditeli, riprenditili.-
Prega prima in un sussurro e poi in un urlo, arricciando il naso e serrando gli occhi in un'espressione furente per quanto stanca, nata da un movimento statico e nervoso che gli scorre lungo il busto e poi gli stringe i polsi, fino a fargli perdere sensibilità alle mani:
-Riprenditeli!-
Grida un'ultima volta, come un folle che annuncia la fine del mondo in piazza, sbattendo il mattone sul pavimento della propria stanza, rovinandone il disegno geometrico e facendo saltare alcune schegge di marmittoni in più direzioni:
-No, vattene via, non voglio più sentire le tue stupide urla!-
Solleva di scatto il busto dal proprio materasso un uomo dal volto cotto dal sole, segnato dalle rughe dei suoi cinquant'anni e macchiato dalla stanchezza, dalla la fronte imperlata di sudore freddo e le labbra tremanti.
Un palmo rovinato e delle unghie scheggiate gli stringono la maglietta all'altezza del cuore, accartocciandola nella speranza di poter calmare così il suo violento respiro.
Un singhiozzo amaro spezza le sue urla e gli inumidisce le gote coperte di barba, costringendolo a piegarsi sulle proprie ginocchia per assecondare quegli spasmi di tristezza:
-Per favore tienili tu, almeno i ricordi tienili tu.-
Mormora roco passandosi le dita sugli occhi serrati e rossi di stanchezza, scuotendo la testa in quella stanza dalle pareti striate di scarlatto.
In quella stanza dal tappeto impregnato dell'odore dolciastro della putrefazione.
Angolo autrice
A tutti voi che non sapete cosa stia succedendo: beh, nemmeno io lo so, quindi daje.
Fa schifo, è una trashata senza senso e senza un minimo d'approfondimento psicologico, ma a me andava di scrivere una roba mezza creepy perché altrimenti non lo posso fare mai ed io volevo poter appagare questo mio desiderio.
Comunque, qui abbiamo Kaminari che ogni notte viene perseguitato dalla stessa allucinazione fin troppo vivida, che però sembra essere una cosa diversa, più simile al ricordo di un qualcosa che però lui è sicuro di non aver mai fatto.
Ma, se da una parte Kaminari soffre pregando il proprietario di riprendersi questi suoi ricordi, quest'ultimo si rifiuta di accettare quello che ha fatto continuando a lasciare che Denki soffra mentre lui si limita a non ricordare, nonostante ancora abbia il cadavere nella sua stanza (questa cosa non l'ho spiegata bene, ma non volevo dilungarmi troppo e comunque non è una cosa necessaria).
Insomma:
trama? Zero
Senso? Zero
Divertente da scrivere? Assolutamente no
ma vi giuro che la prossima sarà migliore (bugia).
Spero che vi sia piaciuto e se così fosse lasciate una stellina.
Ve se ama
Teddyhuman
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