[go] blueming

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💿 nei media: blue skies, blue seas - idealism





The loneliness that
wraps around keeps 
deepening until I 
drown しニニ押イー えみぢゆ 











BLUEMING



Che rumore fanno le onde del mare? Ho mai ascoltato il canto dell'oceano quando abbraccia la riva con le sue mani ricoperte di spuma e salsedine? Per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare. Cammino scalzo su questa sabbia bianca e sottile, ma non la sento sotto i piedi. Mi sembra di fluttuare. Da quando la spiaggia è così deserta, così silenziosa? Da quanto tempo sono qui? Il mare non mi parla, non ha voce per quelli come me. Lo osservo ancheggiare, imponente e sensuale, contro la costa, infrangersi sugli scogli e ritirarsi con timidezza. Maledico i miei occhi, perché sono capaci di vedere. Che senso hanno tutti questi colori, se sono sordo di fronte ai suoni della vita? Che senso ha tutta questa luce, se accanto a me non c'è nessuno a cui possa spiegare l'oscurità? Qual è il senso del mare se non posso sentirne il profumo?

Ma
davvero
sono
ancora
vivo?

Un rumore. Un vetro che s'infrange. Un grido di donna e una porta che sbatte. Poi, il silenzio. Mi svegliai dal mio sonno perpetuo e spalancai gli occhi. Nella realtà sentivo ogni cosa, ma se avessi potuto mi sarei strappato via le orecchie pur di non ascoltare. Era crudele. Persino la mia mente era crudele con me. Nei miei incubi non c'erano demoni, ma oceani silenziosi, melodie atone, e una muta solitudine. Né sangue, né morte ad abitare le mie fasi REM. Non era di quello che avevo paura. Ciò che temevo di più era uscire allo scoperto, tornare finalmente alla vita e non essere in grado di viverla. Avevo paura di essere in ritardo, di aver aspettato troppo e di non riuscire ad abbattere le mura della prigione che, mattone dopo mattone, avevo costruito con le mie mani.

Dormivo sedici ore al giorno e anche da sveglio continuavo a fantasticare ad occhi aperti. Quando mi svegliavo, ogni cosa intorno a me era blu. Lo erano il mio letto, le pareti della mia camera, il pavimento, il cielo aldilà della mia finestra chiusa. Blu erano i miei pensieri, le mie paure, le mie emozioni. Il blu non era più un colore per me, ma uno stato d'animo. E lo odiavo.

Quando mi dimisero dall'ospedale con venti punti sul braccio sinistro, tutto tornò come prima. La mia stanza era ancora il mio rifugio, io ero un sempre un emarginato e mio padre mi evitava. Avevo fatto una promessa a Okaasama e la stavo infrangendo. Tutti i medici a cui si era rivolta chiedevano che mi recassi nel loro studio per iniziare la terapia, ma io mi ero rifiutato ogni volta.

Mia madre dimagriva in modo preoccupante. Giorno dopo giorno la vedevo sparire dentro i suoi vestiti profumati. Le ossa della schiena erano così sporgenti che avrei potuto contarle le vertebre. Anche se rispondeva con un sorriso comprensivo ad ogni mio rifiuto, sapevo che i miei "no" la stavano uccidendo. Ne cercherò altri, mi diceva. Non ti devi preoccupare, troveremo qualcuno che faccia al caso nostro. Ma la verità era che anche lei stava perdendo le speranze.

Il mio fallace tentativo di suicidarmi doveva aver risvegliato in lei il coraggio che le era sempre mancato per affrontare mio padre e la sua tirannia. Non riusciva neppure a guardare la mia cicatrice senza scoppiare a piangere, fragile donna qual era, ma quando tornammo a casa si ribellò a mio padre con tutte le sue forze. Mi aveva protetto con il suo esile corpo dall'ira dell'uomo che aveva visto suo figlio - il suo unico figlio - sfiorare la morte con le dita, e che mi disprezzava persino più di prima. Erano settimane che mia mamma si scontrava con lui per difendermi, per fargli capire i miei problemi, ma lui finiva sempre per riversare la sua rabbia su qualsiasi cosa si trovasse a portata di mano. Dopo i litigi usciva, sbatteva la porta alle sue spalle e non tornava a casa.

L'aveva fatto anche quel giorno. Ne ero certo. Mi strofinai gli occhi più volte per ritrovare la lucidità e accesi la luce. Più tempo passavo in isolamento, più perdevo le forze. Ero stanco. Avevo sempre sonno e il mio corpo chiedeva continuamente un riposo che non mi bastava mai. Mi alzai a fatica dal letto e avanzai a passi lenti fino alla porta. Avvicinai un orecchio alla gelida superficie di legno e, mentre mi sforzavo di capire se mio padre fosse ancora in casa, qualcuno bussò. Quel suono delicato era inconfondibile per me. Mia madre mi avvisava sempre prima di entrare e lo faceva con una dolcezza disarmante.

Aprii la porta e le chiesi: «Se n'è andato?».
«Sì» rispose prendendomi la mano.
«Stai bene?».
Annuì, accennando un sorriso, ma il suo viso diceva tutt'altro. Le strinsi la mano e cercai di trasmetterle con lo sguardo tutto il mio amore e la mia gratitudine, perché la voce mi mancava.
Mia madre ricambiò la stretta e mi tirò a sé.
«Dai, vieni. Stasera ceniamo insieme, ti preparo qualcosa di buono».

Mangiammo come una famiglia normale per la prima volta dopo tanto tempo. Per l'occasione mia madre aveva cucinato il mio ramen preferito e gli onigiri al salmone che mi metteva nel bento quando frequentavo le elementari. Fu come tornare bambino e per un attimo pensai al Giappone. Sarebbe stato bello poter fuggire lì con lei, in quella terra che non mi era mai stata avversa.

«Jungoo, oggi ho parlato con uno psicoterapeuta, il dottor Kim. Ha accettato di iniziare la terapia a distanza» mormorò mia madre. Nei suoi occhi brillava una preghiera silenziosa.

Annuii impercettibilmente, evitando il suo sguardo. «Cosa devo fare?» chiesi osservando il mio ultimo onigiri. Me lo rigirai nervosamente tra le mani, mentre i chicchi di riso mi restavano appiccicati tra le dita.

«Niente che tu non voglia fare» rispose, sporgendosi sul tavolo e dandomi un bacio sulla fronte. «Ha detto che puoi chiamarlo quando vuoi, a qualsiasi ora, e deciderete insieme le modalità con cui iniziare questo percorso. È un uomo molto gentile e si occupa soprattutto di ragazzi». Mi rivolse un sorriso rassicurante.

Annuii e lasciai scivolare l'onigiri nel piatto. Il solo pensiero di dover parlare con un estraneo al telefono mi dava la nausea. «Grazie, Okaasama. Era tutto buonissimo, ma sono pieno. Lo mangerò domani a colazione».

Il sorriso raggiante di poco prima sfiorì sulle labbra pallide di mia madre e i suoi occhi scuri si riempirono di lacrime. «Ti prego, Jungkook» mormorò con voce rotta. «Almeno provaci».

Mi mordicchiai il labbro inferiore, affondando i denti nella carne fino a sentire il sapore metallico del sangue sulla punta della lingua.

Hai promesso, Jungkook. Ora basta fare il codardo.

Mi avvicinai a lei e le asciugai il viso con le maniche della felpa, prendendomi cura di lei come aveva fatto con me in ospedale. «Va bene, Okaasama. Lo chiamerò qui, davanti a te. Non piangere, per favore».

Le braccia smunte di mia madre mi strinsero in un abbraccio, e di nuovo lasciai che il tepore del suo corpo cancellasse le mie paure.

Ci sedemmo fianco a fianco e composi il numero. Gli squilli del telefono erano fin troppo lenti per il mio cuore impazzito. Le mani mi tremavano. Mia madre lo notò e intrecciò le nostre dita. Eravamo entrambi spezzati, distrutti dal dolore, ma insieme riuscivamo ad andare avanti, forti l'uno dell'altra.

«Pronto? Studio del Dottor Kim». La voce dall'altro capo del telefono era profonda, ma il tono era tranquillo e gentile. Sospirai e mi voltai a guardare mia madre. Sarà come parlare con lei, fingerò che sia lei, mi dissi.

«S-salve» balbettai con voce tremante. «Sono Jeon Jungkook, il figlio di Mei Kawabata».

Il dottore sembrò sorpreso di sentirmi. «Ciao, Jungkook. Piacere di conoscerti, sono il dottor Kim». Pronunciò quelle parole come se stesse sorridendo e mi chiesi quanto sapesse della mia situazione. Probabilmente mia madre gli aveva già raccontato tutto e provava compassione per me.

«Innanzitutto, ci tengo a dirti che sono orgoglioso di te per avermi chiamato. Sono qui per aiutarti, è vero. È il mio lavoro, dopotutto. Quello che mi sta a cuore, però, è che tu ti senta a tuo agio con me. Vorrei che non ti forzassi a fare niente contro la tua volontà. Quindi, se stare al telefono con me in questo momento diventa troppo difficile, ti prego di farmelo sapere e io farò un passo indietro. D'accordo?».

Per un attimo pensai davvero di dirgli che stavo tremando e che quella conversazione avrebbe abitato i miei incubi per giorni, ma lo sguardo speranzoso di mia madre me lo impedì. Sospirai e risposi in un soffio: «No, sto bene. Continui».

Il dottore tacque per qualche secondo. Poi, come se avesse riflettuto a lungo, mi disse: «Jungkook, voglio che tu sappia che non sei in terapia per la tua scelta di isolarti dal mondo. Quella è una tua decisione, io la rispetto e non ti giudico. Siamo qui per capire il motivo per cui stai soffrendo e per aiutarti con i tuoi attacchi di panico. Io posso prescriverti le medicine, darti una mano con gli esercizi, ma soltanto tu hai il potere di tirarti fuori da quella camera».

Alzai gli occhi al soffitto e le mie labbra si distesero in un sorriso amaro. «Io vorrei uscire, non immagina quanto» risposi in un sussurro.

Neppure lei mi capisce, dottore. Farò tutto quello che mi dirà, lo farò per mia madre. Ma lei non sa cosa significa sentirsi morto in un luogo abitato dai vivi, sentirsi blu in un mondo tinto di un rosso accecante. Non lo capirà mai.

«Allora faresti un primo passo per me, Jungkook? Non ti chiedo di uscire, di parlare al telefono con altre persone. Ascolta. Mi piacerebbe che entrassi nella chat dei ragazzi che ho in terapia. Io non ne faccio parte, non leggo i loro messaggi, lascio che si supportino a vicenda, perché in certi casi soltanto chi vive il tuo stesso incubo può darti conforto».

A quelle parole, rabbrividii e mi chiesi se avessi formulato i miei pensieri ad alta voce senza rendermene conto.

«Ci sono altri ragazzi come te, sai? Se credi di essere il solo a vivere tutto questo, ti sbagli di grosso. Lì fuori ci sono centinaia di migliaia di hikikomori e stanno tutti lottando contro i tuoi stessi demoni».

Quella frase mi colpì come uno schiaffo in pieno viso. C'erano davvero ragazzi come me? Ne erano usciti? Come avevano ricostruito il loro futuro? La mia mente formulava una domanda dopo l'altra, mentre valutavo la proposta del dottore. Una parte di me non voleva farlo, ero terrorizzato dall'idea di avere una conversazione con altre persone, seppur virtualmente. Un'altra parte di me, invece, desiderava comprensione e supporto da qualcuno che capisse davvero il mio stato d'animo.

Dovetti restare in silenzio troppo a lungo, e il dottore lo interpretò come un assenso. «Ti manderò il link per accedere alla chat di gruppo, ma ricorda che non c'è nessun obbligo. Sei tu a decidere, Jungkook. Per oggi mi congratulo con te, perché sei un ragazzo coraggioso e lo hai dimostrato. Ci sentiamo domani, d'accordo?».

«D'accordo» risposi distrattamente. La mia mente correva veloce come un treno e mi ritrovai a fissare il vuoto, sopraffatto dai miei stessi pensieri. Quando chiusi la chiamata, la notifica di un nuovo messaggio illuminava già lo schermo del mio cellulare. Il dottore era stato veloce. Mi aveva appena mandato il link per accedere a una chat su Kakaotalk.






Steso sul mio letto, fissavo il soffitto e ascoltavo la colonna sonora di Tokyo Ghoul, sussurrandola al buio pesto della mia camera come una ninnananna. Avevo trovato il coraggio di cliccare quel link soltanto alle tre del mattino, quando Busan dormiva e i miei interlocutori non avrebbero potuto notare il mio ingresso. Il cuore mi batteva ancora all'impazzata contro il petto e mi faceva male, ma erano mesi che non mi sentivo così vivo. Sorrisi all'oscurità. Poi, scoppiai a ridere. Il suono della mia risata squarciò il silenzio della notte. Se qualcuno mi avesse visto, mi avrebbe creduto completamente pazzo. E invece ero soltanto vivo, un ragazzo che rideva delle sue fragilità e della sue paure. Mi rigirai sul materasso e mi coprii il viso con le mani, vergognandomi della mia patetica vita.

Mi ero quasi addormentato, quando il cellulare vibrò sul materasso e lo schermo si accese, illuminando la stanza. Mi voltai a guardarlo e il respiro mi si bloccò in gola, facendomi singhiozzare. Lo fissai con gli occhi sgranati per qualche secondo, prima di alzarmi di scatto e leggere la nuova notifica.

kafkasullaspiaggia ti ha inviato un messaggio.
Tu devi essere il nuovo arrivato. È un po' tardi, a quest'ora non c'è nessuno online. Io sono Kim Taehyung, comunque. Benvenuto.

Kafka sulla spiaggia. Aveva scelto il titolo di un romanzo di Haruki Murakami come nickname. Lo trovai insolito, ma - dal momento che amavo quello scrittore - fui felice di avere argomenti in comune con qualcuno, per una volta. Cliccai sull'icona accanto al suo nome. La foto ritraeva un ragazzo e l'oceano alle sue spalle. I lineamenti gentili e vagamente bambineschi mi portarono a pensare che fossimo coetanei, ma osservando meglio il taglio marcato degli occhi e la sicurezza nel suo sguardo, capii che doveva avere almeno un paio d'anni in più. Aveva i capelli tinti di azzurro, come il colore vergine sulla tavolozza. Gli ricadevano sulla fronte simili alle onde del mare che s'increspano sulla battigia. Il sorriso era forzato, quasi esagerato sul volto, ma contagioso. Sorrisi di rimando. Che ragazzo strambo, pensai. Poi, quel pensiero si fece beffe di me. Oh, Jeon Jungkook, da quale pulpito arriva la predica.







The monster that 
you see ,
Is it a part 
of me? 移ぉ 汚横 ゾゃ若ズぢぢ










a/n

Avevo detto capitoli brevi e ho scritto più di duemila parole. Aggiorno sempre di giorno, ma adesso è notte. A quanto pare, è davvero tempo di cambiamenti, sia per me che per Jungkook! Comunque, ho scritto fino
a sentire dolore agli occhi.
Non trovo più i miei occhiali.

P. S. Finalmente il mio blue boy è arrivato.
Non vedo l'ora di parlarvene meglio🌊

Fatemi sapere cosa pensate del capitolo!
Ci tengo tanto alla vostra opinione✨

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