Andrew Thorne è un famoso scrittore che ha deciso di trasferirsi per qualche settimana in una tranquilla cittadina dell'Oregon lontana dal caos cittadino per concludere in santa pace la stesura del suo nuovo romanzo. Da quando si trova a Hanging Creek ha preso in gran simpatia uno dei locali presenti nei dintorni, ovvero la caffetteria Strawberries & Roses, ed è proprio lì che un giorno fa la conoscenza di un nuovo dipendente del caffè, Alex, il quale, oltre a rivelarsi un suo avido lettore, sarà anche quello che finalmente riuscirà a penetrare il suo testardo cinismo e a farlo ricredere su una delle cose verso le quali nutre più diffidenza e disillusione: l'amore.

Questa piccola storia è per Distance_Dream e mi scuso se ci è voluto più del previsto 😞 Contavo di finirla e pubblicarla tempo fa, ma... come sapete sono capitate cose molto spiacevoli, ultimamente, e solo ora sto provando a concentrarmi su altro per non impazzire dall'ansia che sto provando anche in questo momento. Mi sto sforzando di non ingozzarmi di telegiornale e articoli su articoli sul web e sui social che parlano della guerra in Ucraina e non per menefreghismo, ma... davvero, a un certo punto mi sono resa conto che dovevo smetterla e distanziarmi ogni tanto da tutto per non farmi soverchiare. Mi piange il cuore per ciò che sta avvenendo laggiù e mi fa star male sapere cosa potrebbe accadere nel peggiore degli scenari possibili, ma non penso, allo stesso tempo, che ingozzarmi di brutte notizie possa esser d'aiuto ai civili ucraini che stanno subendo i bombardamenti e gli effetti della guerriglia in corso. Se le cose dovessero sfuggirmi di mano, non mi aiuterebbe aver immagazzinato tanto di quel panico e di quel senso di impotenza e sì, anche rabbia, da sentirmi paralizzata e incapace di essere lucida. Mi sto distanziando perché voglio rimanere lucida, comunque le cose vadano a finire.
Ad ogni modo... mi era stata richiesta una storia ambientata in un mondo normale, dove Alex e Andrew sono persone comuni, e mi sono dovuta scervellare un pochino perché scrivere della normalità, almeno per quel che mi riguarda, è paradossalmente più difficile che scrivere di un intero macrocosmo dove esistono le divinità e la magia 🤦🏻‍♀️ Quindi per me era una sfida degna di nota e mi sono dovuta un po' scervellare per tirar fuori qualcosa che fosse comunque accattivante. Mi sono chiesta come avrei visto i due personaggi in una delle tante realtà alternative e... beh, ecco che mi sono figurata Andrew come uno scrittore di storie dell'orrore e Alex, invece, come una persona che è cresciuta in un contesto semplice e, come tanti altri giovani attuali, cerca di metter da parte dei soldi e di accumulare esperienza lavorativa partendo dalle basi. Il motivo per cui mi figuro un Andrew scrittore è semplice: nella storia canonica, ad esempio, ha un blog dove riversa i propri pensieri e inoltre, nella versione corretta ed estesa che sto ripubblicando, scrive persino per il giornale della scuola. È una persona creativa e lo si nota più volte nel corso degli eventi, quindi lo vedo fin troppo bene nei panni di un autore di best sellers. Quindi sono partita da qui e ho creato una trama appositamente per questo racconto composto da un singolo episodio e, come richiesto, da accenni hot 🤣  Spero solo di aver reso bene il tutto e che si riveli una lettura piacevole e... sì, anche una piccola e breve distrazione 💔 L'ho divisa in due parti e questa è la prima.

Un piccolo bonus, giusto per farmi perdonare anche così, è la grafica qui sopra. Spero che ti piaccia Distance_Dream! ❤️

Mentre reggeva il cellulare fra orecchio e spalla nel tentativo di raccapezzare qualcosa con ciò che stava cercando di scrivere al laptop, Andrew non poté far a meno di ricordare come mai avesse deciso di prendersi un periodo sabbatico rifugiandosi in quella piccola e pittoresca cittadina dell'Oregon: sfuggire a eventuali scocciature quali, ad esempio, parenti e amici che, seppur in buona fede, facevano a gara per distrarlo quotidianamente telefonandogli e portandogli via tempo prezioso che avrebbe potuto altrimenti convogliare nello sforzo di terminare il proprio romanzo.
Come se non bastasse, ci si mettevano anche il suo agente letterario e l'editore a rompere le scatole chiedendo quanto ancora gli ci volesse per arrivare alla fine del libro. Starnazzavano via skype o dall'altro capo del cellulare affermando che c'erano delle scadenze da rispettare, come se lui fosse stato un novellino qualsiasi, uno sfaccendato che non aveva ancora ben inteso che se voleva continuare a godersi il suo attuale tenore di vita, allora doveva sfornare un prodotto più che decente e farlo al più presto.

Roteò gli occhi e tolse le dita dalla tastiera, conscio che non avrebbe cavato un ragno dal buco con sua madre che non la piantava di ciarlare in sottofondo e raccontargli di come il marito stesse diventando intrattabile con l'età che avanzava e altri problemi quotidiani che Andrew, al momento, non aveva la forza né la pazienza di ospitare nella propria mente che doveva rimanere focalizzata sul lavoro.

Pareva quasi che certuni fossero convinti che un libro lo si scrivesse in quattro e quattr'otto, senza un minimo di impegno e di rigorosa dedizione, senza dover spremersi il cervello per ore pur di tirar fuori qualcosa che potesse andare incontro alla compiacenza non solo dell'editore, ma dei lettori.

La sua famiglia ci aveva impiegato un po' prima di concedergli un'oncia di fiducia e smetterla di ripetere che sarebbe morto giovane, solo, disoccupato e consumato dalla noia e forse dalla dipendenza da alcool e veleni simili com'era accaduto a Poe, tanto per fare un esempio. Si erano ricreduti solo quando avevano visto che il suo romanzo d'esordio si era conquistato il podio dei dieci libri più letti e venduti di quel periodo. Da allora non si era più fermato e attualmente poteva vantare un arsenale di cinque romanzi pubblicati nel giro di quindici anni. Considerando che all'inizio si era convinto che non sarebbe mai riuscito a combinare un bel niente né a far conoscere le proprie storie, quello era senza dubbio una considerevole vittoria.

E ora eccolo lì, alle prese con il sesto romanzo che, anziché esser composto da una singola trama, era un'antologia di racconti tanto brevi quanto mirati a togliere il sonno a coloro che presto li avrebbero letti. Sarebbe stato grandioso, davvero splendido, portarlo a compimento dopo un anno e mezzo di impegno e fatica, se solo sua madre lo avesse lasciato lavorare in santa pace. Le voleva bene, ma diamine se aveva un tempismo pessimo!

«Uhm... mamma, ora devo andare. Ho... ho un'altra chiamata da fare. Devo parlare col mio editore di una cosa importante» disse, pur sapendo che era una bugia. «Ci risentiamo tra qualche giorno, va bene?»

«Oh, Andrew! Ma non starai lavorando troppo? È più di un anno che te ne stai davanti a quel computer a...»

«Mamma, è il mio lavoro e si lavora sempre o quasi, che io sappia» le fece notare Andrew, tentando di non suonare scocciato. «Il libro non si scriverà di certo da solo.»

«Ma insomma! Quando troverai del tempo per uscire e per trovare qualcuno con la testa sulle spalle con cui metter su famiglia?»

Oh, Dio. Fortuna che non sono in vivavoce, pensò l'uomo, vergognandosi di dover ancora star a sentire quella roba a trentatré anni. Era il colmo! 

«La vita non ruota attorno allo sposarsi e al farsi una famiglia. Sul serio, ma', siamo nel ventunesimo secolo! E comunque sai che sono gay, no?»

«E cosa c'entra quello? Non c'è forse l'adozione? E l'utero in affitto?»

«Sì, e poi ci sono io che vorrei spararmi non appena il marmocchio di Ash e Sam inizia a strillare come un Nâzgul quando gli cade di mano il sonaglino.»

«Solo perché non sai cosa si prova a essere genitore!»

«Senti, mamma... ci sono persone che sono fatte per crescere quei piccoli demoni e persone che invece, come me, stanno meglio con il proprio gatto in un tranquillo appartamento.»

«Spera solo che non mi si presenti mai l'occasione di rinfacciarti queste chiacchiere.»

«Sì, okay. Ti voglio bene, mamma. Ciao!» Andrew, pur sapendo che sua madre odiava che lo facesse, approfittò dell'occasione per metter giù e, già che c'era, impostare la modalità silenziosa e ficcarsi di nuovo il telefono in tasca.

Sospirò e si abbandonò contro lo schienale della seggiola, passandosi le mani sul viso. «È un incubo quella donna» si lamentò sottovoce, guardandosi in giro senza un reale motivo mentre pian piano si rendeva conto che gli ci sarebbe voluto un po' per riprendere il filo della narrazione. Quel locale gli piaceva, era moderno e al tempo stesso confortevole e privo di inutili fronzoli, uno di quei posti in cui chiunque poteva sedersi a un tavolo e lavorare al PC mentre sorseggiava dell'ottimo caffè. Non la miscela cui gran parte degli americani erano abituati, ma quella europea, quella che gli ricordava tanto i pomeriggi soleggiati delle due settimane che aveva trascorso in vacanza ad Amalfi e poi, ancora, a Santorini e ad Agrigento.

Non era proprio uguale, ma gliela ricordava e tanto gli bastava.

Le luci soffuse, sommate al suono della pioggerella che là fuori cadeva dal cielo e a quello della lieve musica lounge che risuonava nel locale senza disturbare la quiete del posto, davano all'insieme un che di sospeso nel tempo. Fosse stato un pittore, quello sarebbe stato uno scenario perfetto da immortalare su una tela.

Spesso si recava proprio lì per scrivere e, talvolta, trovare ispirazione per il libro che stava scrivendo. Gli era sufficiente, infatti, osservare gli avventori per dare un volto a eventuali comparse in una storia o ai protagonisti. Per non parlare, poi, dell'atmosfera tranquilla che aleggiava allo Strawberries & Roses che nessuno pareva aver mai il coraggio di infrangere.

Il personale era gentile e discreto, come se la parola d'ordine per ognuno di loro fosse di trattare ogni cliente con i guanti di velluto e viziarlo, persino coccolarlo. Un paradiso, in poche parole.

Lo rilassava e faceva sentire a casa, lui che da quelle parti era uno di passaggio e non conosceva praticamente nessuno lì. Lui che veniva da una città molto più frenetica e cinica di Hanging Creek, ovvero Manhattan.

Si era rifugiato lì proprio in vista dell'ultima parte della stesura del romanzo e diamine... se solo non fosse stato affezionato al proprio appartamento, quasi quasi si sarebbe trasferito lì. Era un posto perfetto dove rimanere lontani dal caos urbano e scrivere in santa pace mentre fuori dalla finestra si udiva solamente il cinguettio degli uccelli e il fruscio delle fronde degli alberi.

In autunno, come aveva potuto osservare di persona, era un luogo davvero suggestivo.

Fatti forza, Andrew. Mano a quella benedetta tastiera e termina il capitolo. Solo qualche paragrafo e per oggi sarai a posto.

Più facile a dirsi che a farsi.

Le sue sconsolate elucubrazioni vennero interrotte da qualcuno che piano gli picchiettò sulla spalla e lo indusse a sollevare lo sguardo. Vide un ragazzo che non doveva avere neppure venticinque anni guardarlo con aria esitante e timida. La sua divisa era uguale a quella degli altri dipendenti e i suoi capelli dorati erano rasati ai lati del capo e per il resto lunghi e raccolti in un nodo. Una pettinatura quasi di vichinga memoria molto in voga negli ultimi anni, specie fra i giovani.

A quel ragazzo, però, donava particolarmente e offriva un interessante contrasto con i lineamenti del viso raffinati e dolci. Senza contare che i suoi occhi grigi erano di una tonalità decisamente più rara del consueto, tanto che pareva impossibile che fossero veri e non lenti a contatto.

Andrew lo aveva già notato in precedenza e aveva dedotto che fosse stato assunto solo da una settimana, visto che nei primi tempi della sua breve permanenza in quella città a non gli era capitato di scorgerlo nel locale. Lo aveva notato e... beh, era uno scrittore particolarmente devoto alla propria libertà individuale e cinico quando si parlava di amore e roba simile, ma era comunque un uomo di carne e sangue e ammetteva che in circostanze diverse, se si fosse trovato lì per impegni diversi dal dover terminare il proprio libro e concentrarsi su di esso fino all'ultima pagina, volentieri ci avrebbe provato con quel tipo. Forse era solo un po' basso per i suoi standard e mingherlino, ma in fin dei conti quelli erano dettagli secondari sui quali era capace di passar sopra.

«Sì?» disse dopo essersi schiarito la voce, facendo di tutto pur di non concentrarsi troppo sul ragazzo e sul suo aspetto che senza difficoltà gli avrebbe assicurato una carriera da modello. In effetti si domandava che ci facesse uno così in una città così sonnolenta e tranquilla, anziché in giro per il mondo a godersi la vita.

Certo, parla quello che all'età del biondino se ne stava chiuso in casa a massacrare la tastiera di un PC.

Il ragazzo esitò ancora. Sembrava non esser in grado di guardarlo direttamente negli occhi, una mammola. Celava qualcosa dietro alla schiena e la mostrò pian piano all'uomo. «Sono giorni che volevo chiederglielo, m-ma non ne ho mai avuto il coraggio fino ad ora» biascicò. «L'ho riconosciuta dalla fotografia sulla quarta di copertina e... ecco... ho supposto che lei dovesse per forza essere Andrew Thorne.» Aprì il libro che stringeva fra le dita incerte e gli mostrò l'immagine in questione che, in effetti, raffigurava proprio Thorne in carne e ossa che con aria disinvolta, con la tipica spavalderia dei diciottenni che sapevano già cosa volevano, ricambiava lo sguardo del proprio osservatore. «Sì. Certo, lì sono decisamente più giovane di come appaio ora, ma sono io» confermò Andrew con un sogghigno. «Questo libro è... diavolo, di un secolo fa!» Era il suo romanzo d'esordio, Sussurri nel buio. Quello che aveva segnato l'inizio della sua ormai stabile carriera, ma... al contempo... anche quello che lui, personalmente, decretava come il più mediocre di tutti, quello che aveva dovuto adattare alla richiesta del pubblico pur di ottenere un minimo di riscontro e di fama, secondo le odiose regole dell'editoria.

Se si voleva sfondare, bisognava dare al lettore ciò che adorava, poco importava se fosse poi mediocre e privo di reali contenuti e di una morale profonda. All'epoca non aveva di certo aiutato, poi, che avesse deciso di farsi avanti con un romanzo d'esordio a soli diciotto anni. L'editore, però, era rimasto colpito in positivo e gli aveva dato fiducia, venendo poi lautamente ricompensato dalle vendite e dal successo dell'opera.

Il giovane cameriere sbuffò una tenue risata. «S-Sì, in effetti all'inizio avevo paura di sbagliarmi, ma sentivo che era lei l'autore del libro. Non è poi cambiato così tanto, se posso permettermi.»

«Mi hai beccato» lo rimbeccò tra il serio e il faceto l'autore, sfogliando con un velo di nostalgia e di imbarazzo al tempo stesso quel volume. Tendeva a non tornare mai indietro per osservare le proprie vecchie opere ed era strano farlo con quella che lo aveva reso noto e famoso. Quel libricino di duecento pagine scarse e dal ritmo serrato, nonché autoconclusivo come i suoi fratelli minori...

«Accidenti, mi sembrano passati davvero secoli» ammise richiudendolo e tornando a guardare il ragazzo. «È stata una bella lettura?»

«Uhm, ammetto di averlo scoperto solo per puro caso mentre curiosavo fra i libri dei miei genitori, l'anno scorso. Mi venne detto che era uscito anni fa, quando io ero solo un bambino e non avevo ancora l'età giusta per leggere un romanzo dell'orrore. Avevo... beh, otto anni! Però, quando l'ho trovato, l'ho preso in prestito e l'ho terminato nel giro di un solo giorno. Non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine e mi è piaciuto così tanto che ho preso una copia nuova e tutta per me. Da allora mi sono rimesso in pari con tutte le sue opere e... insomma... sono una più bella e avvincente dell'altra, davvero! È raro che faccia le ore piccole pur di terminare il prima possibile un libro e scoprire come va a finire.»

«Mhm...» Andrew non poté non provare un po' di tenerezza nei confronti di quel suo giovane e inaspettato lettore. «Lasciami indovinare, vuoi una dedica?»

«Mi piacerebbe tanto, però se le scoccia...»

«Nah. Mi scocciano solo le bollette e i reality show, croce sul cuore. Hai una penna?»

«Oh, sì, certo!» Il cameriere ne estrasse una dal taschino della camicia inamidata che indossava e la porse con fare emozionato all'autore. «Potrebbe farla non solo per me, ma anche per mio padre? Anche lui è un suo fan.»

«Sicuro, ma prima devi dirmi a chi dedicare questa copia» scherzò Andrew.

«Giusto, scusi! Papà si chiama Christian!»

«E tu?»

«Alexander, ma preferisco Alex e basta.»

Lo scrittore annuì e con la sua solita grafia un po' disordinata iniziò a scrivere la dedica sul libro che aveva aperto alla prima pagina, quella intonsa e immacolata che sempre precedeva il resto del romanzo. «Bel nome. Sai che è molto antico? Apparteneva a uno dei più grandi conquistatori della storia, Alessandro Magno, e a tanti altri personaggi famosi» disse, un po' per fare conversazione e un po' perché era fatto così.

«Davvero? Non lo sapevo» fece il ragazzo, stupito. «Insomma... sono sempre stato una testa di legno con la storia, lo ammetto.»

«È un peccato» lo rimbeccò Andrew, restituendogli il libro dove ora era custodita la sua fresca dedica. «La storia insegna ed è sempre un bene essere fra quegli allievi che decidono di prestarle ascolto.»

Alex sbuffò una risata. «L'ha presa da La casa del silenzio, vero?» osservò.

«Hai una buona memoria, vedo.»

«Beh, quella era una frase di un certo impatto. Chiunque la ricorderebbe» si permise d'osservare il cameriere, stringendo a sé il libro con la stessa cura con cui avrebbe retto fra le braccia un fragile gattino. «Ora la lascio lavorare! La ringrazio per la dedica e... non vedo l'ora di leggere la sua prossima opera, lo ammetto!»

«Sei il primo ad avermi incrociato mentre lavoravo a uno dei miei libri e a non avermi chiesto neppure per sbaglio qualche informazione riguardo alla trama o roba simile» commentò l'autore. «Detto fra noi: grazie per non averlo fatto. Ammetto che spesso e volentieri lo trovo seccante. Mi mette in difficoltà perché è ovvio che io non possa rivelare certi dettagli, eppure lo stesso tanti non se ne curano e mi tempestano di domande alle quali non posso e non mi va di rispondere. Quindi... grazie.» La cosa lo aveva sollevato e un po' stupito. Era raro che una persona, incrociando uno dei suoi scrittori preferiti, non cedesse a quella tentazione, ma quando accadeva era sempre un bel sollievo.

Pur notando un vago accenno di rossore sulle guance color avorio del ragazzo, Andrew ebbe la sensibilità di non farglielo notare né di chiedere cosa avesse detto per causare quella reazione.

Alex si strinse nelle spalle. «Mi creda, non sono tipo da fare certe cose» replicò con onestà. «Non so cosa significhi trovarsi al suo posto, però... insomma, non trovo sia bello chiedere questo o quest'altro al proprio scrittore preferito. Non solo ci si rovina da soli la sorpresa di leggere il risultato finale del suo lavoro, ma... beh, mi sembra anche indiscreto e irrispettoso. È una professione già sicuramente stressante così com'è e un lettore non dovrebbe rendere la vita a un autore ancora più difficile, a mio parere. Il suo compito è supportare le opere dello scrittore e rispettarle, nel bene e nel male, no?» 

Thorne annuì appena e aprì bocca per rispondere a quelle parole che sapevano di pura e semplice schiettezza, quella propria di chi sapeva ancora vedere il bicchiere mezzo pieno malgrado il mondo fosse un posto tutt'altro che ospitale e privo di orrori, ma la bolla protettiva di quella piacevole conversazione venne infranta da qualcuno che, schiarendo piuttosto rumorosamente la voce, attrasse subito l'attenzione del ragazzo; il cameriere si voltò e sobbalzò appena vedendo che la proprietaria del locale, la quale in poche parole lavorava a sua volta lì e dirigeva tutto, era a un paio di metri di distanza e con una semplice occhiata gli stava intimando di non infastidire oltre il loro cliente e rimettersi al lavoro, visto che c'erano altri clienti da servire. Alex, allora, in un confuso balbettio si scusò con lo scrittore e filò subito a fare il proprio dovere, seguito a ruota dallo sguardo severo della donna.

Cercando di non dar a vedere il lieve fastidio che l'intervento della proprietaria gli aveva fatto provare, Andrew, con una certa ritrosia, distolse gli occhi dal ragazzo e tornò a guardare lo schermo del laptop. Si fece forza e tornò al lavoro, malgrado gli fosse passata la voglia di scrivere, almeno per quel giorno.

Quella mattina il cielo era limpido e la giornata era così soleggiata che Andrew aveva deciso di uscire indossando solamente la maglietta e i jeans, senza portarsi dietro la giacca. Malgrado tali premesse in teoria ottime, il suo umore invece non era dei migliori visto che erano tre giorni che non riusciva a proseguire con la stesura del romanzo antologico. Aveva troppe idee, era quello il problema, e la sua mente era talmente sovraccaricata da impedirgli di afferrarne una e svilupparla fino a trasformarla in uno degli ultimi racconti dell'opera.

Scriveva convinto di aver c'entrato l'obiettivo e solo per poi fermarsi, rileggere, storcere il naso e cancellare tutto da cima a fondo.

Innervosito e scontento, quella mattina aveva mollato tutto ed era uscito. Ora, quindi, eccolo lì, appena arrivato allo Strawberries & Roses per ordinare un espresso a portar via.

In generale detestava a priori la domenica. Lo considerava un giorno sonnacchioso e noioso, nonché uggioso perché accompagnato dalla prospettiva che sarebbe poi iniziata una nuova settimana che per molti significava levatacce e fatica a non finire.

Si riteneva fortunato nell'esser riuscito a trovare per sé un lavoro che desse non poca libertà in tanti campi, ma chi ad esempio prestava servizio in un ufficio aveva se non altro un'idea di cosa avrebbe dovuto fare ogni giorno, una traccia da seguire e uno schema preciso da rispettare, e lui non lo aveva. Fare lo scrittore significava vivere quasi alla giornata, con il terrore del famoso blocco e di produrre un'opera scadente o inadatta alle aspettative del pubblico. Era, in poche parole, un continuo lancio di dadi.

Se solo fosse riuscito a trovare l'ispirazione giusta per quel maledetto racconto...

Si guardò in giro e notò praticamente subito che quella mattina non vi fosse traccia di Alex. Forse aveva la giornata libera, rifletté Andrew con una punta di delusione. Gli sarebbe piaciuto poter di nuovo parlare con quel ragazzo. Oltre ad essere l'unico con il quale avesse fino ad allora davvero interagito da quelle parti, era anche una persona con cui era piacevole conversare.
Tuttavia... nemmeno lo avesse evocato tramite un bizzarro e arcaico rituale, Thorne di punto in bianco scorse il ragazzo entrare nel locale e in pochi secondi passò dal sentirsi in un certo senso rasserenato e sollevato all'incupirsi nuovamente non appena ebbe modo di notare una seconda figura accanto al giovane: una ragazza che doveva essere a occhio e croce della medesima età di Alex e dalla lunga, folta e fulva chioma. Molto carina, constatò con una punta di acidità lo scrittore. Decisamente all'altezza del proprio accompagnatore.

E ti pareva che non dovessi beccare io quello carino e irrimediabilmente etero.

Ma perché, poi, stava pensando a simili scemenze? Che gliene importava?

Distolse lo sguardo immediatamente e finse di non averli visti mentre finalmente ritirava il proprio caffè da asporto e pagava la bevanda.

Ignorò la vocina che insidiosa dentro di lui lo punzecchiava accusandolo di voler sì e no tagliare la corda. Non era affatto così e conosceva appena quel ragazzo. Non c'entrava assolutamente niente che avesse una fidanzata, com'era normale che fosse. Era infastidito per i fatti suoi, perché non riusciva a portare a termine uno dei racconti, tutto qui, eppure si sentì teso come una corda di violino quando, con la coda dell'occhio, mentre afferrava il caffè da asporto, vide Alex e la ragazza che gli stava accanto dirigersi proprio verso di lui. In un primo momento il suo impulso fu quello di continuare a fingere di non averlo notato e andare per la propria strada, ma alla fine si arrese e rimase dov'era.

«Salve!» lo salutò il ragazzo con un candido e sincero sorriso, quasi fosse felice di averlo incrociato proprio lì e proprio in quel momento.

«Ehi» quasi biascicò Andrew, schiarendosi poi la voce. «Vedo che oggi sei libero e in compagnia» aggiunse.

Il giovane guardò verso la fanciulla e le fece cenno di avvicinarsi. Era ovvio che intendesse presentarla a Thorne, ma quest'ultimo, invece, per qualche motivo sconclusionato e noto solamente a lui non voleva aver nulla a che fare con quella tizia. Non che lei gli avesse fatto qualche torto, neppure si conoscevano, solo... non la voleva tra i piedi né di fronte a sé, lì dove non aveva modo di ignorarla. Ecco tutto.

La ragazza si fermò accanto al probabile coetaneo e passò in rassegna velocemente Andrew, per poi fissare Alex con aria stordita. «Ma... allora dicevi la verità!» esclamò, portandosi le mani alla bocca e fissando di nuovo Thorne a occhi sbarrati. «Porca vacca!» si lasciò sfuggire.

«Certo che dicevo la verità!» la rimbeccò imbronciato Alex. «E tu che non volevi credermi!»

Andrew capì al volo e malgrado tutto si strinse nelle spalle e abbozzò un debole sorriso. «Suppongo non abbia bisogno di presentarmi, giusto?» fece retorico.

«No, assolutamente! Cioè... è davvero Thorne! In carne e ossa!» esclamò entusiasta lei. «Io e Lexie adoriamo i suoi libri!»

Gli occhi verdi dello scrittore scrutarono brevemente il giovane cameriere. Lexie, eh?

Alex, chiaramente in imbarazzo, le lanciò una lieve gomitata. «Lo sa già, Rachel» la apostrofò a denti stretti e con enorme eloquenza, per poi tossicchiare e rivolgersi nuovamente allo scrittore. «Uhm, lei è Rachel ed è la mia...»
«... migliore amica! Praticamente dalla culla!» terminò al suo posto Rachel, pimpante, mentre allungava una mano verso Thorne che si sentì in un certo senso sollevato nel sapere che quei due non stavano insieme. L'uomo si scambiò con la ragazza una veloce stretta di mano. «Beh, piacere mio» fece, ora più a proprio agio e disinvolto.

«Cavolo! È ancora meglio di come appare nelle foto, lo sa?» commentò emozionata Rachel. «Io... mi scusi se le sembrerò una squinternata, ma potrei farmi un selfie con lei?»

«Ma... Rachel!» la riprese Alex stizzito. «Non mi sembra il caso!»

«Nah, nessun problema, a patto che la foto rimanga privata» intervenne conciliante Andrew, che era abituato a quel genere di situazione. «Di solito non lo chiedo, ma ora come ora sono qui per concentrarmi sul mio libro e... beh, non vorrei attirare troppa attenzione.»

«Non la pubblicherò, promesso!» assicurò Rachel, ignorando l'amico che si era spalmato una mano sul viso ed era rosso per l'imbarazzo che era al contempo personale e vicario. Al posto di Thorne sarebbe stato più inflessibile. Poveretto, si era recato in quella città per avere un attimo di pace e ora ecco che Rachel se ne usciva con la richiesta di farsi una foto in sua compagnia. Osservò uno fra i suoi scrittori preferiti accostarsi alla sua migliore amica e sorridere mentre quell'attimo veniva per sempre immortalato nel cellulare di Rachel. Andrew, poi, gli chiese se andasse anche a lui di scattare una fotografia assieme, cogliendolo del tutto alla sprovvista. «Cosa? Io?» biascicò Alex, indicando se stesso. «Uhm... e-ecco...»

«Ma andiamo! È il tuo scrittore preferito ed è qui in carne e ossa!» lo spronò Rachel.

Il ragazzo esitò un pochino prima di convincersi a cedere a quella piccola tentazione. Non che non gli garbasse l'idea di poter avere un simile ricordo da conservare nel cellulare e anche nel cuore, ma... si chiedeva se a Thorne facesse davvero piacere la cosa o se si stesse solamente sforzando di essere gentile con lui e Rachel.

Di solito gli piaceva molto scattare delle foto a se stesso, prova ne era che il suo profilo Instagram fosse abbastanza nutrito e ben fornito di materiale tra scatti e video vari, ma... era molto più propenso a condividere i propri disegni digitali e roba simile, insomma... a farsi conoscere tramite ciò che adorava fare, anziché per via del proprio aspetto sul quale non aveva mai riposto granché fiducia. Rachel diceva che si faceva troppi complessi e che avrebbe potuto benissimo far girare la testa a un bel po' di gente, se solo si fosse convinto a uscire dal guscio e a conoscere persone nuove e, perché no, cercare di avere una relazione con qualcuno, ma lui preferiva di gran lunga quello stile di vita simile a un pendolo che oscillava tra il lavoro e le giornate libere trascorse a casa in compagnia dei suoi papà, di Netflix, i libri e il tablet con cui si sbizzarriva per disegnare e pasticciare con Photoshop.

Lui, semplicemente, non era fatto per socializzare ed era già sconvolgente che si fosse fatto coraggio, tre giorni prima, e avesse attaccato bottone con Andrew Thorne in persona per chiedergli di firmare una copia del suo libro d'esordio. Di solito non era così sfacciato e spigliato ed era molto raro che fosse lui a fare il primo passo.

Da vicino sembra ancora più alto, pensò, arrischiandosi a sollevare lo sguardo verso lo scrittore. Definirlo affascinante sarebbe stato riduttivo, c'era ben poco da fare, e quegli occhi...
Decisamente le fotografie non rendevano giustizia a quell'uomo. Vederlo in carne e ossa era tutt'altra cosa.

Oh Dio, pensò con un tuffo al cuore, resosi conto che l'autore lo stava ora guardando a sua volta.

«Allora?» incalzò Andrew.

«Eh?» Alex, ricordando il motivo per cui si trovava così vicino all'uomo, tanto da poter inalare il profumo del suo dopobarba, recuperò dalla tasca dei jeans il proprio cellulare e smanettò con lo schermo con fare un po' impacciato. «E-Ecco.» Lo tese a Thorne e si sforzò di guardare in direzione dell'obiettivo digitale dello smartphone, anziché continuare a fissare con aria ebete lo scrittore. Provò a sorridere nella miglior maniera possibile, ma era più facile a dirsi che a farsi con un uomo come quello a pochi centimetri da lui.

Era arduo tenere a mente che egli fosse in primo luogo il suo autore preferito e dunque non andasse trattato di certo come un attore o un cantante. Insomma... era una cosa del tutto diversa. Erano le opere di Thorne a essere importanti, no? 

Eppure ciò non gli aveva impedito di osservarlo a lungo e in silenzio, di tanto in tanto, giorni prima. Era stato proprio per quello che la sua datrice di lavoro, prima che lui si congedasse dopo la fine del turno, gli aveva ricordato che il suo compito era di servire i clienti, non mangiarseli con gli occhi. Era stato imbarazzante, ma in fin dei conti era la verità e la colpa era sua che si comportava come un quindicenne, pur avendo ormai ventitré anni suonati.

Andrew gli restituì il telefono e il ragazzo si concesse un paio di secondi per osservare la foto e dirsi che probabilmente l'avrebbe usata come sfondo per un bel po' di tempo a venire. «Grazie» disse, realmente grato per quello che lui riteneva essere un autentico regalo. Era così concentrato sull'uomo che neppure si curò di rispondere a Rachel che, soddisfatta, disse che intanto avrebbe ordinato il caffè per se stessa e per lui.

Andrew si strinse nelle spalle. «Per così poco!» rispose al ragazzo.

Alex, per non rischiare di iniziare a fissare con aria ebete Thorne col rischio di passare per un autentico cretino, decise di cambiare discorso e chiese: «A-Allora, come va con il suo nuovo libro?»

Thorne fece una smorfia. «Oh, no! Stavi andando così bene!» si lamentò, tra il serio e il faceto.

Il ragazzo solo allora ricordò che Andrew Thorne, come qualsiasi altro scrittore, detestava quella domanda. «M-Mi scusi» balbettò mortificato. «Ho chiesto senza pensare.»

«Sei perdonato solo perché mi stai simpatico, all'incirca» lo rimbeccò l'autore scherzoso e non. «A esser del tutto onesti, potrebbe andare meglio.»

«Perché?»

«Mi sono arenato, diciamo. Non riesco a trovare nulla che possa convincermi al centouno per cento.»

«Vorrei poter esserle d'aiuto in qualche maniera, ma non ne so granché della scrittura» commentò dispiaciuto Alex. «Però... più o meno so cosa vuol dire non trovare ispirazione e restare bloccati sempre allo stesso punto.»

«Hai detto che non sai nulla della scrittura.»

«Sì, è vero. Io mi occupo di un diverso genere di arte, mettiamola così.»

«Ossia?»

«Uhm...» Il giovane cameriere si rese conto di essersi messo nel sacco da solo e di non poter di certo tirarsi indietro, non dopo aver parlato così tanto a sproposito. Accidenti alla sua linguaccia. «Beh... ecco... io... disegno, roba così. Niente di speciale.»

Andrew non riuscì a mascherare un lieve stupore del tutto sincero di fronte a quella rivelazione. «Avevi la mia curiosità, ma ora hai la mia attenzione.»

Alex sbuffò una lieve risata a quella sottile citazione del film Django. «Non sono esattamente Michelangelo o Picasso, però mi piace imbrattare tele digitali. È la mia piccola valvola di sfogo. A volte mi cimento in cose più realistiche come... uhm... la fotomanipolazione o roba simile. È un hobby.» Gli appariva assurdo di star parlando di quello proprio con uno scrittore del calibro di Thorne e che quest'ultimo, soprattutto, lo stesse realmente ascoltando con vivo interesse. Sembrava paradossale.

«E come fai quando non sai cosa fare?» chiese Andrew, incuriosito e sì, anche un po' speranzoso. Non era mai un male confrontarsi con il prossimo e apprendere nuovi metodi per scacciare la mancanza di ispirazione e non si smetteva mai di imparare, checché ne dicessero certuni convinti di esser nati con la scienza infusa.

Il ragazzo esitò. Diamine, non riceveva spesso domande come quella. «Beh... spesso mi aiuta uscire e andare a fare due passi, guardarmi intorno e osservare ciò che mi circonda. Altre volte mi capita di beccare delle immagini in giro per il web ed ecco che è amore a prima vista e mi dico che devo assolutamente lavorarci sopra per creare qualcosa di nuovo.» Non si sognava neppure di rivelare che a volte anche i libri dello stesso Thorne gli avessero offerto qualche spunto. Si era divertito, a volte, a cercare di ricreare l'aspetto fisico dei protagonisti delle storie narrate in quei romanzi. Non che le descrizioni fisiche in quei libri abbondassero di dettagli, erano sempre molto stringate e lasciavano molto spazio all'immaginazione del lettore, ma il bello, d'altronde, era proprio questo.

Osservò Thorne avvicinarsi a uno dei tavoli e lasciarsi cadere su una delle due seggiole. Vedendo che Rachel aveva attaccato bottone con uno dei suoi colleghi, un ragazzo che le piaceva particolarmente sin dal liceo, Alex alla fine prese posto di fronte a Andrew. «Davvero niente riesce a ispirare la sua fantasia?» chiese. «Fino ad ora da cosa ha preso spunto?»

«Bella domanda» ribatté Andrew, sforzandosi di suonare scherzoso. «La verità è che spesso le idee mi vengono dal niente e scelgo semplicemente di seguirle per vedere dove vogliono portarmi. Un po' come Alice che va dietro al Bianconiglio, capisci?»

«Altre volte, invece?»

«Altre volte prendo spunto anche da esperienze che ho realmente vissuto sulla mia pelle, ma si tratta di qualche dettaglio qui e là, di un dato retroscena di un protagonista o roba simile.» Lo scrittore fece un bel respiro. «Ora come ora sto scrivendo un'antologia. Una serie di racconti brevi che affrontano tematiche sempre incentrate sull'orrore, ma da prospettive differenti e con tematiche diverse l'una dall'altra. Sto per concluderla, ma mi sono impantanato proprio ora che devo scrivere gli ultimi racconti.» Qualcosa gli diceva che poteva anche confidarsi con quel ragazzo e che quanto stava dicendo sarebbe rimasto in confidenza fra di loro.

Alex esitò. «L'ultima idea che ha bocciato su cosa verteva?» chiese, volendo davvero essere d'aiuto a Thorne in qualche maniera.

Andrew fece spallucce. «Era talmente insulsa che neppure me la ricordo, adesso» borbottò. «La traccia di partenza era render concreta, almeno su carta, una delle tante fobie umane. Il filo conduttore è proprio quello delle fobie, in realtà.» Notando che il ragazzo visibilmente sembrava voler dire qualcosa, gli intimò di parlare senza problemi. Alex, dunque, si mordicchiò il labbro inferiore e infine disse: «Magari potrà sembrarle banale come cosa, ma... una delle paure che tormentano dall'alba dei tempi ogni essere umano è quella di rimanere da soli. La solitudine totale e incondizionata, mi segue?»

«Sì e no» ammise Thorne. «Elabora.»

«Provi... mhm... a immaginare se un giorno, dopo essersi svegliato e preparato per la giornata come sempre, uscendo di casa per un motivo o l'altro non vedesse più nessuno in giro. Magari le macchine ci sono ancora, ma sono ferme sull'asfalto e prive di un guidatore, e vuote sono le strade, neppure l'ombra di un solo passante. Ci sono solo lei e il silenzio assoluto, il vento che spira tra le foglie degli alberi, il cinguettio degli uccelli, ma il resto tace. Naturalmente prova a girare per la città, ma senza alcun risultato. Tutti sono svaniti nel nulla, come se mai fossero esistiti, lasciandosi dietro una città fantasma e lei come unica prova vivente che un tempo il mondo fosse abitato da una forma di vita che è stata capace di elevarsi sopra tutte le altre. Prova a contattare i suoi parenti, i suoi amici, ma non c'è campo e i social non funzionano e alla fine quello stesso apparecchio si dà per vinto e si spegne per sempre. È da solo, sa di esserlo, e la cosa peggiore è che non ne comprende la ragione: non c'è stata alcuna apocalisse o disastro, niente di niente, non ve ne sono tracce tangibili e quindi quelle ipotesi sono da escludere. Se ne sono andati tutti senza un motivo. Magari non è così originale come trovata, lo so bene, ma personalmente... se dovesse capitare a me una cosa simile... darei di matto e sprofonderei nella disperazione. Non so neanche immaginare come mi sentirei, in realtà. So solo che sono in tanti a covare dentro il cuore questa particolare fobia. È più frequente di quanto si immagini e non tutti se ne rendono conto, ma è comunque lì e a volte riemerge. È un argomento che non passerà mai di moda e che vale sempre la pena di affrontare.»

Andrew, in cuor proprio, si ritrovò ad ammettere di star provando un velo d'angoscia dopo quello scenario che gli aveva proposto il ragazzo. «Monofobia, per giunta portata agli estremi» sintetizzò rauco. «Niente male, biondino.» Vide un accenno di rossore colorare le guance del suo giovane interlocutore, ma preferì non infierire. E comunque gli donava, a esser onesti. «È una delle tue fobie?» incalzò poi.

Alex sbuffò una risata e scosse la testa. «Non proprio. Sono fra le persone più solitarie e schive che esistano, mi creda. È già tanto che abbia degli amici e comunque sono così pochi che una sola mano sarebbe sufficiente a enumerarli tutti. Rachel è decisamente quella che mi è più vicina sin dall'infanzia, ma per il resto... beh, preferisco cantarmela e suonarmela da solo. Netflix, musica e tablet mi bastano e avanzano per tirare avanti. Monotono, lo so, ma io stesso sono molto abitudinario e mi piace avere una routine da rispettare.»

«Monotono? Darei via l'anima per avere un po' di tempo in più per farmi almeno un giretto superficiale negli anfratti di Netflix» commentò divertito Andrew. «Mi tocca tenermi lontano da tutto quello che potrebbe influenzarmi in qualche maniera, quando lavoro.»

«Beh, se non altro può godere della compagnia dei suoi personaggi» lo rimbeccò Alex, a sua volta scherzoso. «So che per tanti scrittori è come se si trattasse di persone reali.»

«Non è esattamente il mio caso» confessò Thorne. «Non mi sono mai granché affezionato ai personaggi che ho creato, onestamente. Preferisco evitare di farlo, specie perché quasi tutti loro fanno una brutta fine o sono persone indegne di esser definite tali.»

«Credo di non averla ancora perdonata per aver fatto sprofondare nella follia il povero Matt» lo rimbeccò il ragazzo tra il serio e il faceto, riferendosi al protagonista del libro d'esordio di Thorne. «È stato terribile leggere il finale e scoprire che dietro a tutto quanto c'era sempre stato lui che soffriva di quella strana sindrome.»

«Ah, sì» sghignazzò Andrew, impunito. «Disturbo dissociativo dell'identità. Un classico.»

«Quello, ecco! Sul serio, che cattiveria! Quasi quasi le chiedo il risarcimento per danni morali e psicologici!»

«Addirittura!»

«E il libro successivo...! Prima mi affeziono a Jenny e poi man mano inizio a capire che c'era sempre stata lei dietro alla scomparsa di suo figlio e che sin dall'inizio si era solo premurata di recitare la parte della madre afflitta!»

«Ho modo di avvertire una certa acredine nei miei riguardi da parte tua o sbaglio?» lo provocò Andrew, incapace non sogghignare. Sì, ammetteva di essere praticamente sempre crudele con i propri personaggi, ma in fin dei conti era quello il punto: l'orrore più grande si celava nell'essere umano stesso, non c'era bisogno di sguazzare nel pantano del folklore e della superstizione per aver a che fare con autentici mostri. Il terrore vero era quello, puro e semplice, ed era lì da dissotterrare, sepolto e in attesa di venire riesumato ed esser mostrato al mondo intero.

«Acredine?» borbottò Alex. «Dovrei tirarle il collo dopo il finale tremendo del suo ultimo libro.»

«Mhm, lo immaginavo. Ho visto che tanti sono rimasti malissimo, in effetti, ma non poteva andare diversamente.»

«Vuole scherzare? Tanto per iniziare, Ellis avrebbe potuto confessare ciò che aveva fatto tredici anni prima, invece di lasciare che la scomparsa di Liam rimanesse un mistero irrisolto. Come ha potuto ucciderlo, poi? È vero, lo aveva spinto contro quel dannato salice dove si incontravano sempre e Liam aveva battuto la testa per puro incidente, ma Ellis avrebbe potuto chiamare i soccorsi, avrebbe potuto salvarlo e invece lo ha seppellito quando era ancora vivo e per giunta ai piedi dell'albero che per loro tanto era speciale. Quale mostro farebbe una cosa simile alla persona che spergiura di amare? Un litigio stupido per via di uno scherzo altrettanto stupido e tutto va in malora!» 

Era chiaro che All'ombra del salice avesse coinvolto parecchio Alex dal punto di vista emotivo, glielo si leggeva in faccia. Andrew, che mai si era confrontato con uno dei suoi lettori così da vicino e senza filtro alcuno, non subito seppe cosa dire. Non ci era abituato, in tutta franchezza, e sempre francamente... quel libro, in particolare, lo aveva scritto di getto e in un periodo buio della propria vita personale. Era nato grazie o a causa del suo ex-fidanzato che lo aveva tradito e gli aveva spezzato il cuore. Lui, non sapendo in quale altra maniera superare la cosa, si era messo a scrivere, aveva scritto e scritto ancora, finché non era uscito fuori un libro intero e lui non si era reso conto di aver esaurito tutto il rancore e la frustrazione accumulati. Ellis era stato crudele proprio come lo era stato il suo ex ad avergli nascosto per mesi e mesi la propria relazione con un altro uomo, ad averlo illuso giurandogli che lo amava e sarebbero rimasti insieme ancora a lungo. E lui si era sentito proprio come Liam: sepolto sotto metri di bugie, sofferenza e rimpianto per esser stato stupido e cieco, per non aver capito prima. Incapace di esternare ciò che provava e in preda a una solitudine senza eguali.

Quella era stata la prima e ultima volta che aveva attinto a qualcosa fino a tal punto personale per una delle sue opere e amava e odiava quel libro che era stato accolto molto bene dalla critica e dai lettori. Lo amava perché era parte di lui, ma lo odiava perché gli ricordava una cosa che avrebbe tanto preferito dimenticare. Lo detestava tanto da non averne neppure una copia in casa propria.

A quanto pareva, comunque, era vero quanto affermato dai critici e dal suo editore: quel libro era stato scritto in un modo che era in grado di penetrare nella mente e nell'animo altrui, tanto da condizionare il lettore e farlo soffrire proprio come Liam e farlo sentire partecipe della discesa nella follia e nella paranoia di Ellis, costretto a mantenere un terribile segreto per tredici anni, finché non si era convinto di vedere ovunque il fantasma di Liam e di essere da esso perseguitato, tanto che alla fine, impazzito del tutto, finiva per uccidersi, senza neppure lasciare un biglietto d'addio, colpevole non solo di aver ucciso l'ex-fidanzato, ma di averlo fatto per via di un litigio basato su uno scherzo architettato da Ellis stesso: prendere in giro il suo coetaneo, fargli credere che la loro fosse una storia d'amore sincera e solo per poi umiliarlo davanti al resto della scuola; il plot twist era che poi si fosse innamorato realmente di Liam e avesse deciso di confessargli tutto; la discussione era andata fuori controllo e culminata, appunto, con la morte accidentale di uno dei due. Crudele, vero, ma anche reale e attuale.
La verità? Non c'era mai stato alcun fantasma, se non quello dei sensi di colpa. Erano quelli a uccidere, certe volte, non gli spettri e i folletti. Talmente erano mordaci e subdoli da far impallidire le tremende Erinni.

Dal canto proprio Andrew mai si sarebbe potuto affezionare a un personaggio come Ellis e reputava Liam, invece, oltremodo ingenuo e in qualche maniera debole, colpevole di essersi fatto abbindolare dal bulletto di turno, di aver creduto nell'amore che faceva più danni che altro. Tutti e due erano andati incontro a un destino inevitabile e a tratti dantesco, per certi versi, eppure non si sentiva a proprio agio nel vedere che quella storia aveva colpito Alex nel profondo.

«I loro destini erano segnati sin dal principio» disse con onestà. «Non c'era verso che la loro relazione potesse andare avanti. Sarebbe finita male comunque, anche se Liam fosse sopravvissuto.»

«Magari alla fine avrebbe perdonato Ellis. Avrebbe scelto di dargli una seconda possibilità. Lo avrebbe guardato negli occhi, un giorno, e avrebbe capito che malgrado tutto quell'amore era reale e forse valeva la pena di essere salvato, di essere vissuto» replicò a tono Alex.

«Cosa devo dirti? Sono uno scrittore dell'orrore e comunque, personalmente, vedo il perdono come una creatura mitologica. Tanti dicono di saper elargirlo al prossimo, ma pochi sanno farlo davvero. Spesso non si tratta di perdono, ma... di voler guardare avanti e ignorare che certe cose, semplicemente, siano impossibili da perdonare nel vero senso del termine. Ci si dimentica volutamente di una cosa brutta perché fa comodo, perché è molto meglio chiudere subito una discussione anziché rischiare di arrivare a un punto di non ritorno. Non a tutto c'è un rimedio, a mio parere.»

Thorne guardò dritto negli occhi il ragazzo e capì che quegli occhi grigi erano intenti a scrutarlo a fondo, quasi volessero leggergli sin dentro l'anima. «Qualcuno l'ha ferita, in passato, non è vero?» si arrischiò infine a domandare Alex. «È per questo che la pensa così? Per questo non crede nel perdono?»

Andrew mascherò come meglio poté la sorpresa. Non era uno di quelli che con facilità si lasciavano decifrare dal prossimo, ma il biondino ci aveva preso al primo colpo e con una facilità tale da risultare disarmante. «È solo la mia personale filosofia di vita: quando chiudo una porta quella rimane chiusa per sempre, tutto qui» disse, aggirando con astuzia la domanda. «E comunque tutto il mondo sa che non credo a un bel po' di cose.»

Alex fu abbastanza arguto da lasciar andare l'argomento e dire, con una stretta di spalle, che a suo parere, invece, la speranza era sempre l'ultima a morire e che una seconda possibilità andasse sempre concessa al prossimo, il più delle volte.

Andrew inarcò un sopracciglio: «Anche a gente che si è macchiata di genocidi e altri efferati crimini?»

«Fanculo. Certo che no.» Resosi conto di ciò che aveva appena detto e a chi, Alex si coprì la bocca e divenne rosso come un lampone. «Scusi!» squittì mortificato.

Thorne, però, scoppiò a ridere di gusto. «Nah, me la sono andata a cercare.» Con un gesto della mano scacciò la questione. Non era la prima volta, poi, che qualcuno lo mandava a quel paese proprio per via della sua lingua tagliente e poco adatta a rimanere al proprio posto. E poi era da un bel po' che non rideva sul serio e ora come ora ben poche cose avrebbero potuto sottrargli quel barlume di buonumore che aveva riacquistato grazie a un interlocutore inaspettato e dal carattere interessante. «Ti dirò, biondino: mi piace parlare con te.» E lo pensava sul serio. In quell'ultimo quarto d'ora aveva almeno smesso di pensare e ripensare a come superare il blocco dello scrittore e a confrontarsi con qualcuno che tutto sommato non sembrava trattarlo coi guanti bianchi solo perché era chi era. Alex era spontaneo e questo... beh, non gli dispiaceva affatto. 

«Frena! Ha detto che gli piace parlare con te?» Rachel agitò le mani per interrompere il racconto del suo migliore amico. «E poi ti ha proposto di andare a casa sua per raccontargli qualche retroscena folkloristico della città? E vi siete persino scambiati il numero di telefono?»

Alex si strinse nelle spalle. «Beh, sì.»

«Ma non è giusto!» esplose la ragazza disperata. «Tu... tu sei praticamente una puffola pigmea formato umano!»

«Ehi!» protestò lui. «E poi cosa c'entra, scusa?»

«Non vorrai farmi credere che il suo non sia un semplice pretesto per conoscerti meglio e stare in tua compagnia, vero?»

«Oh, ma andiamo!» Alex scacciò la questione con un gesto della mano. «Sul serio, Rachel, vedi retroscena ovunque, anche dove non ce ne sono affatto!»

Lei si spalmò una mano sulla faccia. «Sai quali voci circolano su Thorne, piccolo e ingenuo Lexie?»

«Uhm... che fa un po' lo stronzo alle conventions quando ha la luna storta e ha rifiutato categoricamente di cedere i diritti di All'ombra del salice per una serie televisiva basata sul libro?»

«Ma no, cretino!»

«E allora cosa?»

«Beh, alcuni dicono che sia gay!» snocciolò Rachel senza troppo parafrasare. «Certo, è sempre stato molto schivo sulla sua vita privata, ma qualche anno fa alcuni sostengono che sia stato beccato mano nella mano con un tizio mentre giravano per le strade di Manhattan!»

Il ragazzo sbatté le palpebre con aria profondamente scettica. «Pettegolezzi insulsi» decretò infine alzando gli occhi al cielo. «Non leggo mai la roba scandalistica.»

«Ah, sì? E allora perché l'ultimo libro era incentrato su una relazione fra due persone dello stesso sesso? Due maschi? C'è puzza di bruciato da qui fino al Canada!»

«Uhm, perché siamo nel ventunesimo secolo e ognuno ha il diritto di scrivere quel che gli pare su ciò che gli garba?»

«No, idiota. E a parer mio quella storia era descritta in modo così sentito da risultare quasi personale.»

«Ma andiamo! E se anche fosse, questo non avrebbe a che fare comunque con il sottoscritto. Vuole solo dei spunti per una storia futura, niente di più.»

«Certo, tesoro, e i canguri indossano sul serio dei guantoni da boxe, dico bene?» Rachel roteò gli occhi. «Secondo me hai attirato la sua attenzione e sempre secondo me dovresti buttarti.»

«Dalla finestra?»

«Hai capito benissimo cosa intendevo.» La ragazza smanettò col cellulare e poi capovolse lo schermo in direzione dell'amico. «Ti rendi conto che è un gran fico? Insomma, guardalo! Sprizza vibrazioni dilf da ogni poro! Ponendo che tu davvero gli piacessi, almeno un pochino... quando cavolo lo trovi un altro così? Hai ventitré anni, tesoro, stai invecchiando! Sbrigati a trovare un uomo prima di ritrovarti a cinquant'anni a parlare del più o del meno con dieci gatti acciambellati sul tappeto!»

«Non sto invecchiando! Sono ancora nel fiore degli anni, piantala! E poi non è mica obbligatorio stare insieme a qualcuno! Mi andrebbe benissimo avere dieci gatti in giro per casa!»

«Sia come sia, di questo passo prima o poi ti farai prete, se non ti deciderai a goderti la vita! Hai avuto un solo fidanzato, Lexie! Hai idea di quanto sia triste aver avuto solo un fidanzato in ventitré anni di esistenza?»

«Sono solo selettivo» si difese Alex, pur sapendo di mentire. «E non è mica così facile trovare un uomo gay! Tu fai presto a parlare! Là fuori è pieno di uomini che vogliono una donna come te accanto!» Gli era bastato iscriversi a Tinder e usare l'applicazione per due settimane per rendersi conto che lì tanti uomini che si professavano gay fossero alla ricerca di avventure mordi e fuggi, altri ancora di incontri puramente sessuali speziati talvolta di roba come il bondage e il sadomaso.
A lui, però, non importava granché del sesso, quasi niente in realtà, e non riusciva a farlo con nessuno con il quale non si sentisse emozionalmente e sentimentalmente a proprio agio e coinvolto. O scattava quella speciale intesa, quell'alchimia, o niente da fare, e anche se all'inizio aveva reputato quella particolarità della propria persona come una maledizione, con l'andare del tempo si era reso conto che gli aveva impedito spesso di cadere in autentiche trappole e di farsi raggirare in cambio di niente.

Il brivido fine a se stesso non faceva per lui, tutto qui.

Rachel sbuffò sonoramente e indicò lo schermo del telefono. «Lui però è gay, fidati della sottoscritta, e forse gli piaci! Comprendi? Vuoi che ti faccia un disegnino?»

Il ragazzo commise l'errore madornale di sbirciare e indugiare sullo zoom della fotografia che metteva in risalto il viso e metà del busto dello scrittore. Indugiò più del necessario su quegli occhi verde chiaro e tutto ciò che li circondava.

Certo che aveva fatto caso alla bellezza quasi hollywoodiana di quell'uomo. Solo un cieco non se ne sarebbe accorto, d'altronde, ma... non si parlava di un tizio qualsiasi. Era il suo scrittore preferito ed era già abbastanza pazzesco e contro ogni logica che lui avesse ottenuto da parte di quell'uomo un invito per trascorrere assieme un pomeriggio e parlare delle tante leggende che circolavano sul conto di Hanging Creek.

Non osava andare più in là con le pretese. Non era un bambino e non credeva più nelle fiabe da tanto tempo e quanto affermato da Rachel suonava proprio come l'incipit di una fiaba moderna.

«Si sente solo, tutto qui. È stressato perché deve finire in fretta di scrivere il suo libro e come ogni essere umano ha bisogno di interagire con qualcuno. Non ci vedo niente di strano in questo e solo perché gli piace parlare con me... beh... non vuol dire che gli piaccia tutto il resto di me» disse alla fine, ragionevole. Poteva anche avere la testa fra le nuvole per gran parte del tempo, ma da qui a illudersi e a fantasticare più del necessario di acqua sotto il ponte ne passava.

«Disse il ventitreenne che stringeva fra le braccia il peluche di un unicorno con la coda arcobaleno» lo apostrofò critica Rachel.

«È un portafortuna. Me lo hanno regalato i miei papà per i miei quindici anni!»

«Fa lo stesso. Non ti chiedo di credere nella Fatina dei Denti, ma solo di... beh, essere un po' più ambizioso e audace. Si vive una volta sola, Alex.»

‟Si vive una volta sola..."

Le parole di Rachel tornarono in mente ad Alex quando, il pomeriggio seguente, fermò l'auto a pochi metri da un alto cancello ormai corroso dal tempo e divorato dalla vegetazione che stava prendendo sempre più piede con l'andare degli anni. 

Si era incontrato con Andrew a casa di quest'ultimo e solo poi per uscire entrambi proprio per recarsi lì dove si trovavano in quel preciso istante. Alex, infatti, aveva deciso di mostrare a Andrew l'elemento di quella città dai retroscena più affascinanti e lugubri, ovvero la magnifica e ormai abbandonata villa situata quasi al limitare dei boschi che abbracciavano Hanging Creek. Quel posto di storie da raccontare ne aveva tante e molte di esse erano misteriose o tragiche, o entrambe le cose. Lui era uno dei pochi a non aver paura dell'edificio e ad esservisi recato più volte sin da quando era stato abbastanza grandicello da poter intrufolarsi all'interno di quelle mura in compagnia di Rachel, la quale adorava quel genere di esplorazioni tanto quanto lui.

Come raccontò a Andrew mentre superavano il cancello che non era affatto chiuso da un lucchetto, quella villa era antica, così tanto da risalire a inizio del diciottesimo secolo, e l'ultima volta in cui aveva avuto l'occasione di ospitare una famiglia era stata negli anni Venti del secolo scorso. Nessuno, in seguito, aveva più voluto aver a che fare con quella casa che si vociferava fosse maledetta o comunque causa di enormi sventure per tutti coloro che l'avevano abitata. Non c'era da stupirsi, quindi, che nessuno si fosse disturbato a mettere il lucchetto ai cancelli della tenuta, visto che ben pochi erano stati così coraggiosi da voler entrare in quei confini a detta di tutti stregati.

Andrew, che lo aveva ascoltato con attenzione e con grande interesse, si guardò attorno e a malapena riuscì a distinguere quel che rimaneva del giardino dalla vegetazione selvatica che aveva reclamato gran parte del territorio; la villa presentava uno stile architettonico che ricordava molto quello dei primi del Novecento, quando, secondo Alex, era stata ristrutturata, rimodernata e resa ancora più sontuosa dall'ultimo proprietario. Doveva esser stata suggestiva e splendida all'epoca, ma ormai la decadenza e il tempo si erano portati via molto del suo antico fascino. Pareva il set perfetto per una storia dell'orrore vecchio stampo, bisognava ammetterlo. «Sembri davvero informato su questo posto» osservò.

Alex sorrise debolmente. «Non le nascondo che ho una sorta di legame con queste mura» replicò un po' sibillino. 

«Dammi del tu. Non mi piacciono le formalità» lo apostrofò Thorne con disinvoltura. Più aveva modo di conoscere quel ragazzo e più si rendeva conto che possedesse un animo tutt'altro che superficiale.

«Davvero posso?» incalzò l'altro.

«Certo che sì. Non è che io sia poi così vecchio, dopotutto.»

«N-Non le dà fastidio?»

«Nossignore.» Lo scrittore incrociò le braccia. «Allora? Di che legame parli?»

Il ragazzo gli fece dunque segno di seguirlo e insieme aggirarono la villa e varcarono i confini di quello che Andrew riconobbe subito essere un cimitero privato, e anche bello vasto!
«Porca miseria, questo sì che è macabro» commentò, colto un po' alla sprovvista. «Stiamo camminando sopra i precedenti proprietari di questa villa? Sul serio?»

Alex soffocò una risata. «Suona un po' male, ma è così» confermò divertito. «Vieni.» Continuò a camminare con fare spedito e sicuro tra le lapidi e le statue che decoravano le tombe finché, a un certo punto, non si fermò di fronte a una di esse che appariva decisamente meno antica delle altre.

Andrew lo raggiunse. «Uhm... d'accordo, ti ascolto» fece perplesso.

Il ragazzo esitò, poi indicò la suggestiva tomba che sembrava molto di più un'opera d'arte scultorea, anziché un semplice luogo di sepoltura. A vegliare su di essa, infatti, v'era una statua a grandezza naturale che raffigurava una coppia, un uomo e una donna, abbracciata; talmente erano vicini, i due, che era impossibile distinguere i loro volti.

Si inginocchiò e accennò a due piccoli ovali nei quali erano presenti due fotografie color seppia dall'aria decisamente vecchia.

«Loro furono gli ultimi proprietari di questa casa. All'epoca venne ribattezzata Ever Manor. Lui...» spiegò Alex, soffermandosi sull'immagine che ritraeva un uomo di bell'aspetto dai capelli scuri e gli occhi che probabilmente dovevano esser stati chiari, forse azzurri, intento a sorridere con aria un po' spavalda e impunita a chiunque ricambiasse il suo sguardo immortalato per sempre in quello scatto. Una semplice occhiata era sufficiente a far intendere che quell'uomo fosse vissuto nei primi anni del Novecento e avesse goduto di una vita agitata: era di aspetto curato ed elegante, saltava decisamente all'occhio e tutto, dai capelli ben pettinati e la barba curata, dal completo di alta sartoria che ancora era possibile distinguere fino a quel non si sapeva cosa di aristocratico nei lineamenti, trasudava opulenta agiatezza.
«Era il ricco rampollo di una famiglia europea che un giorno capitò in questa città che all'epoca era vista come un tranquillo rifugio dalla vita mondana di quegli anni. Si chiamava Dante Evergard, pare fosse per metà spagnolo e per metà inglese. Dicono che non era più stato lo stesso dopo che aveva affrontato gli orrori della Prima Guerra Mondiale. Aveva perso, per giunta, suo fratello, e non era mai riuscito a riportarne a casa il corpo come aveva promesso ai genitori. Credo che fu per questo motivo che volle allontanarsi dall'Europa e decise di rifugiarsi in America e ricominciare una nuova vita qui, lontano dal caos che forse gli ricordava proprio la terribile realtà delle trincee. Fu proprio allora che conobbe lei.»

Il ragazzo indicò l'altra immagine che raffigurava una donna bellissima dagli occhi di cerbiatta e un viso aggraziato. Era dolce e fiera al tempo stesso, ben accostata a quello che sicuramente doveva esser stato, in vita, suo marito. Oltre a ciò, per qualche motivo aveva un'aria vagamente familiare, ma Andrew era sicuro di non aver mai avuto modo di vedere quel viso ritratto in qualche libro sui grandi del cinema e della musica del passato o in qualche film d'epoca in bianco e nero. Non era un'attrice o una cantante, eppure sì, qualcosa in lei sapeva di già visto.
«Greta Fawkes. Lei... beh... non era esattamente ricca e altolocata come lui, era la figlia di un abitante di queste zone e conduceva una vita semplice. Beh, le cose andarono come vanno spesso: si incontrarono e si innamorarono e lui, senza badare al parere dei genitori, decise di sposare quella ragazza. Si era innamorato follemente di Greta e non vi fu verso di farlo ragionare. I rapporti con il resto dei suoi parenti si incrinò, ma sembra che a lui non gliene importasse granché. Erano felici insieme e Greta, che pare avesse un carattere spumeggiante e solare, riuscì a far dimenticare al suo amato marito la guerra e a incoraggiarlo a godersi la vita. Fu allora che misero gli occhi su questa casa e Dante, che era pronto a soddisfare qualunque capriccio di sua moglie, non badò a spese nel far tirare a lucido la villa e a trasformarla in un posto che era invidiato persino dalla gente benestante dell'East Egg, infischiandosene della fama sinistra che aleggiava sul conto dell'edificio. Col senno di poi oserei dire che fosse una specie di Gatsby in carne e ossa e Greta, semplicemente, era la sua Daisy. In tanti si recavano fin qui per partecipare alle loro feste, ma erano trascorsi alcuni anni e ancora gli Evergard non erano stati allietati dall'arrivo del figlio che tanto avrebbero desiderato. Proprio quando stavano per gettare la spugna, però, ecco che nacque una bambina, Lydia. Fu la loro unica figlia e la amarono con tutto il cuore, ma poi, un paio di anni dopo, giunse la Grande Depressione e neanche gli Evergard, per quanto ricchi e potenti, vennero risparmiati dal crollo finanziario. Persero tutto e poco tempo dopo Greta si ammalò e non riuscì a sopravvivere. Suo marito ne uscì distrutto da ogni punto di vista e...»

Alex sospirò, amareggiato.

«Una notte i domestici si svegliarono di soprassalto quando, dal piano superiore, udirono il suono inconfondibile di uno sparo. Trovarono il padrone di casa a terra e in una pozza di sangue. Si era ucciso appena un paio di mesi dopo che era rimasto vedovo. Anche se dicono avesse promesso a Greta, sul letto di morte, che avrebbe resistito alle difficoltà per il bene della loro bambina, alla fine il dolore aveva preso purtroppo il sopravvento.»

Andrew, suo malgrado, si ritrovò a rabbrividire e non per il freddo. «Diamine, che storia» commentò rauco. Davvero ironico, poi, che quell'uomo fosse morto quasi come Gatsby, seppur suicida. Avrebbe voluto dire che lui non si sarebbe mai spinto a tanto, ma sapeva di non aver mai conosciuto qualcuno per cui sarebbe valsa la pena di uccidersi pur di raggiungerlo e rimanere insieme per sempre. Quel Dante, invece, pareva aver amato tanto la consorte da non esser riuscito a guardare avanti, da aver preferito morire anziché vivere senza di lei.

Tuttavia... per quanto tragico... quel gesto gli appariva anche un po' egoista. Una bambina era rimasta orfana di entrambi i genitori, ecco qual era stato il gran finale.

«Cosa ne fu di Lydia?»

Alex si rimise in piedi e si voltò per guardare Thorne. Sorrise di sbieco. «I suoi nonni paterni non vollero saperne di lei e così furono quelli materni ad accoglierla e a crescerla. Purtroppo suo padre si uccise sul momento, senza alcuna premeditazione, e se ne andò senza un testamento che consentisse a Lydia di ereditare quel poco capitale che era rimasto e anche la casa che finì in mano ai suoi nonni paterni, poi a dei loro parenti. Ora come ora sembra che sia ancora di proprietà di un loro discendente che tuttavia se ne infischia della casa e della sua sorte. Lydia crebbe sana e forte, a diciannove anni si sposò e... beh... una generazione dopo l'altra... ecco qui il sottoscritto: Alexander Woomingan. Ecco perché ho detto, prima, di avere un legame con questa casa, con coloro che hanno vissuto là dentro. Senza di loro io oggi non sarei qui o forse... forse sarei nato comunque, ma con un aspetto e un nome diversi, un carattere differente. Un po' è orribile a dirsi, ma è stato anche il dolore delle persone che riposano sotto questa lastra di pietra, non solo l'amore che li ha legati, a far sì che io potessi esistere così come sono anche in questo momento.»

Andrew si accigliò. «Frena un secondo... sono i tuoi trisavoli? Sul serio?» chiese indicando la tomba. Forse finalmente aveva capito il perché qualcosa in Greta gli avesse ricordato qualcuno di già visto: lo aveva davanti a sé proprio in quel momento. Pazzesco, certo, ma Alex somigliava in qualche maniera alla propria antenata, tanto che era difficile concepire che vi fossero diverse generazioni a separarli. Ancora una volta gettò un breve e attento sguardo alla vecchia fotografia. Era pressoché impressionante.

Il ragazzo, nel frattempo, annuì e per buona misura si tracciò una immaginaria X sopra il cuore a mo' di giuramento. «Serio come la peste» ribatté con semplicità. «Forse è vero ciò che dicevi tu ieri, non a tutto c'è un rimedio, ma... persino dalle situazioni peggiori e dalle tragedie più dolorose può rinascere qualcosa di buono, una speranza. La fenice che si risolleva dalle proprie ceneri, no?» Ancora una volta indugiò sul luogo di sepoltura di quelle due persone che per ovvi motivi non aveva potuto conoscere, se non tramite una malinconica storia che era stata tramandata attraverso le generazioni. «Se c'è una cosa che ho capito grazie a loro, è che per amore, quello vero, si è disposti a tutto, anche a voltare le spalle alla propria famiglia e alle convinzioni di un determinato ceto sociale. Si va contro tutto quanto per la persona che ci fa sentire... non completi, ma arricchiti e più forti, in grado di rendere il mondo che ci circonda più piacevole e colorato. Se si è capaci di fare questo, allora mi chiedo perché sia così difficile perdonare o chiedere perdono. Davvero si sta così bene sapendo di aver lasciato questioni in sospeso con qualcuno? Io non credo. Non crederò mai e poi mai che esistano persone che riescono a tollerare di buon grado di non essere in pace con il prossimo, di vivere di rimorsi e rimpianti senza mai un attimo di tregua. Umanamente è impossibile.»

Gli occhi verdi di Andrew per un paio di secondi si soffermarono sulle lettere in rilievo scolpite nella pietra, lì dove v'era il nome di entrambe le persone che riposavano là sotto da tanti anni, e un po' lo colpì scoprire che i coniugi fossero entrambi venuti a mancare quando erano ancora giovani: lei a trentun anni, lui... accidenti, era morto a trentatré anni, la stessa età che ora aveva lui stesso, Andrew.

Dovevano aver amato davvero molto quella casa per aver deciso di voler essere tumulati entrambi lì ed era un po' straziante che il vedovo Evergard avesse deciso di venir deposto accanto alla moglie, nella stessa fossa.

«Non so cosa dire, onestamente» disse infine Thorne, togliendosi per un paio di secondi gli occhiali da vista per stropicciarsi gli occhi che, per un motivo o l'altro, gli pizzicavano. Quanto aveva fino ad allora udito, specialmente il discorso del ragazzo di poco fa, aveva posto una sorta di macigno sul suo stomaco. Inforcò nuovamente le lenti e fece un respiro profondo. «Insomma... mi chiedo se sia realmente positivo un sentimento che a volte spinge coloro che lo provano a spararsi un colpo in testa perché non riescono a guardare avanti senza la persona che amano. Forse non è poi diverso da tante altre droghe e alla fine ti lascia solamente più vuoto e solo di quanto non fossi prima di innamorarti. Fa davvero così bene o è solo l'ennesimo inganno della mente umana, l'ennesimo ostacolo che la gente si fabbrica da sola?»

Alex sospirò. «Penso che dipenda molto da persona a persona. Voglio dire... nel caso del mio trisavolo, lui era una persona spezzata da prima di conoscere sua moglie, no? La Grande Guerra fu terribile e sanguinosa, un trauma che tanti di quelli che vi avevano preso parte non riuscirono mai a superare. Greta gli aveva restituito un po' di pace e speranza, ma quando morì... penso che lui finì per cedere alla paura di vivere senza più quella speranza ad animarlo. Soffriva troppo. Il suicidio non è un gesto egoista, ma un atto disperato e solitario. Si arriva a compierlo quando non si vede altro che buio ovunque si posi lo sguardo e... beh... si sa, no? Sin dai tempi antichi l'uomo prova un terrore inconscio e assoluto per il buio e e ciò che potrebbe trovarcisi dentro. Soffriva troppo e voleva che il dolore finisse, in un modo o nell'altro. Voleva smettere di avere paura di quelle tenebre che lo terrorizzavano, ora che l'unica luce capace di rischiarargli il cammino era venuta a mancare.»

«Ma sua figlia...»

«Quell'uomo non era in sé. Nessuno lo è quando arriva a puntare contro la propria tempia la canna di una pistola. Secondo ricerche affermate molti di quelli che hanno tentato di togliersi la vita poi affermano di essersene pentiti, una volta che hanno analizzato più lucidamente la situazione e ciò che li ha portati a cercare di uccidersi. Sostengono di averci ripensato e di averlo fatto un attimo prima che fosse troppo tardi. Spesso è un gesto impulsivo e non penso che in quel preciso istante lui pensasse alle conseguenze della propria morte. Forse, anzi, era convinto che sua figlia sarebbe stata meglio senza un padre distrutto e incapace di reagire al lutto, nonché risollevarsi dopo esser stato colpito dalla crisi economica.»

Andrew si morse il labbro inferiore mentre scrutava il ragazzo. Più lo ascoltava e più aveva modo di metterlo a fuoco, di conoscerlo, e iniziava a intravedere una persona dall'animo sensibile, anzi compassionevole, nonché creativa e riflessiva. Insomma, un esemplare di essere umano che non sempre si aveva il piacere di osservare e incrociare. Ormai era davvero arduo conoscere qualcuno che non si fermasse sempre a giudicare a priori il prossimo, anziché sforzarsi di comprenderlo e provare empatia, mettersi nei panni altrui per capire l'altro.

Lui stesso con l'andare degli anni si era fatto più coriaceo e indifferente a tante cose, più anestetizzato di fronte a molte delle tragedie quotidiane che si verificavano nel resto del mondo. Lui stesso, per svariati motivi, aveva rinunciato alla capacità di entrare in empatia con le persone che aveva di fronte. Era molto più facile, d'altronde, farsi scivolare di dosso certe questioni anziché star lì a rifletterci sopra e a farsi il sangue amaro.

«Quelli sembrano fin troppo recenti per trovarsi qui dai tempi del funerale» osservò, accennando ai fiori ormai un po' appassiti che si trovavano proprio sopra la lastra di marmo, ai piedi della statua. Si trattava di un mazzo di rose bianche e immacolati gigli.

Il ragazzo parve riscuotersi da una specie di profonda riflessione. «Oh, quelli? Ce li ho messi io. Ogni tanto lo faccio.»

«Perché?»

«Non voglio che... dovunque siano ora... si sentano dimenticati e destinati a svanire nell'oblio. Voglio che sappiano che i loro discendenti li ricordano ancora e in qualche maniera li rispettano e vogliono loro bene, pur non avendoli mai conosciuti. Sono parte della famiglia e nessuno, in una famiglia, dovrebbe essere dimenticato o lasciato indietro.»

«Davvero pensi che ci sia qualcosa dopo la fine? Che rimanga qualcosa di una persona dopo che se n'è andata per sempre?» incalzò di nuovo Andrew, mettendosi le mani in tasca. Era come se pendesse dalle labbra del suo giovane interlocutore.

Alex lo guardò e sorrise appena. «Mi piace pensare di sì e... beh... qualcosa rimane dopo la morte. Io stesso lo dimostro, no? L'amore che legava le persone che sono sepolte qui è sopravvissuto al tempo e alla morte stessa, è stato tramandato e conservato attraverso la nascita di ogni nuova generazione e una piccola parte di esso è anche dentro di me. Qualcosa resta eccome. Lo fa sempre.» Fece qualche passo indietro e guardò un'ultima volta la tomba, poi accennò alle proprie spalle. «Ti va di entrare e curiosare o hai paura di incrociare qualche fantasma?» chiese, un po' per smorzare la tensione e un po' perché l'intensità dello sguardo che lui e Andrew si erano appena scambiati lo aveva disorientato e fatto sentire strano, anche se non in modo negativo.

Era... come dire? Una di quelle sensazioni che di solito solo ai protagonisti di un libro o di un film capitava di avvertire: la sensazione di aver già conosciuto o incontrato altrove qualcuno. Il fermarsi a riflettere e capire che quello, forse, non fosse un primo incontro, bensì una riunificazione. Una sorta di vago déjà connu, fenomeno che, per l'appunto, si verificava quando si aveva l'impressione di aver già conosciuto da qualche parte, chissà quando, una persona.
Non aveva mai parlato così tanto e in termini così profondi con qualcuno, prima di allora, e ora eccolo lì a conversare di temi pesanti che sfociavano quasi nella filosofia con una persona che a malapena conosceva, come se lui e Andrew fossero amici da una vita intera. La cosa strana era che, a sua insaputa, Andrew avesse appena provato la stessa, identica cosa.

Lo scrittore si riscosse. «Ma quali fantasmi!» fece scherzoso. «Fammi strada, sempre che non sia tu ad aver paura di metter piede là dentro.»

«Per tua informazione ormai conosco ogni anfratto della villa. Ci sono stato mille volte» lo rimbeccò il ragazzo rifacendogli il verso. Thorne gli restituì un'occhiata appositamente scettica e insieme a lui fece il giro della tenuta ripercorrendo a ritroso il sentiero che li aveva condotti al cimitero privato. «Hai detto che sono accaduti altri fatti tragici in questa casa» disse mentre si accingevano a salire i gradini dell'ampio portico ormai fatiscente e a sua volta ostaggio di una paurosa quantità di rampicanti. «Se è così, allora mi chiedo perché le persone abbiano continuato a venire a viverci, visto che godeva di una pessima fama.»

Mai avrebbe capito cosa passasse per la mente a quelli che andavano ad abitare in edifici dove si erano consumati fatti atroci o misteriosi e liquidavano il tutto con una scrollata di spalle. Non che lui fosse superstizioso, riteneva le maledizioni e affini solamente delle sciocchezze degne del medioevo; il punto era che, semplicemente, al posto di quelle persone non si sarebbe sentito a proprio agio a vivere in un posto dove in passato altri erano morti per cause tutt'altro che naturali.

Era morboso, a suo parere, e anche di pessimo gusto.

Alex con cautela aprì il portone di legno intarsiato e rovinato, nonché ornato di quello che, persino dopo decenni e decenni, ancora era riconoscibile come autentico vetro Tiffany. Davvero strano che fosse riuscito a pervenire fino ai giorni attuali e a sopravvivere a eventuali episodi di vandalismo o danni inferti da eventi atmosferici, eppure eccolo lì, seppur sbiadito e in un certo senso corrotto dall'avanzare del tempo.

«Se vuoi sapere il mio parere, non mi sognerei mai di comprare questa casa e ristrutturarla per abitarci. E non perché non avrei mai così tanti soldi o perché fra le sue mura sono morti due membri della mia famiglia, ma... insomma... credo che certi luoghi, specialmente dopo aver conosciuto così tanto dolore e così tanta morte, andrebbero semplicemente lasciati in pace. Secondo quel che dicono in città è come se fosse la stessa casa a non voler essere disturbata, altri dicono che forse sia stata costruita la prima volta su qualche luogo di sepoltura dei nativi americani che abitavano qui prima della colonizzazione, ma... non lo so, mi sembrano cretinate alla Amityville.»

Andrew si accigliò. «Quindi secondo te come sta la storia?»

«Non lo so. Forse le mura di una casa tendono ad assorbire ciò che i suoi occupanti provano e se spesso si tratta di emozioni o sentimenti negativi... beh, tendono a restare impregnati in ogni singolo mattone. Una teoria più logica e concreta è che spesso ad aver tradito gli abitanti della villa sia stata l'autosuggestione. Magari si sono spaventati a furia di sentir dire in giro che era maledetta e hanno finito per crederci e lasciarsi condizionare.»

«Così tanto da lasciarci le penne?»

«La mente umana è un mistero, no?» Alex entrò per primo e lo fece con una giusta dose di cautela. Anche se quella casa si mostrava conservata decisamente meglio rispetto a molte altre, tanto che persino il tetto, secondo i più, risultava ancora solido e stabile, non si era mai troppo prudenti.

Andrew lo seguì e mentre si guardava attorno cercò di immaginare come dovesse esser stata quella villa all'apice dello splendore, poco dopo che il restauro era stato completato per permettere ai nuovi padroni del terreno di andare ad abitarci. Era esattamente la dimora che ci si sarebbe potuti aspettare negli anni Venti del secolo scorso, prima che la Grande Depressione stroncasse l'economia americana e trascinasse a fondo con sé un gran numero di famiglie e imprese.

Se ci si concentrava a fondo, era quasi possibile intravedere in quell'enorme ingresso un tempo stato grandioso ed elegante sfilare coppie a braccetto abbigliate secondo la moda dell'epoca e udire l'eco lontano della musica al cui ritmo tanti giovani erano stati soliti ballare e divertirsi.

Non era difficile immaginare i due giovani e sorridenti padroni di casa accogliere i loro ospiti e dar sfoggio della propria ricchezza, di abiti d'alta sartoria e buone maniere.

Tutto questo aveva rappresentato l'emblema del sogno americano, di una terra dove tutto sembrava possibile, almeno finché si avevano i soldi per realizzare i propri sogni o un bel po' di sfacciataggine tramite la quale renderli concreti. Tante altre persone non erano state altrettanto fortunate e avevano vissuto nella totale miseria, nel massimo degrado; gli anni Venti erano stati l'era del proibizionismo, di Al Capone e della criminalità organizzata in ascesa; all'epoca le persone di colore erano ancora trattate come esseri umani di serie B e avevano spesso vissuto ai margini della società; razzismo, maschilismo e tanta ipocrisia, tante bugie e crimine per le strade, ecco cos'erano anche stati gli anni Venti. Non era tutto oro ciò che luccicava.

«È rimasto tutto com'era» osservò lo scrittore dopo un po' di silenzio che parve durare un'eternità. In effetti erano ancora presenti i mobili, per quanto celati da lenzuola che li facevano somigliare a dei fantasmi o imprigionati sotto strati di polvere e ragnatele così intricate da somigliare a intricati merletti.

Spettrale e malinconico, ecco come appariva quel posto. Pareva quasi che il tempo si fosse cristallizzato, malgrado il generale stato d'emancipazione. Qualcosa là dentro, proveniente da un passato ormai andato perduto, ancora aleggiava, come se l'atmosfera dell'epoca fosse essa stessa il vero e unico fantasma a sospirare silenziosamente per i polverosi corridoi. C'era e non c'era, sempre più fragile e corroso dagli anni, sempre più ridotto a un sordo e triste eco.

«Fa venire la pelle d'oca, vero?» lo rimbeccò il ragazzo, il quale a sua volta era intento a passare in rassegna l'ambiente come se non avesse mai messo piede nella villa prima di allora, anche se era l'esatto contrario. Seguì Andrew che, fattosi coraggio, iniziò a esplorare le altre stanze. «Porca miseria, c'è persino ancora un grammofono con un disco di vinile, lì» fece Thorne, indicando l'oggetto in questione che troneggiava su un tavolino posto poco lontano dai divani e dalle poltrone che si trovavano di fronte all'imponente e buio caminetto. Non resistendo alla tentazione, si avvicinò e con cautela allontanò l'ago; sollevò tra le mani sempre con prudenza il disco impolverato e vi soffiò per sopra. Purtroppo l'etichetta era stata corrosa dall'incuria e dal tempo ed era ormai così sbiadita da risultare illeggibile. Non era sicuro che l'apparecchio, poi, fosse ancora in grado di funzionare.

Un po' deluso rimise a posto il disco e tornò a guardarsi in giro. C'erano il mobile dei liquori, un vaso di vetro opacizzato dalla polvere dove forse, una volta, v'erano stati dei fiori freschi e rigogliosi; il tappeto doveva aver presentato, ai suoi tempi, un meraviglioso intreccio di colori tenui e chiari, prima di trasformarsi in qualcosa di anonimo e polveroso.
Un brivido lo colse nel notare, infine, che sopra il ripiano del caminetto fosse ancora presente un bicchiere il cui contenuto era ormai evaporato da un bel po'. Quello sì che era un dettaglio da pelle d'oca e si faceva subito a capire a chi fosse appartenuta la mano che aveva posto quell'oggetto là sopra. Forse lo sfortunato proprietario della villa aveva abbandonato lì il bicchiere di cristallo la stessa sera in cui poi si era ammazzato. Una cosa era certa: non doveva esser stato del tutto sobrio, quella volta. 

«L'ho notato anch'io, la prima volta che sono venuto qui» fece il ragazzo, guardando nella stessa direzione. «E... sì... aveva iniziato ad alzare parecchio il gomito, poco prima della sua morte.»

«Un classico» commentò rattristato Andrew. «Credici o no, ma so che significa avere in casa una persona che si lascia sviare da questo pessimo vizio.»

«Mi dispiace» disse Alex sincero. «Spero che non abbia causato troppi danni quella situazione. Insomma...»

Lo scrittore sbuffò una risata tetra. «C'è mancato poco. Non che mio padre abbia mai alzato le mani su me o mia madre, si intende, però... era terribile vederlo in quel modo. Lo pregavo in lacrime di smetterla e mia madre, invece, si arrabbiava con lui e iniziava a urlargli addosso. Dopo un po' si convinse a chiedere aiuto e a uscire dal tunnel nel miglior modo possibile e... beh, c'è riuscito ed è ancora vivo e in salute. È andata bene, tutto sommato.» Di solito non parlava di quelle cose con gli altri, specie quando si trattava di questioni di famiglia strettamente private, ma... aveva la netta sensazione che con Alex le dinamiche avessero regole differenti. «Almeno non si è sparato un colpo in testa, ed è già qualcosa.»

Alex sorrise. «L'importante è che si sia ripreso e non sia mai arrivato al punto di sfogare la propria frustrazione sulle persone a lui care. Hai avuto un'infanzia relativamente tranquilla, quindi?»

Andrew si strinse nelle spalle e finse di riflettere. «Mhm, sì, a parte quella volta in cui io e i miei cugini le prendemmo di santa ragione perché avevamo distrutto il prezioso servizio di porcellane cinesi della nonna. Diamine, ancora mi pare di sentire la potenza del manrovescio di mia madre sulla guancia! Quello sì che fu traumatico!»

Il ragazzo scoppiò a ridere. «Ma che...! E io che pensavo si trattasse di qualcosa di veramente serio!»

«Parli così solo perché non sai che belva è capace di diventare mia madre, se si arrabbia. Sembra Satana in persona!» continuò impunito Thorne, contagiato dall'ilarità del giovane cameriere. «E tua madre, invece?» chiese poi, volendo davvero sapere di più sul conto del ragazzo.

Alex esitò. «Uhm... è un po' complicato.»

«E che complicato sia. Spara.»

«Beh, teoricamente ho una madre, ma...» Il biondo si sfregò la fronte. Ogni volta che doveva raccontare i retroscena legati alle sue origini era sempre un bel casino e non era mai stato bravo a spiegarsi. «Ho due papà e lei era, ed è ancora, la migliore amica di uno di loro, Daniel. Beh... all'epoca non erano tempi facili per le coppie gay, come ben si sa, e non era contemplato per loro avere una famiglia, dei figli. Non erano riconosciuti come un nucleo famigliare a tutti gli effetti. Questa loro amica, Wanda, ovvero la donna che mi ha dato alla luce e con cui sono rimasto in buoni rapporti, alla fine si offrì di sua spontanea volontà di fare una cosa che non tutti, a quel tempo, avrebbero fatto: dare la possibilità a due suoi cari amici di essere genitori, di avere un figlio da crescere e amare. Quindi... beh, venne usato il seme di Daniel e otto mesi dopo nacqui io. Venni adottato subito da lui e anche dal suo compagno, Christian, seppur non sulla carta. Mi crebbero assieme e sono fiero di affermare che tutto sommato abbiano fatto del loro meglio. Non ho mai avuto l'impressione che mi mancasse qualcosa rispetto agli altri o Dio solo sa cos'altro, come sostiene certa gente. In breve, ho una famiglia allargata, ma voglio bene ai miei papà e anche a Wanda, sono le persone più importanti nella mia vita e non sarei chi sono oggi senza di loro.»

D'accordo, questo non me l'aspettavo, pensò Andrew. «Wow, sembra quasi la trama di un film» commentò, davvero colpito.

«Me lo dicono tutti ogni volta» lo rimbeccò Alex divertito. «Almeno quando non sono costretto a star a sentire gli sproloqui dei soliti campioni che iniziano a borbottare che non è moralmente giusto che due persone gay crescano un bambino, bla bla bla. Peggio ancora quando poi mi permetto di far loro notare che sono gay anch'io e non mi piace che si parli così di una questione che mi coinvolge da ogni punto di vista. A scuola un simpaticone, una volta, mi chiese chi dei due miei papà facesse la parte della mamma. Inutile dire che gli feci un occhio nero e finii in punizione per due settimane di fila, ma ne valse la pena.»

«E come andò a finire dopo quell'occhio nero?» incalzò Thorne, scegliendo di sorvolare su quanto l'aver saputo che il ragazzo fosse a sua volta interessato agli uomini, anziché alle donne. Si sentiva sollevato a quella notizia, lo ammetteva.

Alex incrociò le braccia e fece spallucce. «Non mi crederai mai, ma quello stesso simpaticone, due anni dopo, diventò il mio primo e ultimo fidanzato. Un classico, direi.»

«Sul serio?»

«Sì, sul serio.»

«A quanto pare quel pugno gli aveva rimesso in moto il cervello.»

«Sì, all'epoca arrivai alla stessa conclusione. Non era così male, a conti fatti, ma alla fine ci lasciammo perché... non lo so, lo reputavo ancora un immaturo e aveva progetti diversi dai miei. Per quel che ne so, ora studia a Yale ed è single. Ha cercato di riallacciare i rapporti con me in un modo che palesemente voleva andare oltre l'amicizia, ma... insomma... la minestra del giorno prima riscaldata non piace a nessuno, men che meno al sottoscritto. E poi non eravamo così compatibili e io non me la sentivo di seguirlo e lasciarmi alle spalle la mia famiglia e questa città, specie perché sapevo che non era l'uomo adatto a me. Non riuscivo a immaginarlo al mio fianco a distanza di dieci anni, tanto per fare un esempio. Non era la persona con cui un giorno avrei magari deciso di avere una famiglia con tanto di cane e gatto. Non fraintendermi, avere tutto questo mi piacerebbe, prima o poi, ma voglio averlo con la persona giusta.»

«E fino ad ora com'è andata con la ricerca di questa persona?» chiese Thorne, squadrandolo e cercando di suonare il più neutrale e vago possibile.

Alex fece spallucce. «Lo sai: lavoro e disegno. Perché me lo chiedi?» Iniziava a credere che forse Rachel non avesse tutti i torti, per quanto continuasse a imporsi di rimanere coi piedi piantati per terra e di non farsi illusioni. E poi conosceva da poco quell'uomo. Non aveva senso coltivare chissà quali ambizioni o speranze, no?

Andrew interruppe il contatto visivo fra di loro e schiarì piano la voce. «Uhm... in realtà ero curioso di vedere il resto della casa. Meglio proseguire finché abbiamo dalla nostra la luce del sole» si riprese subito.

Alex decise di lasciar correre e lo soppesò con aria furbesca. «Non dirmelo: vuoi sapere dove morì quel mio trisavolo, vero?»

«Sono uno scrittore e mi occupo del terrore, biondino. Da bravo, assecondami.»

«Un cliché vivente, direi.» Il ragazzo scosse la testa e alzò gli occhi al cielo, fingendosi esasperato. «Nel suo studio privato al piano di sopra.» Era stato anche in quella stanza e... accidenti, lì non aveva più avuto il coraggio di tornarci, non dopo che aveva visto quella macchia scura sul tappeto e, facendo due più due, aveva capito che quell'uomo era morto proprio in quell'esatto punto. Gli era parso quasi di sentir riecheggiare quell'unico e fatale sparo, per un attimo, e così fu anche quando, dopo un bel po' di tempo, per la seconda volta varcò la soglia dello studio illuminato solamente dalla luce del sole che filtrava attraverso le imposte socchiuse. Nell'insieme quell'ambiente, in particolare, era l'emblema dell'abbandono, l'archetipo di una stanza all'interno di una casa dove nessuno abitava più da molto, molto tempo. Permise a Thorne di procedere per primo e poi indicò la macchia sul tappeto. Con una certa difficoltà disse: «È... È davvero rimasto tutto com'era all'epoca. Mi è preso un colpo quando l'ho vista».

Era sensibile a certi argomenti e vedere quell'antico alone di sangue nelle trame del tappeto ormai rovinato lo aveva fatto sentire pressappoco male. Non osava immaginare cosa avessero pensato i domestici nel rinvenire il cadavere del padrone di casa. Doveva esser stato terribile venire ridestati nel cuore della notte da un colpo di pistola, vagare per le sale alla ricerca della fonte del suono e infine giungere lì e ritrovarsi davanti a uno spettacolo così macabro e triste. La governante aveva perso i sensi ed erano stati gli altri tre domestici lì presenti ad affaccendarsi prima nel far riprendere la donna e poi allertare le forze dell'ordine.

Stando ai resoconti delle persone che erano state interpellate dalla polizia locale, Evergard non aveva neppure lasciato un messaggio d'addio né aveva dato modo a qualcuno di prevedere cos'era poi accaduto. Alex, però, che in qualche maniera era riuscito a documentarsi e a rivangare nei dettagli dell'accaduto, era dell'idea che di avvisaglie ve ne fossero state tante. Più di un membro del personale della villa aveva ammesso che quell'uomo, dopo la morte della moglie, fosse cambiato un po' alla volta e sempre in peggio: sbalzi d'umore, rabbia, palese tristezza e a volte tracce di preoccupante apatia, insonnia e insofferenza generale, debole volontà di uscire di casa o addirittura dalla propria camera, progressiva dipendenza dall'alcool, esplosioni di pianto...

A conti fatti in molti avrebbero potuto scongiurare l'imminente tragedia, ma... erano altri tempi, purtroppo, e tanti altri fattori avevano impedito a chi assisteva di intervenire, di fare qualcosa; d'altronde se qualcuno avesse scelto di parlare a una persona competente della questione, sicuramente quell'uomo sarebbe stato internato in qualche struttura psichiatrica e forse col beneplacito dei genitori e dei parenti che lo avevano disconosciuto. Certo, il suicidio di Dante aveva comunque destato scandalo, ma in confronto al soggiorno in uno di quei posti orribili la morte appariva quasi una sorte benevola e preferibile. A quei tempi nessuno avrebbe mai voluto metter piede in quei luoghi, specialmente chi non era affatto pazzo, ma solo distrutto e segnato dal dolore della perdita.

«Gli unici che si comportarono in maniera davvero disgustosa furono i suoi parenti» disse rauco il ragazzo. «Avevano saputo della morte di Greta e invece che cercare di riavvicinarsi a Dante, lo abbandonarono a se stesso, rifiutarono di riavvicinarsi a lui fino alla fine, anche se quell'uomo, poco prima del suicidio, aveva più volte cercato di chieder loro aiuto,. Non vollero saperne della piccola Lydia e per quel che ne so, sembra che i vecchi Evergard avessero disconosciuto totalmente il loro unico figlio dopo la sua morte. Si vergognavano troppo, suppongo. Guai ad ammettere di aver qualche legame con un suicida.»

Andrew sospirò. Anche lui era parecchio disgustato da quella faccenda, ma tendeva a essere quasi sempre obbiettivo e lucido nell'elargire giudizi in merito a certe questioni, specialmente se così delicate e ambigue. «All'epoca il suicidio era condannato da molti» si permise di dire. «Si pensava che fosse un atto spregevole e degno di biasimo. Chi si toglieva la vita commetteva un peccato gravissimo. Tante famiglie si vergognavano quando un loro parente commetteva quell'atto estremo e facevano di tutto per nasconderlo o discostarsene. Se vuoi puntare il dito su qualcosa, puntalo contro la società dell'epoca e i suoi valori. L'apparenza era tutto e spesso è tuttora così. Cosa non farebbe la gente pur di mostrare al resto del mondo di essere perfetta e di avere un'esistenza impeccabile e felice!»

Alex si morse il labbro inferiore. «Non so se Dio esista o meno, però... credo che non sia affatto d'accordo con questa visione. Secondo me accoglie a braccia aperte le persone che soffrono tanto da rinunciare a vivere. Le stringe forte e sussurra loro che il peggio è passato e che ad attenderli ormai c'è solo la pace. Preferisco pensare a Dio come a un'entità misericordiosa, buona e dolce come solo un padre potrebbe essere. Se è il padre di tutti quanti, allora non ha motivo di odiare chi è più fragile e bisognoso di amore e comprensione.»

Come poteva un'entità suprema che intimava all'umanità di amare il prossimo incondizionatamente essere la stessa che poi respingeva e rifiutava chi era in difficoltà e vittima della cattiveria umana, di eventi che andavano oltre l'umano controllo? Non aveva senso.

Andrew lo scrutò. «Sono ateo, ma... apprezzo la visione che hai di certe cose. Dico sul serio.» D'altronde essere atei non voleva dire non rispettare l'opinione altrui e, anzi, era quasi un obbligo essere aperti a tutto, specialmente al dialogo e al confronto. Tutto si faceva decisamente più interessante e piacevole, poi, con un interlocutore che a sua volta rispettava le idee del prossimo e non le condannava. Alex faceva parte di quella categoria e Thorne, infatti, un po' alla volta stava prendendo sempre più consapevolezza di quanto fosse gradevole e stimolante parlare con lui. Era la prima volta che trascorrevano del tempo assieme in un luogo differente dal locale in cui il ragazzo lavorava, eppure erano così affiatati da dare l'impressione che quella non fosse altro che una semplice rimpatriata. 
Ne era passato di tempo dall'ultima volta che si era trovato così in sintonia con un altro essere umano. Decisamente troppo tempo, più di quanto mai avrebbe apertamente ammesso. «Mi auguro che tu abbia ragione, Alex.» Fino ad allora lo aveva chiamato per nome solo un paio di volte o tre, ma quando lo fece per la quarta volta fu come se quel nome avesse assunto un sapore diverso sulla lingua e sulle labbra. Quella sensazione era piacevole, in un certo senso rinfrescante. Vide il ragazzo rispondere alle sue parole con un debole sorriso e un luccichio traditore negli occhi grigi ed espressivi. Malgrado l'ambiente fosse cupo, dismesso e immerso nella penombra, era come se quel giovane cameriere dal cuore tenero riuscisse a rischiarare un po' tutto come faceva la fiammella di una candela circondata dal buio. «Vuoi... vuoi vedere altro?» chiese Alex, accennando all'uscita dello studio, lì dove c'era il corridoio. 

Andrew, per qualche motivo con la gola secca e un che di indefinito che pareva sbatacchiare nel suo cervello e renderlo meno propenso a macinare pensieri in maniera corretta, annuì. «Fammi strada.» Lo fece passare e nell'avere così vicino a sé il ragazzo, seppur per pochi secondi, di nuovo riuscì ad avvertire un lieve sentore di rose provenire da lui. Lo aveva notato quando avevano scattato quel selfie insieme il giorno prima, mentre avevano parlato per la prima volta il giorno in cui Alex gli aveva chiesto una dedica scritta e ora eccolo di nuovo lì. Era un po' inconsueto per un uomo portare un profumo così delicato e soave, eppure nessun altra essenza o fragranza si sarebbe sposata con lui meglio di quella.

Lo osservò uscire dalla stanza e solo alla fine si rese conto di esser passato dal guardargli la schiena a concentrarsi con una certa perizia sul fondoschiena, per giunta conscio di gradire quel che stava osservando.

Appena se ne accorse si tirò metaforicamente uno schiaffo e distolse lo sguardo in tempo, prima che il ragazzo, voltandosi, gli intimasse con un cenno della mano a seguirlo e a continuare con il giro della villa abbandonata.

Datti una regolata, si disse Andrew. Non merita di esser usato e gettato via come fai con tutti quelli che di solito ti porti a letto. È un bravo ragazzo, gli spezzeresti solo il cuore.

Con quel biondino era diverso e Andrew, mentre lo ascoltava parlare di altri retroscena legati all'edificio, capì di provare nei riguardi del giovane una sorta di embrionale, eppure già radicato, rispetto; un rispetto che non meritava di venire strangolato nella culla da una sveltina di poco conto.

La città più vicina a Hanging Creek era Enswell, un centro urbano più grande e più densamente popolato e trafficato rispetto all'altro che, al contrario, risultava calmo e un po' sonnacchioso. Era lì che Rachel, le poche volte in cui riusciva a convincerlo a uscire sul serio, trascinava Alex per trascorrere la serata e la notte prima in un ristorante e poi, se il giovane Woomingan era di umore abbastanza incline a simili concessioni, in discoteca. Benché lui odiasse posti del genere perché fin troppo caotici e rumorosi per i suoi gusti, posti dove circolava, a volte, anzi spesso, droga o materiale affine ad essa, odiava essere un guastafeste e accettava di accompagnare la sua migliore amica nei club notturni e così via, quasi sempre finendo per dover poi rimanere del tutto sobrio e scortarla fino a casa sana e salva.

Quella sera, tuttavia, era in compagnia di Andrew che, dopo che erano usciti dalla villa abbandonata, aveva proposto di trascorrere assieme anche la serata. Alex, dunque, aveva optato per raggiungere in auto Enswell, visto che non distava molto da Hanging Creek, e quindi eccolo lì a godersi una cena piacevole e semplice con uno degli scrittori che stimava di più al mondo e con il quale sentiva di aver raggiunto una certa sintonia.

Fino ad allora, per fortuna, nessuno pareva aver riconosciuto Thorne e andava bene così a entrambi.

Forse perché l'ambiente era accogliente e allegro, forse era anche per via del vino che avevano ordinato per accompagnare le pietanze, ma fra una cosa e l'altra ecco che erano tornati a confrontarsi su argomenti decisamente più personali e tutto fuorché filosofici e metafisici, ovvero le rispettive esperienze passate in campo sentimentale. Era stato così che Alex, alla fine, si era reso conto che Rachel ci avesse visto giusto su una cosa: a Andrew piacevano gli uomini, proprio come a lui, e se aveva ben capito... ora come ora era a sua volta single. 

«È orribile» commentò non appena lo scrittore ebbe terminato di narrare in breve il motivo per cui la sua ultima relazione seria fosse andata alla deriva. «Non riesco a capire perché la gente debba arrivare a tanto. Insomma... non sarebbe stato più onesto a dirti subito che le cose fra di voi non potevano più funzionare, invece di tradirti e farlo per un bel po' di tempo prima di confessartelo apertamente?»
Il suo ex, almeno, non lo aveva mai tradito, ma col senno di poi dubitava che gliene sarebbe importato realmente qualcosa o gli avrebbe fatto più di tanto male. Non riusciva dunque a immaginare quanto dovesse esser stato terribile per Andrew fare i conti con una cosa come il tradimento.

Thorne posò il calice di vino dopo aver sorseggiato brevemente suddetta bevanda e si strinse nelle spalle. «Secondo lui non gli davo abbastanza attenzioni e quindi è andato a cercare altrove quel che non riuscivo a dargli io. In effetti non ha alcun senso e avrebbe fatto molto meglio a chiarire tutto sin dal principio. Le cose si sono stiracchiate e alla fine ad averci rimesso di più è stato il sottoscritto.» Tenendo il bicchiere per il lungo e stretto collo, lo fece girare su se stesso sopra il tavolo di legno. «Avevo bisogno di liberarmi di questa storia, di lasciarmela per sempre alle spalle. È per questo che ho scritto All'ombra del salice. Non volevo neanche che venisse pubblicato, a esser sincero, ma il mio editore non ha voluto saperne e mi ha tampinato finché non ho ceduto e non gli ho permesso di agire come meglio credeva. Volevo liberarmi di quella faccenda, ma così l'ho immortalata per sempre e non riuscirò mai più a farmela scivolare di dosso. Odio quel libro, lì dentro è custodito il mio più grande fallimento ed è lì da vedere per tutti quanti, per chi crede che sia invece il mio massimo capolavoro. Ironica la vita, eh? Quasi sempre è ciò che ci distrugge a renderci grandi e importanti agli occhi altrui, poco importa se siamo solamente dei martiri.»

Ora sì che tante cose si spiegano, si disse Alex. Capiva finalmente come mai più volte avesse avuto la netta sensazione che Andrew avesse scritto quell'ultima storia in maniera più sentita, quasi con livore e... rabbia. Capiva perché l'altro protagonista, Liam, gli fosse apparso così vivo e reale, così visceralmente caratterizzato, anche se nella seconda metà del libro si era trattato di vivide allucinazioni di Ellis, di un uomo che stava sempre più sprofondando nell'alienazione partorita dal rimorso per aver ucciso accidentalmente il ragazzo che un tempo aveva amato e che poi era diventato il suo peggiore incubo, per quanto irreale e presente solo dentro la sua testa.

Spesso gli era toccato di interrompere la lettura per non incorrere in un autentico transfert emozionale e non farsi influenzare fin troppo dallo stato d'animo di quei due personaggi caratterizzati in modo talmente accurato da dare l'impressione che fossero davvero lì, davanti a lui, come in un film particolarmente interattivo. Gli era capitato raramente di farsi coinvolgere a quella maniera da un semplice libro e ora ecco che tutto appariva più chiaro e sensato.

Aveva ragione lui, dopotutto: Andrew aveva sofferto e aveva provato a far cessare il dolore e la frustrazione nell'unica maniera a lui possibile, ovvero scrivendoci sopra, come se ogni parola battuta al PC fosse stata un sorso di medicina ristoratrice capace di lenire il malessere e sradicare quest'ultimo dal suo cuore.

«Io... io vorrei provare a offrirti una visione diversa delle cose» disse infine, tamburellando le dita di una mano sul tavolo. «Dalle ceneri di una cosa dolorosa e difficile da digerire è nato qualcosa che ha dato la possibilità a tante persone di emozionarsi, di riflettere, anche, su quanto la vita possa esser breve e quanto ogni singolo istante sia importante. Spinge a pensare a quanto una bugia possa fare danni a volte irreparabili. Lascia un insegnamento, ovvero di essere sempre sinceri, specie con quelli che si dichiara di amare. Invece di distruggerti, lui così facendo ti ha reso non solo più forte, ma ti ha anche dato la possibilità di mostrare al prossimo di che pasta sei fatto. Ti ha reso un autore più affermato e apprezzato che mai, invece di demolirti. Non credo fosse questo il suo scopo, lui probabilmente era infelice e ha agito di conseguenza, ma così è stato. Tu... tu sei un artista e come tutti gli artisti non puoi rinunciare all'arte e all'amore che nutri per lei. Chi si innamora di un artista deve esser pronto a fare dei sacrifici e forse a comprendere che non potrà mai competere con l'arte e mai l'artista potrà separarsi da essa. O li si ama entrambi o non lo si fa, non c'è una via di mezzo. Insomma... se hai una relazione con un cantante, per esempio, devi fare i conti con la sua fama, con il suo esser una figura pubblica e famosa. Devi essere pronto, magari, a ritrovarti descritto in una delle sue canzoni, a volte come quello o quella che gli ha o le ha spezzato il cuore. Certi compromessi sono inevitabili e non tutti sono disposti ad accettarli, secondo me.»

Andrew sorrise di sbieco con molta ironia. «In breve, secondo te, dovrei guardare il lato positivo di tutto quanto? Se la vita ti offre dei limoni, fai una limonata?»

«Sì, più o meno è quello il succo, perdona il gioco di parole.»

«E se fossi un pessimista convinto e affermato?»

«Non lo sei per niente» fece Alex. «In ogni singola storia che hai scritto... alla fine i personaggi si rivelano per ciò che sono davvero, per i mostri che a volte sono realmente, e pagano per le loro colpe. C'è sempre una morale, un senso della giustizia ben definito, e trionfa sempre. Questo mi sembra tutto tranne che pessimismo, secondo il mio onesto parere.» A sua volta si portò alle labbra il proprio calice di vino rosso e corposo e con esso si rinfrescò la gola. Di solito era molto più incline a gustarsi una bibita ghiacciata, quando mangiava fuori casa, specie perché era raro che non finisse per cenare, in quelle circostanze, con un trancio di filante e calda pizza con la quale il vino ben poco si sposava, eppure ora stava bevendo proprio quest'ultimo e da quel che aveva capito, la marca Chianti era molto pregiata e ricercata, esportata dall'Italia. 
Parlare e interagire con Andrew gli stava facendo capire quanto fosse realmente vasto e variegato il mondo e quanto poco lui avesse visto, purtroppo, di esso. Era stato decisamente interessante ascoltare lo scrittore raccontare del proprio soggiorno di qualche settimana ad Amalfi e poi a Siracusa, dei magnifici e antichi templi greci che l'isola di Sicilia ospitava da millenni o ancora le due città romane conosciute ovunque per esser andate incontro a un tragico destino: Pompei ed Ercolano.
Alex in minima parte si era ritrovato a provare una velata invidia nell'udire quel racconto così dettagliato e spassionato, nonché a decretare che se mai un giorno le sue finanze glielo avessero concesso, anche lui avrebbe racimolato un po' di coraggio per godersi panorami suggestivi come quelli portati in esempio da Thorne. Si viveva una volta sola, dopotutto, e non voleva ritrovarsi un giorno sul letto di morte senza aver potuto allargare i propri orizzonti culturali.

Era comunque ironico che Andrew, per quanto fosse un uomo davvero intelligente e dotato di acume, quando si veniva a patti con altre questioni risultasse sì e no cieco e incapace di metter a fuoco sul serio ciò che aveva di fronte a sé. Appariva in superficie come una persona sicura delle proprie capacità, del proprio intelletto, e spigliata, ma ora che Alex stava un po' alla volta grattando via quell'iniziale patina di intellettuale arguzia e sofisticato cinismo, ecco che iniziava a intravedere una sagoma ben diversa, quasi fragile. Era difficile ricordare che certe persone, pur ormai avendo varcato le soglie del famoso Olimpo mediatico, rimanessero pur sempre esseri umani come tutti gli altri.

«Almeno uno di noi ne è convinto» gli rispose lo scrittore. «Forse farei meglio ad appuntarmi da qualche parte quel che hai detto prima per rileggerlo ogni giorno e ripetermi che non tutto il male vien per nuocere.»

«Infatti è proprio così» lo rimbeccò con naturalezza il ragazzo. «Nel bene e nel male, tutto quello che ti è accaduto in passato ti ha infine condotto a essere ciò che sei adesso e... beh, non credo tu possa lamentartene, no? Hai avuto successo nel lavoro, hai reso la tua passione qualcosa che ti permette anche di tirare avanti e pagare le bollette. Sei in salute e non solo la natura ti ha conferito una buona mente, ma... beh, guardati! A un certo punto hai detto che fra gli antichi Greci si era soliti rendere il connubio di bello e buono, quel kalòs e qualcosa, come il massimo ideale di perfezione, giusto? Per come la penso io, sei fra quelli che si avvicinano di più a questo ideale. Hai praticamente tutto, Andrew. Più di quanto tanti altri abbiano, comunque, e penso che quando una relazione termina, lo faccia per spianare la strada a qualcosa di meglio, di più speciale e unico. Basta solo avere pazienza.»

Andrew deglutì. «Posso essere franco?»

«Devi esserlo.»

«Non me ne importa poi un granché. Insomma... non viviamo nel mondo cui erano abituati i nostri nonni e oggi non è tassativo sistemarsi con qualcuno e vivere il tipico sogno americano. Sai, no... casa, famiglia, un labrador che scorrazza in giardino, rapporti perfetti col vicinato e roba simile. Non mi spaventa la prospettiva di rimanere single a vita e godermi un'esistenza da scapolo convinto. Non sono neppure adatto a quel genere di roba e non mi ci vedo più a farmi in quattro pur di far rimanere in piedi una relazione. Troppa fatica in cambio di niente, spesso e volentieri. A trentatré anni posso affermare senza tanti giri di parole di non avere più la pazienza né la costanza di correr dietro al prossimo e ai capricci altrui.»

Beh, accidenti, pensò Alex, per quanto quel discorso non lo avesse colto del tutto impreparato. «Non credo sia quello il punto. Non ci si mette insieme a qualcuno perché si deve farlo o per dimostrare qualcosa al prossimo. Lo si fa perché si vuole condividere la propria vita con una persona speciale, una che rimpiangeremmo ogni giorno, se dovesse venire a mancare o andarsene. Accade e basta, no? E spesso neanche ce ne accorgiamo. Non penso che il punto essenziale sia di correr dietro agli altri e prestare attenzione ai loro capricci, come li chiami tu. Il succo è che spesso amare se stessi non basta, non è abbastanza, ci vuole dell'altro. L'essere umano ha un bisogno fisico, spirituale e morale di amare. È nella sua natura farlo. Non siamo fatti per vivere come eremiti ed evitare di affezionarci al prossimo, almeno secondo la mia esperienza.»

Thorne trattenne un lungo sospiro. Di solito avrebbe roteato gli occhi e risposto a un discorso del genere che Biancaneve, a furia di vivere in un mondo tutto suo, di parlare con gli uccellini della foresta e mostrarsi ingenua con il prossimo, era finita per soffocarsi con un pezzo di mela avvelenata grazie alla sua crudele e gelosa matrigna. Come si faceva a parlare ancora di amore e roba simile quando al telegiornale si assisteva a una continua e interminabile sequela di notizie che parlavano di questa o quest'altra coppia che era andata a finire male, di mariti che ammazzavano le mogli e viceversa, di persone che compivano terribili crimini ponendo fine all'esistenza di coloro che avevano un tempo spergiurato di voler amare e rispettare per sempre?

Si arrivava a un punto in cui, semplicemente, non si credeva più in certi valori considerati ancora da molti immortali e imperituri.

Alex parlava come se non avesse mai sfogliato un giornale di cronaca nera o ascoltato un notiziario nei suoi ventitré anni di vita, come se fosse una persona al di fuori del tempo e dello spazio in cui viveva. Questo, di solito, avrebbe fatto innervosire Andrew, lo avrebbe spinto a liquidare tutto con un sorrisetto sardonico e accondiscendente, e invece, ora, si sentiva incapace di infrangere quella bolla iridescente nella quale il ragazzo viveva.

Francamente rendersi conto di star parlando con una persona genuinamente buona, una di quelle sempre disposte a dare una possibilità al prossimo, ad aiutare gli altri e ascoltarli, in qualche maniera lo spaventava, lo faceva preoccupare.

Quelli come Alex, ai giorni attuali, erano visti quasi come gli anelli deboli della catena, prede perfette per una testata giornalistica che si occupava di vicende tanto tristi quanto raccapriccianti. Non conveniva più essere buoni e aperti visto che prima o poi saltava sempre fuori il bastardo di turno pronto ad approfittarsene e a far pagare alto il prezzo di quell'ingenuità di fondo.

Se lui fosse stato un individuo armato di intenzioni tutt'altro che buone, a quell'ora Alex avrebbe già potuto fare una brutta fine. Si conoscevano da pochissimo, eppure aveva subito accettato di trascorrere con lui un giorno intero, addirittura di andare a cena fuori assieme come amici di vecchia data e questo... questo un po' lo spaventava e disorientava, proprio come lo spiazzava che lui stesso si fosse aperto così tanto con quel ragazzo, lui che di solito era una cassaforte rinforzata e non spiccicava parola circa la propria vita privata neppure a pagarlo a peso d'oro. E il vino non c'entrava niente. Lui reggeva bene l'alcool e non aveva bevuto poi granché. No, quello non c'entrava assolutamente niente. Era lucido, purtroppo.

«Suppongo che il tempo saprà se dar ragione a me o a te, prima o poi» sentenziò alla fine, scegliendo di non dire la propria circa quel che pensava sull'amore e i famigerati, quanto irreali e utopici, colpi di fulmine, sull'essere umano come esempio concreto dell'incapacità di certi essere viventi di stare da soli. Aveva smesso di credere a quelle cose tanto tempo addietro, forse mai ci aveva davvero creduto. Non credeva nell'amore che sopravviveva a tutto e a tutti, compreso il crudele tempo.

Per qualche motivo, comunque, si ritrovò ad avere la gola lievemente secca quando vide il ragazzo sciogliersi il dorato nodo in cui aveva sistemato i capelli e poi quelle onde quasi scintillanti nella soffusa luce del locale scendere e incorniciare il suo bel viso . Complici le rasature ai lati del capo che al momento solo da una certa angolazione era possibile notare, ora sì che Alex sembrava uscito direttamente dal set di Vikings e diamine se gli donava. Lo osservò scompigliarsi la fluente e folta chioma con le dita e scostarsela dal volto.

Ma porca puttana...

Si impose di smettere di fissarlo con aria ebete. Si era detto di non provarci in quel senso con quel ragazzo e ora che sembravano aver trovato una sorta di affinità non voleva guastare tutto andando a render torbido qualcosa che non lo era affatto solo per una scopata. Se l'era detto e ripetuto ore prima e la pensava ancora così.
Forse un altro se ne sarebbe fregato e avrebbe fatto quel che gli comandavano le parti basse, ma solo un idiota, anzi uno stronzo, avrebbe approfittato della situazione per portarsi a letto una persona come Alex. 

Tuttavia quell'attuale visione mescolata alla situazione in generale, al vino e sì, anche a quella dannata essenza di rose che ancora riusciva ad avvertire, rendevano arduo tener fede ai limiti che Andrew si era imposto. Probabilmente la verità era che non faceva sesso da troppo tempo e fosse attualmente sotto pressione, frustrato e così via. Ecco qual era il problema. 

«Se li tengo legati troppo poi mi viene sempre il mal di testa» spiegò il giovane, riportandolo alla realtà. «A quest'ora di solito sono a casa da un pezzo e li tengo così.»

«Uhm, no problem» replicò Andrew agitando una mano. «Anzi, così stai pure meglio.» Si morse la lingua e si trattenne dall'imprecare. Non gli aveva appena fatto una sorta di complimento, vero? Era solo una sua impressione del tutto errata, giusto?
Sei un coglione, Andrew Thorne, si disse snervato. La situazione peggiorò quando si rese conto che Alex aveva invece inteso la frase fin troppo bene, tanto da arrossire lievemente e dirigere altrove lo sguardo per qualche secondo. «Davvero? G-Grazie» biascicò.

«Pronto per montare in barca e razziare la Northumbria, direi» aggiunse Andrew nel tentativo di metter una sorta di pezza a una situazione che gli stava sfuggendo di mano.

Alex sbuffò una risata e sollevò il proprio calice di vino a mo' di brindisi. «Skål!» disse tra il serio e il faceto, pronunciando proprio la parola che i vichinghi un tempo erano stati soliti usare prima di bere alla salute di qualcosa o qualcuno. «Tu ci scherzi sopra, ma una volta io e Rachel siamo andati a una festa in maschera vestiti proprio come due personaggi di Vikings» fece poi, sbuffando una risata.

«Davvero?»

«Davvero davvero.»

«E tu chi decidesti di impersonare.»

«Lagertha. Una sua versione al maschile, almeno. Dovetti chiedere a Rachel di darmi una mano con il trucco sugli occhi perché non sapevo che cavolo fare. Accadde lo scorso anno, ma mi sembrano passati secoli. Una delle poche volte in cui sono riuscito a divertirmi sul serio a una festa.» Il ragazzo, comunque, preferì sorvolare sul fatto che a un certo punto si fosse ritrovato a un passo da un mènage à trois con due persone delle quali non ricordava quasi niente. Si era ripreso dal torpore dell'alcool in tempo per capire che non se la sentiva di andare avanti. Oltre al fatto che per sua natura non riusciva a eccitarsi con degli sconosciuti fino al punto da avere dei rapporti carnali, non gli andava a genio di andare a letto con una persona dopo aver bevuto come una spugna, mentre non era del tutto padrone di sé e soprattutto non era capace di ricordare se aveva con sé un profilattico o meno. Non si era mai troppo prudenti e non aveva mai fatto sesso con il suo ex senza protezioni. In quello era stato irremovibile e categorico.

Ma perché devo mettermi a pensare a queste cose proprio ora?

Per evitare di riflettere ulteriormente su questioni imbarazzanti e del tutto fuori luogo nella situazione attuale, estrasse dalla tasca dei jeans il telefono e dopo aver frugato per qualche secondo nel proprio profilo Instagram, posò l'apparecchio sul tavolo e lo girò di modo che Andrew potesse guardare le fotografie che aveva scattato quella sera alla festa in maschera. «Non fare troppo caso se in alcune ho la faccia da scemo. Ancora oggi mi vergogno di averle pubblicate!»

Lo scrittore lo squadrò brevemente e poi si concentrò sui vari selfie. Erano parecchi e in alcuni il ragazzo era in compagnia della sua inseparabile migliore amica abbigliata, proprio come lui, da guerriera vichinga. C'era da ammettere che avessero avuto molta cura nell'agghindarsi in vista dell'occasione, tanto da risultare davvero convincenti e realistici.

Alex, poi, con quell'aspetto in un certo senso selvatico e trasandato, quello di uno che sul serio pareva esser appena tornato da un campo di battaglia, sembrava un'altra persona. I suoi occhi grigi, grazie al trucco scuro volutamente sfumato male, risaltavano in modo particolare e suggestivo. Ipnotici, era quello il termine che meglio si sposava con essi.

«Eri parecchio abbronzato o sbaglio?» osservò di punto in bianco, sogghignando.

Alex si strinse nelle spalle. «Era estate ed eravamo appena tornati da Miami. Wanda abita in Florida con il marito e la figlia e quella volta ospitò me e Rachel per un paio di settimane a casa sua» spiegò in tono leggero.

Andrew annuì e per qualche ragione, appena vide un selfie in particolare che raffigurava il ragazzo in compagnia di un tizio che doveva esser stato sicuramente suo coetaneo, si premurò di far scorrere quasi di fretta il dito per scendere ancora e andare più a ritroso nella galleria Instagram. Quella foto gli aveva dato in un certo senso fastidio.

Poco dopo, comunque, vide che le fotografie della festa erano terminate e allora restituì il cellulare al suo legittimo proprietario.

«Sembravi divertirti parecchio» commentò poco dopo.

«Sì, beh... diciamo che verso la fine della serata avevo anche bevuto parecchio» ammise Alex, un po' imbarazzato. «Fummo costretti a prendere un Uber per tornare a casa e Rachel era talmente distrutta che decise di fermarsi a dormire da me. Dormimmo un pomeriggio intero e per fortuna era sabato.» Esitò. «Tu hai un profilo? Insomma... Instagram, Twitter, Tik Tok...?»

«Due su tre, ma è raro che pubblichi qualcosa» ammise Thorne con una smorfia. «I social non fanno granché per me.» Tanto per provare concretamente quanto appena affermato, prese in prestito il cellulare del ragazzo e dopo aver digitato velocemente il proprio username, trovò il profilo Instagram e infine lo mostrò ad Alex. «Come ho detto: è raro che mi ritrovi a bazzicare qui o su Twitter.»

Alex fu costretto a dargli ragione: non c'erano molte fotografie, ma una, in particolare, attirò la sua attenzione. «Ehi, è lui il tuo ex?» chiese, accennando allo scatto che ritraeva un Andrew leggermente più giovane insieme a un tizio. Era, constatò un po' in difficoltà il ragazzo fra sé e sé, decisamente un bel tipo: capelli bruni, occhi azzurri, lineamenti avvenenti e sguardo vispo.

Andrew solo allora ricordò che era stato proprio dopo aver rotto con il suo ex-fidanzato che aveva smesso sì e no di usare quella piattaforma social. Ecco fatto. Ben mi sta. «Sì» rispose con un profondo e pesante sospiro. «Quello è Dylan.»

«Non si può dire che tu ti accontenti delle briciole, eh?» buttò lì scherzoso Alex. «È un peccato che alla fine si sia rivelato un po' uno stronzo. Era molto bello.» Andrew, poi, in quella fotografia sembrava tutto sommato felice e preso dal fidanzato. «Dov'eravate qui?»

«Liverpool. Quella testa di che so io adora i Beatles e per lui era una tappa sì e no obbligatoria la città dove tutto era iniziato per il gruppo.»

«E com'è l'Inghilterra?» incalzò Alex, un po' per distoglierlo dai ricordi circa Dylan che con ovvietà lo infastidivano, un po' perché era davvero curioso.

«Uggiosa, piena di gente che parla con accenti e cadenze diverse da noi americani. Non così stereotipata, però.»

«Dai, dico davvero.»

«Non saprei. Siamo stati solo a Liverpool per tre giorni e poi siamo tornati qui in America, non abbiamo poi visto granché» ammise Andrew. «E per un motivo o l'altro non ho mai trovato la voglia o sentito la necessità di tornare nel Regno Unito.»

«È un peccato» commentò rattristato il ragazzo.  «Dopotutto in Inghilterra non esiste solamente Liverpool. Ci sono tante altre località da visitare e ammirare.»

«Non fa una piega» concesse Thorne. «Magari un giorno cambierò idea.» Notando l'espressione un po' fuori luogo del ragazzo, chiese se qualcosa non andasse e Alex non subito seppe come rispondere. «È molto tardi e domani mattina devo lavorare» rivelò con un velo di palese amarezza. «E non mi va di tornare a casa. È da un bel po' che non trascorro una serata tranquilla e piacevole come questa in compagnia di qualcuno e... mi sto rendendo conto che neanche con Rachel ho mai parlato così tanto tutto in una sola volta. Mi rende triste sapere che tra non molto finirà e dovrò tornare alla mia solita routine.»

Si trovava così in sintonia con quell'uomo che forse a rattristarlo davvero era la consapevolezza che Andrew, terminato il proprio libro, avrebbe fatto ritorno a Manhattan. Certo, in epoca moderna era facile mantenere una corrispondenza tramite telefonate, skype, social e quant'altro, ma niente avrebbe mai potuto sostituire il rassicurante e piacevole tepore di una chiacchierata a tu per tu, faccia a faccia, nessuno schermo elettronico in mezzo a rendere il tutto meno reale, quasi un'illusione.

Beh, si disse Alex, almeno conserverò per sempre il ricordo di questo breve periodo per il resto della mia vita. Potrò rallegrarmi sapendo di aver potuto conoscere un po' meglio uno degli scrittori che più ammiro e rispetto.

Una consolazione dolce e amara, senza dubbio, ma sempre meglio di niente. Il rimpianto non era altro che il fantasma di un ricordo che mai si era realmente concretizzato, di un'azione mai compiuta e una vicenda mai vissuta, e sarebbe stato sempre peggio della nostalgia. La nostalgia consolava e amareggiava, era al tempo stesso una calda coperta nella quale raggomitolarsi nei tempi bui e un filo di metallo stretto attorno al cuore che di tanto in tanto rafforzava la propria morsa e tornava a causare dolore, ma in fin dei conti non era proprio quello l'equilibrio perfetto? Le cose più belle facevano sorridere e piangere nello stesso, medesimo istante. Erano il bianco e il nero che per sempre si sarebbero rincorsi senza mai davvero mescolarsi.

Andrew, che aveva gettato un breve sguardo all'orologio che recava al polso per sincerarsi che l'ora fosse realmente così tarda, dovette controllare una seconda volta il quadrante, visto che le parole del suo giovane interlocutore gli avevano messo addosso una sorta di malinconia e distolto dall'intento. Si ritrovò a condividere quel pensiero e a maledire il tempo per essersi beffato di entrambi e aver volutamente schiacciato l'acceleratore.

Non era possibile che fossero quasi le una di notte. Insomma... gli sembrava di esser entrato in quel locale con Alex solo mezz'ora prima!

«Anche a me ha fatto piacere trascorrere questa serata con te» disse infine, non potendo proprio farne a meno. In fin dei conti era la verità nuda e cruda, inutile girarci attorno, e che gli piacesse o meno Alex aveva catturato ormai il suo interesse. Vedendo che stava per estrarre un piccolo portafogli, con un gesto della mano gli intimò di aspettare. «Metà per uno. Mi sembra più equo, no?»

«Sicuro?»

«Certo che sì.»

Quando una cameriera raggiunse il loro tavolo con il conto, dunque, Alex le consegnò metà della somma totale in contanti; Andrew, invece, come sempre optò per la propria American Express. Quasi mai andava in giro con dei soldi liquidi e attento com'era a non scialacquarli mai in inutili frivolezze, non temeva di rimanere a secco e di fare la solita pessima figura che consisteva nel farsi dire che la carta era stata rifiutata.

Non che fosse tirchio, ma per quanto i suoi introiti fossero considerevoli, non era fra quelli che subito decidevano di spenderli in auto sportive lussuose o abiti firmati. La vanità, d'altronde, non si addiceva a uno scrittore serio, e di quei tempi era molto meglio esser parsimoniosi anziché inutilmente spendaccioni.

Mentre usciva dal locale al fianco di Alex, si sistemò meglio la sciarpa di cotone ai lati del collo nell'avvertire che c'era stato un netto calo di temperatura rispetto a quello stesso pomeriggio. Si disse che per fortuna Alex, essendo di quelle parti, era stato abbastanza previdente da portarsi dietro un trucker di jeans dotato all'interno di una leggera imbottitura.

Cercò di non guardarlo con troppa severità nel notare che era impegnato a trafficare con l'accendino e reggeva fra le labbra una sigaretta. «Non serve dirti che è pessimo per la salute, vero?» buttò comunque lì. «Sai che il fumo fa invecchiare prematuramente la pelle, tanto per dirne una?»

«Spoiler: tanto un giorno moriremo tutti comunque» lo rimbeccò con un sorriso sghembo il ragazzo, stringendosi nelle spalle e facendo un tiro. «Non dico che sia giusto e sacrosanto velocizzare il processo, però... non fumo con costanza e una volta ogni tanto non mi uccide di certo.» Si ficcò l'accendino in una delle due tasche del giubbotto. «Una volta ho persino accettato di fumare marijuana con Rachel e uno dei suoi storici ex!»

«Mosca cieca in autostrada? Provato anche quello?»

Alex soffocò una risata. «Non sono poi così poco affezionato a me stesso, su!»

«Lo sai che la marijuana è una droga, vero?»

«Una droga leggera. Andiamo, uno come te che fa il predicatore? Hai scritto di una madre sadica che ha ucciso il figlio e ha recitato la parte dell'afflitta!»

Thorne sbuffò appena. «Colpito e affondato. Solo...»

«Non oserei mai cedere a cose ben più dannose e illegali di un po' di erba, tranquillo.» Il ragazzo terminò la sigaretta e la spense nel posacenere esterno che si trovava a un paio di metri più avanti rispetto all'entrata del locale dal quale erano usciti. «Parlando di cose più serie... ti è tornata la voglia di scrivere?» chiese poi.

«Direi di sì» fece Andrew. «E forse, in futuro, prenderò spunto da cosa accadde ai tuoi trisavoli per un futuro romanzo. Di materiale a cui attingere per qualche bell'horror alla vecchia maniera ce n'è a iosa, direi.»

«Se dovessi mai farlo davvero... ti chiedo solo di aver cura e rispetto di quel che ti ho raccontato. Insomma... di non snaturare troppo le cose e...»

«Era sottinteso, credimi» disse Thorne sincero. Accorgendosi che, un passo dopo l'altro, erano arrivati ormai all'auto di Woomingan, aggiunse: «Guido io? Ricordo abbastanza bene la strada e mi sembri un po' stanco».

Alex, che in effetti era un po' intorpidito, specie dopo aver bevuto tutto quel vino, decise di accettare. Il tragitto di ritorno parve insolitamente più breve del consueto, tanto che il ragazzo quasi con aria spaesata si accorse che l'auto si era appena fermata di fronte all'abitazione dello scrittore. Erano rimasti in silenzio per quasi tutto il tempo, immersi entrambi nei loro rispettivi pensieri, e il tempo era semplicemente scivolato via in fretta, troppo in fretta. 
Le due meno un quarto, segnalava l'orologio digitale sul cruscotto. Andrew si morse il labbro inferiore. «Grazie per oggi. Sai... per il tour da brividi e... beh, tutto il resto» disse, la voce a tratti rauca. «Mi ha fatto bene uscire e parlare con qualcuno»

Alex sbuffò una lieve risata. «Pare quasi che tu non lo abbia fatto per un bel po' di tempo.»

«Non quanto avrei dovuto, suppongo.» Gli occhi verdi dell'autore indugiarono per quella che era l'ennesima di tante volte, nel giro di quasi un'intera mezza giornata, sulle labbra del ragazzo. Erano lì, sì e no a pochi centimetri di distanza, e lui, invece, era lì a chiedersi se avrebbe fatto bene o meno a posare su di esse le proprie dopo aver blaterato per tutto il giorno di come non fosse tagliato per certe cose e non avesse in fin dei conti bisogno di niente e di nessuno, specialmente di una relazione.

Baciare quel ragazzo, però, non significava volere con quest'ultimo una storia seria, no? Voleva solo baciarlo, niente di più. Senza impegni, senza progetti per il futuro, immediato o lontano che fosse.

Eppure sapeva che da un bacio fin troppe altre cose potessero scaturire. Era come mettersi a fumare una sigaretta vicino a un consistente cumulo di dinamite. Insidioso, rischioso. Davvero aveva così tanta voglia di cedere a certi impulsi senza pensare alle conseguenze? E poi c'era sempre il rischio di venire respinti. Alex era una persona con una volontà propria e magari quella sorta di attrazione era unilaterale; magari il ragazzo lo apprezzava come persona in modo genuino e amichevole, magari da parte sua non c'era alcunché e un bacio avrebbe rovinato ogni cosa.

Le una e cinquantacinque. Tempo tiranno in tutti i sensi dato che era appena venuto a piovere. Le prime gocce di pioggia si stavano infrangendo con un leggero e ovattato ticchettio sul vetro della macchina. Una pioggia gentile, affatto impietosa e violenta.

Alex, il quale aveva trattenuto il fiato, sentendosi come in attesa di qualcosa, come sull'orlo di un baratro, grazie a quel suono estraneo si riscosse. «Così finirai per inzaccherarti tutto» disse, in parte biascicando. «M-Meglio se ti sbrighi a rientrare» aggiunse, tenendo gli occhi ben lontani da quelli di Thorne e facendo di tutto pur di non badare al cuore che gli massacrava le costole e il viso che di colpo gli pareva accaldato. Che sciocco, solo per un secondo gli era parso quasi che...

Niente castelli in aria, Alexander Woomingan. Non portano da nessuna parte, si ammonì. Piantala di fare lo scemo.

Iniziava a sentirsi in imbarazzo e per tale motivo portò una mano alla maniglia dello sportello, ma senza decidersi ad aprirlo e a scendere in attesa di poter tornare dal lato del guidatore.

Le due di notte spaccate. Spaccate proprio come Andrew che non sapeva se lasciare che le proprie intenzioni diventassero un nulla di fatto o sporgersi e afferrarle appena in tempo per trattenerle dal cadere nel vuoto. Con la coda dell'occhio vide il ragazzo smontare dalla macchina. Ecco fatto, il treno era partito senza di lui. In teoria ciò avrebbe dovuto rassicurarlo, ma in realtà lo aveva solo fatto innervosire ulteriormente.

Cazzo, Thorne, deciditi.

Scese a sua volta.

«Hai... hai le chiavi di casa? Non le hai scordate o altro, vero?» lo apostrofò Alex con un tono di voce un po' strano e bizzarramente più acuto del consueto. Era come se avesse fretta o non fosse più così a proprio agio. Ora la pioggia era meno gentile o forse era parsa tale solo perché fino ad allora erano rimasti al riparo dentro l'auto di Woomingan.

Tanto per fare qualcosa, per farsi passare la malsana voglia di agire in ben altre maniere, Andrew frugò nelle proprie tasche e ovviamente trovò subito le chiavi di casa, ma le dita gli tremavano tanto da da farle infine cadere sul selciato bagnato e viscido di pioggia. Trattenne un'imprecazione e si chinò per afferrarle, maledicendo se stesso e la propria inopportuna sbadataggine. Mentre tornava su, però, due mani morbide e intirizzite dalla fredda acqua che cadeva dal cielo al volo gli cinsero il viso e prima che lui potesse fare o dire qualunque cosa, Alex si era sporto e chinato al volo per baciarlo.

Maledizione, era meglio di quanto Andrew avrebbe mai potuto aspettarsi. Lo scrittore, in fretta, si ficcò di nuovo in tasca le chiavi e risalì del tutto, senza comunque separarsi dall'inattesa effusione e, anzi, affondando le dita fra i capelli ora fradici del ragazzo per averlo ancora più vicino, un altro po' alla propria mercé. Lo tenne stretto a sé, l'altro braccio che cingeva la schiena del giovane.

Alex emise una specie di basso mugolio, anzi un velato gemito. Quella vicinanza con Andrew lo stava inebriando, anzi ubriacando, in maniere che neppure il vino più forte e corposo avrebbe potuto fare. Sentiva le gambe molli, pronte a cedere sotto il peso di un corpo che sembrava essersi ridotto a gelatina, a molle argilla nella stretta chiaramente bramosa e audace dello scrittore.

Era stato lui a volere tutto questo, aveva agito sul momento, colto da un improvviso lampo di comprensione, quella che dal nulla colpiva la mente e la induceva a rimettere in moto i propri ingranaggi per giungere a un concetto tanto semplice quanto lineare. Aveva capito il motivo per cui Andrew aveva continuato a tergiversare, colto quel particolare e riconoscibile guizzo nel suo sguardo e si era detto, semplicemente, di rischiare, di buttarsi, come anche Rachel gli aveva consigliato di fare.

Per fortuna era stato un atterraggio morbido e se solo non avesse dovuto lavorare...

No, non era un bene affrettare le cose. Per quella sera poteva bastare. Doveva bastare. Non voleva sembrare uno di quelli che si portavano a letto chiunque subito, senza un minimo di criterio. Lui non era così e non avrebbe agito a quella maniera proprio con Andrew. Rispettava quell'uomo, troppo per infilarsi nel suo letto alla prima occasione, anche se fra loro c'era sintonia e per una volta, dopo un bel po' di tempo, sentiva di provare attrazione anche fisica nei riguardi di qualcuno, tanto da ritenere possibile la prospettiva di farci sesso.

No, non così. Non stasera, almeno. Vediamo come andrà domani, dopo questo bacio.

Reticente, facendo violenza su se stesso e sull'istinto che finalmente pareva essersi risvegliato, si scostò da Thorne, senza fiato e beatamente scombussolato.

«Che c'è?» lo apostrofò lo scrittore, spaesato.

Alex scosse il capo e abbozzò un sorriso. «N-Niente, solo... il lavoro, no? Se ritardo anche solo di un minuto poi Viola... cioè, la signora Wilson... insomma, si arrabbia e me ne canta quattro solo come lei sa fare e non ci tengo a farmi starnazzare addosso da lei un bel po' di ramanzine!» Fece un passo indietro. «Senti, s-se non sei troppo impegnato a scrivere... io stacco alle sei di sera. Se vuoi possiamo rivederci, passare del tempo insieme, cose così.»

Andrew mandò a farsi benedire ogni briciolo di buonsenso che gli era rimasto e propose, impulsivo: «Ceniamo a casa mia?»

«Sai cucinare?» lo rimbeccò Alexander, tra lo scettico e il divertito. «Non ti credo.»

«Allora vieni da me a cena e ti faccio ricredere.»

Il ragazzo si mordicchiò il labbro inferiore, decisamente tentato dalla proposta. «Ma sì, mettiamo alla prova il celebre Andrew Thorne con i fornelli. Sono curioso di sapere se sei bravo in cucina quanto lo sei a scrivere e a baciare.» Gli assestò un giocoso e gentile pugno sul torace, facendogli l'occhiolino. «Vedi di non barare. Mi accorgo subito se una cosa è fatta in casa o no.»

Andrew sogghignò. «Così mi offendi, piccolo vichingo.»

«Mi piace solo metter in chiaro che sono per un gioco pulito e senza imbrogli, Thorne» replicò a tono Alex. «Alle sei e mezza? Il tempo di cambiarmi e darmi una rinfrescata.»

«Sei e mezza.»