乇ㄩㄒㄖ卩|卂 || Ep. 5. L'Omega di Ghiaccio





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Nello spazioso, elegante e sobrio ufficio del governatore Reger regnava il silenzio totale. Non si sentiva volare neppure una mosca mentre il serio e cupo Alfa leggeva un punto dopo l'altro dell'intero rapporto battuto a macchina dal detective Thorne con la supervisione del capitano della polizia. Dopo essere tornato dalla dimora di Lexie, non era riuscito a restare da solo nel proprio appartamento e in compagnia di tanti, troppi pensieri. Era tornato dunque alla centrale e si era offerto di dare una mano a Jones con i documenti da presentare entro due giorni al governatore. Avevano lavorato come meglio avevano potuto, senza fare quasi mai una pausa.

Entrambi erano stanchi e ne avevano abbastanza di quella faccenda, ma era solo l'inizio, lo sapevano bene.

Il governatore Reger chiuse il fascicolo di documenti e si tolse gli occhiali da vista lentamente.

«Porca puttana» sentenziò in una gran caduta di stile. «Non avrei mai immaginato un disastro del genere. È una catastrofe, anzi.» Sollevò gli occhi e li piantò sul capitano della polizia. «E lei, Jones, non ha prestato sin da subito a questa situazione la dovuta attenzione. Si è dato da fare troppo tardi e adesso ci ritroviamo a un passo da un'autentica epidemia mortale che potrebbe mettere in ginocchio questa città e forse l'intero Paese. Mi domando cosa abbia detto la testa a me e al re quando l'abbiamo promosso, a questo punto dei fatti!»

Jones non osò abbassare lo sguardo. «Mi dispiace contraddire le sue parole, signor governatore, ma ho cercato di fare del mio meglio sin dai primi casi di sparizione. Non trovo giusto venir incolpato a questa maniera, non quando ho fatto tutto il possibile. Lo sto ancora facendo, in realtà. Nessuno poteva prevedere una cosa del genere.»

Il funzionario di Stato sbatté le palpebre. «Sta dicendo che ho un metro di valutazione errato o ingiusto?»

«Sto dicendo che non dovremmo pensare a dare la colpa a chicchessia, ma a contenere l'epidemia, trovarne il responsabile e soprattutto sperare che una cura arrivi presto. Ci sono priorità ben più serie, al momento. Solo quando tutto sarà finito potremo passare alla burocrazia.»

Reger, visibilmente indisposto da quell'atteggiamento che riteneva arrogante, fece un cenno. «Molto bene. Inizierò a rimettere le cose a posto sollevando lei dal suo incarico. Ha capito molto bene: è licenziato.»

Il detective Thorne, il quale si trovava a un paio di passi più indietro rispetto al capitano, spalancò la bocca. «Cosa?» esclamò, non riuscendo proprio a restare zitto. «Ma è matto? In un momento così delicato e pericoloso lei licenzia il capitano Jones? Se ora lui se ne va, il dipartimento piomberà nel caos! Non lo capisce? Non c'è tempo per trovare un sostituto adatto e aspettare che si ambienti, e poi...»

Jones volse il viso verso di lui e lo trapassò con un'occhiata raggelante e adirata. «Fa' silenzio, Thorne. Resta al tuo posto.» Era già abbastanza umiliante essere stato appena licenziato di fronte a un suo sottoposto, non avrebbe accettato anche di essere... cosa? Difeso? Non era una donzella in difficoltà e sapeva parlare benissimo da solo.

Reger scelse di ignorare Andrew, si alzò dalla scrivania di marmo e si avvicinò all'ex-capitano della polizia. Tese una mano. «Il distintivo, prego. Poniamo fine alla faccenda da adulti e in termini civili, per favore.»

L'omega in divisa esitò, ma si vide alla fine costretto a obbedire. Reger non sembrava in vena di tornare sull'argomento, non era tipo da uscire dai propri binari né da ricredersi sul conto di quelli come lui, degli Omega che a detta sua stavano molto meglio a casa e al fianco di una prole da crescere.
Avrebbe almeno voluto dire a quell'altro idiota di Thorne di uscire, se non altro per non dover consegnare il simbolo del suo valore ormai perduto di fronte a un sottoposto, ma ormai era troppo tardi.
Si tolse il distintivo dalla divisa e fece per consegnarlo, ma il detective con uno slancio gli fu vicino e intercettò il suo polso. «No!» Guardò il governatore. «La prego, signore, non lo faccia! È un grave errore, mi creda! Almeno aspetti fino alla fine di questa storia, per favore!»

Dario era un passo dal voltarsi come un'aspide e rifilargli un pugno dritto nello stomaco, ma ci ripensò quando il governatore parve finalmente dar ascolto a Andrew. Quella, tuttavia, si rivelò un'impressione del tutto errata. «Attendere che cosa, esattamente, Thorne? L'esito degli esami che questo omega in nostra presenza avrebbe dovuto già fare e ancora si ostina a rimandare? Gli avevo imposto di assicurarsi di non essere stato contagiato e di non essere un possibile pericolo per gli altri, ma così non è stato e vedo un simile atteggiamento come un chiaro atto di sedizione e oltraggio all'autorità. Dovrei lasciare in mano tutto il dipartimento a un Predatore che da un momento all'altro potrebbe diventare aggressivo e perdere la ragione?»

«Allora dovrebbe licenziare anche me, non crede? Sono un Predatore, dopotutto, e rischio a mia volta di venir infettato!» Andrew capì di esser andato troppo oltre, almeno secondo la visione del governatore, e allora fece un respiro profondo. «Senta, non voglio fare il suo lavoro e non pretendo che lei mi stia per forza a sentire. Le sto solo chiedendo, implorando anzi, di sospendere il suo giudizio e la revoca del distintivo del capitano a quando l'emergenza sarà rientrata. Tutto qui. Se il capitano Jones dovesse dar segno di sospetti squilibri di comportamento e di aver contratto questo virus che fa diventare quelli come noi aggressivi, le giuro che sarò io stesso a prendere dei provvedimenti e a convincerlo a mettersi in quarantena. Glielo giuro, governatore, sulla mia vita.»

Reger incrociò le braccia e guardò ora l'uno, ora l'altro. Serrò le palpebre, le riaprì e disse, piuttosto  scettico: «E va bene. Faremo come dice lei. Ottimo lavoro, Thorne. Ha più cervello del capitano che si ostina a voler difendere con tanto zelo».

Andrew, pur senza staccare gli occhi da quelli del governatore, lo stesso riuscì a percepire lo sguardo di Jones bruciargli addosso. Non era una bella sensazione e si chiedeva cosa sarebbe accaduto una volta che fossero usciti dal palazzo municipale.

«Potete andare» disse Reger, tornando a sedersi alla scrivania. «Ad ogni modo, Jones, si consideri già in parte fuori dal mio dipartimento. Il giudizio è stato sospeso, ma la sentenza è già ben chiara a entrambi. Mi ha capito?»

«Perfettamente» replicò gelido il capitano. «Rimedierò il prima possibile alla sedizione di cui parlava. Farò l'esame, signore. Mi farò prelevare del sangue non appena tornerò in centrale.»

«Eccellente. Questo volevo sentire. Ci voleva tanto?»

«No, signore.»

«Appunto. Già da questo bisognerebbe comprendere quale sia l'unico posto che lei possa occupare nella nostra società. Lo sa? Considerate le circostanze, è un vero peccato che non possa neppure più tornare a casa da sua figlia. Ha sacrificato la sua vita privata per anni, per poi ottenere solo un benservito e l'umiliazione di venir licenziato di fronte a un suo sottoposto che ha avuto più fegato di lei. Mentre aspetta di liberare la scrivania, mediti su tutto questo. Forse le ricorderà che un minimo di umiltà non guasta mai, specialmente per un Omega.»

Rigido come un pezzo di ghiaccio, Jones neppure salutò il governatore e abbandonò l'ufficio. La porta sbatté causando un tonfo impossibile da smentire o da giustificare. Reger sciabolò le sopracciglia con aria di sufficienza. «Cosa ci fa ancora qui, detective? Vada e mi faccia il piacere di tenerlo d'occhio. Ha visto anche lei come si comporta e non mi sento in colpa a dire che non mi fido, non quando è in quello stato.»

Andrew cercò di mordersi la lingua, ma fallì. «Non credo si possa biasimarlo. Sono il primo a non gradire il suo atteggiamento e i suoi modi, ma professionalmente non ha mai commesso un passo falso e si è dato da fare. Forse meritava qualcosa di ben diverso da ciò che gli è stato detto poco fa e dal benservito che gli ha chiaramente dato. Col senno di poi, forse avrei fatto meglio a starmene zitto.»

«Lo penso anche io. Buon lavoro, Thorne.»

Andrew scelse saggiamente di non mandare a quel paese il governatore e uscì a sua volta dall'ufficio. Vide Jones nel corridoio. Deglutì, si fece forza e si avvicinò, mascherando una bella dose di cautela. Poteva giurare di vederlo fumare dalla rabbia anche da quella distanza.

«Capitano...»

«Come ti sei permesso?» chiese a denti stretti l'altro. «Non vorrei sembrare brutale, Thorne, ma che cazzo ti sei messo in testa?»

«Mi è stato insegnato, all'accademia, a reagire quando assisto a un'ingiustizia e quello che ho visto prima...»

«All'accademia!» lo schernì Jones. «Qui non siamo più all'accademia. Questa è la vita vera e la prossima volta che ti permetti di parlare al mio posto e di fare come se il sottoscritto fosse uno stupido o un bambino che non sa difendersi da solo, giuro sugli stramaledetti dèi che ti sbatto come un tappeto. Sono stato chiaro?»

La vera umiliazione era stata quella, non il licenziamento scongiurato, anzi semplicemente ritardato a un altro momento. 

Andrew sollevò le mani a mo' di resa. «Chiedo scusa se ho solo cercato di darle una mano. La prossima volta mi farò gli affari miei o mi metterò dalla parte del governatore. Così le sta bene?»

«Come, scusa?»

«Ha capito benissimo.» Thorne fece un paio di passi avanti. «Mi tratta come uno zerbino da quando sono arrivato ed ero un semplice agente di polizia. Non le è mai andato bene niente di quello che facevo e ho fatto, e allora mi sembra d'obbligo chiederle perché ha deciso di promuovermi addirittura a detective. Mi sembra giusto che per una volta lei si decida a essere onesto, non pensa?»

Jones non diede segno di vacillare in alcun modo. «So distinguere bene la mia opinione personale su una persona e sul ruolo che invece ricopre. Hai ragione, Thorne: non mi è mai andato bene quello che facevi e sai perché? Perché vedevo un ragazzino spaccone che pensava di esser nato con già la camicia addosso. Fosse stato per questo saresti stato fuori dal dipartimento già dopo una settimana che eri arrivato, ma ti ho promosso perché ho intravisto un cervello che funzionava, quando non eri troppo impegnato a darla vinta al tuo adorato istinto. Ecco perché sei diventato un detective. Ti ho dato una possibilità e oggi sono stato ripagato con la peggiore delle umiliazioni, per giunta di fronte a uno stronzo che non fa che starmi col fiato sul collo da quando ho ottenuto la promozione a capitano.»

«Umiliazione?» Andrew era basito, incredulo. «Stavo solo...»

«È evidente che tu non possa capire. Prima di lamentarti del tuo capo che è un bastardo, ricorda che altri hanno tollerato cose ben peggiori di qualche rimprovero atto solo a spronarti a fare sempre del tuo meglio e a dare il massimo. Ricorda che non tutti riescono a entrare in accademia con uno schiocco di dita. Ci sono alcuni che devono sputare il sangue e dar via l'anima per questo lavoro, mentre il novanta per cento dei loro superiori, vecchi pervertiti, per anni sembra far di tutto per metter le mani tra le loro gambe e fargli credere che dar via la dignità sia l'unico modo per fare carriera.» Anche se si era tenuto sul vago, era chiaro che Jones non stava parlando in termini casuali, ma di qualcosa che era accaduto realmente, che l'aveva riguardato molto da vicino. «Come osi lamentarti? Come osi dire di avermi fatto un favore? Lì dentro, dieci minuti fa, hai confermato quello che Reger già pensa di me. Quello che tutti pensano di un Omega che sceglie di fare il poliziotto: che non sanno badare a se stessi né affrontare a testa alta un problema senza che l'Alfa di turno se ne stia lì, pronto a fare il cavaliere di turno. Hai gettato al vento tutti i miei sforzi che ho fatto in tanti anni per favorire l'integrazione sociale del mio genere e quello di tanti altri come me. Io questa la chiamo umiliazione, Thorne.»
Il capitano, che in realtà non era più tale, almeno per il governatore, non aggiunse altro e agitò una mano per scacciare la questione. «Adesso torna alla centrale. Io ho degli affari da sistemare, ma tornerò nel primo pomeriggio. Tieni a bada quella marmaglia, per favore.» Non attese una risposta e  se ne andò. Per quel che lo riguardava, la discussione si era conclusa.

Quando rientrò in casa con il solo obiettivo di salutare e poi andarsene fino alla fine dell'emergenza, si fermò udendo il compagno richiamarlo dal soggiorno.

Alzò gli occhi al cielo e per qualche secondo rimase dov'era. Non se la sentiva granché di essere strapazzato anche da Gareth, dopo quel che era successo al palazzo municipale, ma non aveva molte alternative.

Si pettinò i lunghi capelli mossi dietro un'orecchio e lentamente entrò nel salotto, tenendo le braccia incrociate. Vide nel box Rosie gattonare e poi cercare invano di mettersi su, mettere un minuscolo braccio fra le sbarre e tendere la manina verso di lui. Le sorrise e non resisté ad avvicinarsi, a inginocchiarsi e a prenderle le piccole dita fra le proprie. Gli Alphaga neonati dopo poco tempo già imparavano a gattonare e a riconoscere le persone che avevano di fronte, specialmente i genitori. A un anno sapevano camminare, anche se con non pochi ruzzoloni e piccoli incidenti del tutto normali.

Rosie spalancò la boccuccia rosea e gorgheggiò.

«Ciao, topolina» le disse amorevole. Avrebbe voluto prenderla in braccio, ma con quello che stava accadendo non se la sentiva di rischiare. Rosie era troppo importante e la sua sicurezza valeva più di qualsiasi altra cosa. 

Gareth non gli tolse gli occhi di dosso e Dario, alla fine, si decise ad affrontarlo. «Che cosa c'è?» chiese, cambiando decisamente tono di voce. Non gli aveva perdonato quel che aveva detto la notte prima, senza contare che avevano discusso ancora e di cose brutte o addirittura orribili se ne erano detti tante. Se c'era una cosa su cui non la faceva passare liscia a nessuno, era il mettere in discussione l'affetto per sua figlia.

Ammetteva di non essere stato esemplare come genitore, neppure durante la gravidanza, e di aver dato spesso l'idea di non aver mai voluto saperne sul serio della bambina. Era vero, quasi mai aveva fatto quello che tanti altri facevano, come ad esempio instaurare un legame con il feto, passare ore intere a fantasticare sul futuro e così via. Aveva lavorato fino al quinto mese e lo aveva fatto per tentare di rendere quel mondo il più sicuro possibile per la vita che aveva portato in grembo fino al parto. Cosa c'era di sbagliato in quello? Aveva commesso l'errore madornale di non uniformarsi alla massa e al comune atteggiamento nei confronti di un bambino che stava per arrivare? Gareth aveva sempre saputo che era uno un po' strano e sulle sue, che certe cose non facevano per lui, eppure gli aveva rinfacciato di non aver fatto la mogliettina perfetta della malora.

Come diavolo avevano fatto a finire in quel modo? Possibile che per tutti quegli anni avessero commesso solo un madornale errore che stava per culminare col divorzio?

Si erano amati, lo sapeva, e lui amava ancora suo marito proprio come quando lo aveva visto inginocchiarsi e chiedergli di sposarlo. Aveva sbagliato già da allora nel non piangere di fronte a quell'anello né a urlare o fare chissà cos'altro? Se le cose stavano in quel modo, allora forse aveva proprio sbagliato a esistere, perché era sempre stato così e con lo schifo che aveva dovuto tollerare quando ancora abitava con la sua famiglia, non sarebbe potuto venir su diversamente. Era colpa sua se da quando il suo patrigno lo aveva molestato quando era ancora piccolo e innocente, non era più riuscito a esternare più di tante emozioni né ad aprirsi con gli altri? Poteva essere incolpato se non aveva più potuto fidarsi del prossimo e aveva imparato a non piangere più, ricordando ciò che quell'uomo gli aveva detto ogni singola volta che aveva commesso quegli atti disgustosi su di lui?

Quale responsabilità aveva avuto nell'esser stato un ragazzino difficile cresciuto in una famiglia sì numerosa, ma piena di ombre, con una madre che aveva cambiato ben tre compagni, una madre bambina che si era sposata giovanissima e alla quale era toccato di crescere a sua volta dei bambini?

Era quello l'esempio che aveva avuto e sempre per quello si era detto che sarebbe diventato genitore solo quando ne sarebbe stato sicuro, pur di non far soffrire i propri futuri figli.

Lo ammetteva: aveva accettato di sposare Gareth in minima parte per scappare da sua madre, dal dover vederla piangere e alternare la tristezza alla rabbia, attaccarsi alla bottiglia e arrabbiarsi se lui aveva cercato di farla smettere, ignorando poi tutte le volte in cui per questo era stato picchiato.

Era quello il mondo in cui era cresciuto, il mondo che aveva poi scelto di voler cambiare in qualche maniera, ma a quanto pareva ogni sforzo non era servito a niente, se non a distruggere il suo matrimonio e a far sì che la storia si ripetesse, forse, per la povera Rosie.

Non era sempre detto che chi soffriva, poi diventava gentile con gli altri. C'era anche chi si chiudeva nel proprio guscio e si costruiva attorno una fortezza impenetrabile con tanto di fossato. c'era chi sceglieva di diventare come la pietra, pur di resistere. Forse l'unico vero male era l'esistenza dei luoghi comuni in cui non c'era spazio per le eccezioni. Il suo errore, invece, era stato il non aver mai detto tante cose a suo marito e solo perché aveva sempre voluto risparmiargli quello schifo, la triste storia della sua vita in versione odiosamente integrale e senza filtri. Aveva sempre pensato che a volte, certe omissioni, persino delle bugie, fossero purtroppo necessarie. 

Gareth gli fece cenno di avvicinarsi. Lo fece, ma si tenne comunque a distanza. 

L'Alfa sospirò, squadrandolo in silenzio. Era come se fossero diventati due estranei.

«Ricordo ancora la prima volta che ci siamo incrociati, sai? Tu avevi sedici anni, io ventuno, ero all'ultimo anno di scuola, avevo scelto di proseguire con il programma supplementare, così da poter subito iniziare l'università, una volta dati gli esami. Ti ricordo eccome: eri quello che se ne stava sempre da solo, che non accettava mai quando il solito gruppo della classe gli chiedeva di uscire di tanto in tanto la sera. Avevi parte dei capelli raccolti in un fermaglio, il resto invece scendeva sulla schiena. Portavi una camicetta di jeans e gli occhiali, masticavi una gomma e mentre correvi per il corridoio cercavi di ripassare in vista di non so quale test. Cavolo, mi bastò un attimo, avevo già perso la testa per te e neanche ti avevo mai parlato. Ero talmente mezzo rintronato che finii per venirti addosso. Ti caddero il libro e la borsa che portavi a tracolla. Mi scusai con te e ti aiutai a recuperare tutto e tu...», sbuffò una risata. «Mi mandasti a fanculo. Eri incazzato come un'ape, ma non riuscii a non pensare che anche in quel modo eri splendido. Mi avevi mandato a quel paese, ma io riuscivo a solo a guardarti, mi piacquero da impazzire i tuoi occhi furiosi e grintosi. Non avevi paura di niente, neanche di un Alfa robusto tre volte te che avrebbe potuto farti la festa in un secondo.»

Dario tacque. Quei ricordi gli facevano male. Sedici anni... quello era stato davvero un pessimo periodo. Suo fratello maggiore se ne era andato da casa e... aveva iniziato a far uso di droghe e a mettersi nei pasticci. Dentro e fuori dalla prigione. Un casino assurdo. L'altro suo fratello, il suo gemello, anzi, a sua volta aveva abbandonato la dimora per trasferirsi dalla loro zia materna, Alba, di gran lunga più responsabile, affettuosa e affidabile. Da quel momento in avanti Dario non aveva più voluto rivolgergli la parola né vederlo, perché essere stato piantato in asso proprio da lui, malgrado mai fossero andati d'accordo su un bel niente, era stata la goccia fatidica. Ricordava che tutte le volte che aveva fatto ritorno a casa, in seguito a quell'ennesimo abbandono, gli era toccato non solo studiare, ma anche badare alle sue sorelle minori e al suo fratellino, il più piccolo di casa, un bambino di appena tre anni che un altro bambino spesso aveva dovuto accudire al posto di una madre troppo impegnata a divertirsi in giro e due fratelli più grandi che avevano sempre pensato agli affari propri. D'altro canto era stato sempre l'Omega di casa e proprio come le sue sorelle gli era toccato sempre di stare al suo posto, quello che altri gli avevano assegnato, perché nella piccola e chiusa città di Liseya le cose andavano così.

Ricordava persino quale test aveva dovuto fare quel giorno di tanti anni addietro: chimica. Il test era stato di chimica e si era beccato un ottanta anziché cento per via del ritardo a lezione.

Non proprio un ricordo felice, almeno dal suo punto di vista.

«Te ne sei andato impettito e alla fine mi dissi che eri solo un marmocchio e per giunta stronzo come pochi. Già, lo pensai, eppure il giorno seguente ti vidi in cortile a leggere un libro sul prato, all'ombra di un albero, e non resistei a raggiungerti e ad attirare la tua attenzione togliendoti da sotto il naso quel che stavi leggendo. Stizzito mi chiedesti di restituirti il libro e io in cambio ti chiesi invece il tuo nome. L'avevo capito che non eri uno facile e forse fu questo ad attrarmi. Non eri come tanti altri, eri diverso, te lo leggevo in faccia.»

L'Omega sorrise mestamente. «Mi sembra che per tutta risposta cercai di darti un calcio nei gioielli di famiglia. Non si può dire che non fossi dalla parte della ragione.»

«Sì, eri combattivo. Per fortuna mi spostai in tempo. Prima di andare, però, mi sembra anche che finalmente mi dicesti come ti chiamavi. Mi sentii male quando qualche mese dopo scoprii che ti eri messo con... cavolo, come si chiamava quello?»

In quei primi mesi c'erano stati molti altri incontri e interazioni, fra di loro era nata una complicità mascherata sempre da una mescolanza di ripicche e punzecchiamenti d'ogni sorta. Era stato divertente.

«Cassian. Non ci vuole molto a ricordarlo. Fu l'unico prima di te.»

«Già, lui. Mi stava sulle palle già a prescindere, ma tutte le volte che vi vedevo insieme a baciarvi in corridoio gli auguravo un bel po' di cose che neanche sto a ripetere. Ero geloso come mai mi ero sentito e già metà dell'anno scolastico era trascorso. Dopo che avevi iniziato a frequentare quello stronzo eri cambiato, lo era il tuo sguardo. Non era più limpido come prima.»

«Beh, con lui era un'alternanza continua di sesso e litigi, di scenate di gelosia da parte sua e insofferenza da parte mia.»

«Eppure non ti decidevi a lasciarlo. Per fortuna alla fine batté in ritirata.»

«Suppongo che fu influenzato dal pugno che si beccò da parte tua quando lo vedesti afferrarmi un braccio e quasi slogarmelo.»

«Ehi, che vuoi? Mi ero preso una cotta allucinante e quello lì ti maltrattava.»

«Infatti poi non ti respinsi quando mi baciasti.»

Reth si umettò le labbra. «Iniziasti a sorridere di più, a essere più aperto con gli altri e solare. Era come se fossi finalmente sbocciato come tutti gli altri fiori e per me eri in assoluto il più bello. Ci lasciammo solo una volta e appena per una settimana, poi fui io a tornare da te. Passò il tempo e tu mi rivelasti di voler fare l'accademia di polizia, anche se sapevi che gli Omega di solito non venivano mai accettati.»

«Già. Ridevano tutti ogni volta che ne parlavo, tu invece no. Tu sapevi che ce la potevo fare. Dicesti persino a mia madre, una volta, che preferivi un fidanzato poliziotto a uno come tanti altri che accettava a capo chino un destino fatto di faccende domestiche e figli da crescere. Le dicesti che avrebbe dovuto essere fiera di avere un figlio come me. Credo che non te l'abbia mai perdonato.»

«Quello stesso anno tu iniziasti l'accademia e riuscisti a passare gli esami per diventare ufficialmente una matricola. Il successivo, dieci giorni prima del giorno in cui saresti ripartito per Eutopia e proseguire l'addestramento, ti chiesi di sposarmi. Ancora non avevi neppure vent'anni, ne avevi diciannove, ma mentalmente sembravamo coetanei e tu eri pieno di progetti per il nostro futuro, non solo il tuo, ma il nostro. Poco dopo le vacanze invernali, finalmente ci scambiammo le promesse.»

Lo sguardo di entrambi si posò sulla fotografia appesa alla parete che li ritraeva nel giorno delle nozze: un giovane Omega di soli vent'anni con i capelli che scendevano sulle spalle e fiori bianchi fra quelle onde brune, abiti immacolati; Gareth, invece, un venticinquenne vestito di blu, il viso rasato e gli occhi luminosi, proprio come quelli del suo sposo. Sorridevano, erano felici, all'epoca avevano parlato già da tempo del voler avere dei figli. Dario, per un breve lasso di tempo, era persino stato sul punto di mollare l'accademia pur di realizzare quel progetto ed era stato suo marito a dirgli che no, avrebbe dovuto andare spedito e inseguire la sua ambizione.
Il lieto evento era stato solo in parte oscurato dall'assenza del suo gemello, Dante. Il loro fratello più grande, all'epoca, aveva già rimesso la testa a posto, mentre Dante, a detta di zia Alba, aveva scelto di proseguire gli studi e negli anni seguenti si era laureato, aveva fatto carriera e otto anni addietro si era sposato e aveva messo su famiglia per conto proprio. Una moglie, tre figli, una vita agiata. Si era conquistato tutto quanto, pur essendosi comportato da egoista e menefreghista, e quello sì che faceva dubitare sull'esistenza di una qualsiasi forma di giustizia divina. 

La luna di miele sua e di Gareth, comunque, era stata magnifica, anche se non avevano potuto fare chissà cosa con le ridotte finanze che all'epoca si erano ritrovati ad avere. Avevano dovuto volare basso per un bel po' di tempo, ennesima ragione per cui avevano sempre scelto di rimandare l'arrivo di un figlio. Quando se ne voleva uno, si desiderava anche di poter vederlo crescere circondato dall'agio, non dall'indigenza. 

Gareth sospirò ancora. «Io amavo da impazzire quel ragazzo instancabile e grintoso, ma che poi sapeva essere dolce e fragile come un gattino. Amavo quel ragazzo che vedevo star su la notte per studiare o per ammazzarsi con gli esercizi, pur di stupire gli istruttori dell'accademia. Amavo quella persona unica e meravigliosa che voleva cambiare il mondo e odiava le ingiustizie, quello che voleva dimostrare al mondo intero che anche un Omega poteva arrivare lontano, in alto, dove tanti altri invece si erano sempre arresi, e tutto questo senza mai dimenticare di essere se stesso. Lo amavo da impazzire. L'ho amato di più quando lo vidi felice di sapere che stavamo per diventare genitori e poi, purtroppo, un giorno tornò in lacrime e mi disse che il medico aveva dato pessime notizie, che il bambino purtroppo andava abortito per via di una grave malformazione al cuore. Poco dopo tornasti all'accademia e finisti l'anno seguente l'addestramento. Eri ufficialmente un poliziotto. Ce l'avevi fatta.»

L'Omega si portò di istinto una mano al ventre, dove c'era ancora la sottile e orizzontale cicatrice nel punto in cui gli avevano aperto il grembo per asportare un bambino che mai era nato e che sarebbe comunque morto prima di venire al mondo.

Sentendosi sottosopra, si vide costretto a sedersi, mantenendo però una certa distanza fra lui e il compagno.

Reth deglutì. «La verità è che poi ci riprovammo per tanti anni, ma non servì a niente e alla fine perdemmo le speranze, anche se non avevamo mai il coraggio di dirci a vicenda tutto questo ad alta voce. Tu perdesti interesse, ti gettasti nel lavoro, lo hai fatto per undici anni. Ti ho visto cambiare poco a poco, diventare uno di quelli che da ragazzo avevi disprezzato per l'attaccamento costante alle ambizioni lavorative, alla burocrazia. Eppure c'era ancora qualcosa di quel ragazzo in te, almeno finché non è arrivata la promozione a capitano. Ero fiero di te, ma accidenti... ormai eri una persona che non riconoscevo. Quella fiamma nei tuoi occhi si è spenta, sono diventati freddi, senza passione, capaci di vedere solo due cose: il dovere e l'ambizione fine a se stessa. Chi vedo ora oggi, di fronte a me, è la persona che ha in qualche maniera ucciso, soffocato nel silenzio quella che ho sposato. Hai smesso di parlarmi davvero, di confidarti con me, di ritenermi prima di tutto tuo amico, il più caro di tutti, come mi dicevi quando eravamo ragazzi. Mi chiamavi il tuo dolce amico, ricordi? Ora invece sei qui e mi guardi come se fossi un estraneo, anzi... mi guardi come guardavi tua madre poco prima di andartene di casa e venire a stare da me, dopo l'ennesima volta che ti aveva insultato e quasi picchiato. Anzi... hai la stessa faccia di quando tu e Dante avete dovuto per forza rivedervi per via del funerale di vostra zia. La veglia funebre si era alla fine trasformata in una semplice occasione per te e i tuoi fratelli di sputarvi addosso veleno come non avevate mai potuto fare prima. Non è servito a niente cercare di fermarti. Neanche mi ascoltavi e non sembrava neppure importarti che dovevi restare calmo per il bene di nostra figlia che non era ancora nata e che rischiava grosso con te che urlavi addosso a Dante e gli rinfacciavi gli errori di una vita intera.»

«Gareth...»

«Ormai giochiamo a carte scoperte, Dario. Dillo pure che non volevi Rose, che non l'hai voluta per tutti i mesi che l'hai portata dentro di te. Non sono stupido. Ogni volta che eravamo a letto e magari volevo essere carino, avere persino l'ardire di abbracciarti e sentire cosa stava facendo mia figlia là dentro, ti scostavi e mi dicevi di non fare lo sciocco. Non ti sei presentato neanche quando abbiamo invitato i nostri amici per festeggiare l'arrivo di Rose, eri al lavoro e per questo abbiamo quasi perso nostra figlia. Nostra, Dario. Non solo tua. In quella bambina c'è anche una parte di me e credimi, lei lo ha sentito che non era desiderata dalla prima persona in assoluto che invece avrebbe dovuto volerla al più presto fra le braccia. Lo ha sentito che era solo un peso per te e che facevi di tutto per comportarti come se non ci fosse, come se tra voi non ci fosse alcun legame. Secondo te come mai il pediatra ha detto, alla visita alla quale non ti sei presentato come quasi tutte le altre volte, che ha bisogno assolutamente di instaurare un rapporto stabile e sano con chi l'ha messa al mondo? Ma a te non frega un bel niente del parere di chicchessia, giusto? No, no! Sei il perfettino del cazzo che non sbaglia mai. In questo tuo fratello aveva e ha ancora ragione. Sarà uno stronzo matricolato, ma su questo aveva veramente ragione.»

Dario fu tentato di dargli un ceffone. «Non ti azzardare» mormorò sdegnato, sull'orlo delle lacrime. «E già che ci sei stai zitto. Hai alzato il gomito, lo riconosco dal tuo sguardo. Bevi in presenza di una neonata e ti permetti di fare la predica a me? Vergognati! Per fortuna la bambina è ancora troppo piccola per trarre da te un simile esempio.»

Gli aveva promesso che non avrebbe mai ceduto all'orrendo vizio del bere. Mai e poi mai. Lo sapeva cosa pensava di un'abitudine così abbietta. Sapeva dell'alcolismo di sua madre, della dipendenza da droghe di Filippo, suo fratello, eppure eccolo là, non del tutto sobrio. Glielo leggeva in faccia che l'aveva fatto apposta, che lo aveva fatto per ferirlo, anche a costo di ridursi in quello stato pietoso. Aveva visto eccome il liquore, non era cieco, e per tale motivo si era tenuto a distanza. Sapeva fin troppo bene cos'era capace di fare l'alcool persino all'uomo più onesto e morigerato. 

Reth sorrise in maniera forzata. «Finalmente ottengo un minimo di reazione e di attenzione, vedo. L'Omega di ghiaccio ha ancora un punto debole! Buono a sapersi.»

«Smettila.»

«Forse anche mia madre aveva ragione. Forse eri sin dal principio un frigido arrivista.»

«Falla finita con queste fesserie, vai a mettere la testa sotto l'acqua fredda e beviti un caffè forte. Finiamola, Gareth. Niente scenate davanti a Rose.»

«Che ti piaccia o no, io sono ancora tuo marito!» sbottò l'altro, furioso, ormai giunto al limite. «Solo per questo dovresti rispettarmi e starmi a sentire, per una cazzo di volta!»

Dario sussultò, preso sul serio alla sprovvista da quell'esplosione, e sentì il cuore spezzarglisi quando la bambina, come c'era da aspettarsi, iniziò a piangere. Doveva essere spaventata, come minimo. Non poteva lasciare che piangesse, era troppo straziante. 

Si alzò e raggiunse il box, chinandosi e prendendo su la piccola. Le sussurrò che andava tutto bene, le parlò piano e dolcemente, anche se era il primo ad avere il viso bagnato e a tremare come una foglia. Lo spavento iniziale, però, mutò in una rabbia cocente. Guardò il compagno. «Rosie starà con mia sorella, Beatrice. È tra i pochi membri della mia famiglia ad aver sempre avuto un po' di sale in zucca. Quanto a te...», scosse la testa, squadrandolo disgustato. «Ti voglio lontano da Eutopia per la tua sicurezza e da questa casa per il bene e la salute di tutti e due. Non so come potrebbe andare a finire, altrimenti, e non ti voglio sulla coscienza in nessuno dei casi.»

Fece per uscire dal salotto, senza osare separarsi dalla figlia, ma tornò indietro. «Tutto questo avverrà domani e stanotte, quando tornerò, non ti voglio trovare nel mio letto. Dormi sul divano, razza di stronzo!»

Fece male realizzare che in lui stava germogliando una pianta velenosa chiamata odio.

Appena fu in camera da letto, si chiuse la porta alle spalle e girò la chiave. Si sedé sulle lenzuola e tornò a tranquillizzare Rose. «È tutto finito, ora» le disse, pur sapendo che in lacrime com'era non poteva esser preso sul serio. I bambini non erano stupidi, percepivano quando qualcosa non andava, e in quella casa stava andando tutto a rotoli. Realizzò, di fronte alla paura e al dolore di sua figlia, della sua unica bambina, di aver sacrificato un legame così sacro con lei invano. Nel tentativo di proteggerla, aveva rovinato tutto quanto. 

Forse, a quel punto, davvero non restava altro, se non firmare le carte del divorzio.

Non era un bene per Rosie, ma vivere con in casa due genitori che litigavano e non si guardavano in faccia era ancora peggio, era distruttivo e malsano, era la stessa identica vita che aveva fatto lui e che non intendeva far condurre alla sua piccola.

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