𝐗𝐗𝐗𝐈. 𝐑𝐞𝐬𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐢
We are the last people standing
At the end of the night
We are the greatest pretenders
In the cold morning light
This is just another night
And we've had many of them
To the morning we're cast out
But I know I'll land here again
How am I gonna get myself back home?
How am I gonna get myself back home?
There's a light in the bedroom
But it's dark
Scattered around on the floor
All my thoughts
-Bastille, Get Home
«Oh!» Perez ghignò divertito. Ai suoi piedi Shayla era legata. Un rivolo di sangue scorreva sulla sua fronte, mentre cercava di prendere aria. «Hai deciso di smettere di scappare come un cucciolo smarrito, eh Jeremiah?»
Atlas lo guardò, forse per la prima volta negli occhi, riconoscendo il suo stesso sguardo malato. Se quella storia doveva concludersi, era meglio che si chiudesse per entrambi. Alzò le mani in segno di resa, lasciando cadere la pistola a terra. «Se la lasci andare, allora risolviamo questa storia tra noi.»
Shayla sgranò gli occhi. Era sorpresa, era chiaro. Ad Atlas non interessava tanto la sua vita, ma era consapevole che Hercule non gli avrebbe mai perdonato la sua morte e, allo stesso tempo, voleva risparmiare la piccola Heaven dalla morte della madre. «Sta bene?»
Atlas annuì con un gesto del capo. Incrociò ancora una volta lo sguardo di Perez: era nervoso e infastidito. Colpì con un ceffone Shayla. Sull'indice portava un anello d'oro, che si sporcò di sangue. Il labbro della donna era spaccato. Aveva trattenuto un gemito doloroso.
«Facciamo una cosa.» I suoi sguardi saettarono sia su Perez sia su Keyles. Era teso. Le mani, strette in un pugno, tremavano arrabbiate. Capiva quanto lo detestasse: d'altronde voleva solo la vendetta per suo figlio. Eppure Atlas non sentiva assolutamente di dovergli delle scuse: avrebbe ucciso Paul un altra decina di volte se ne avesse avuto la possibilità. «Alla fine volete entrambi me. Lasciate andare la donna chihuahua e io resto con voi.»
Perez sorrise. Il suo volto si deformava in un'espressione orrenda e inquietante anche in quei casi. Si scambiò una veloce occhiata con Keyles, sebbene gli occhi di quest'ultimo fossero tutti su di lui. Poteva leggere in quello sguardo scuro così tanto rancore e desiderio di ucciderlo. Riconosceva un atteggiamento simile al proprio. «Mi sembra ragionevole da parte tua, Jeremiah.» Spinse Shayla in avanti, allontanandole la pistola dal capo. La donna andò in direzione di Atlas, che iniziò a liberarle i polsi dai lacci di plastica.
Lo fissò, grata. Gli si avvicinò, posandogli un bacio sulla guancia e Atlas si irrigidì. Aveva la sensazione che avesse un piano. Prese il suo volto con entrambe le mani, baciandolo a stampo, mettendo a disagio il resto dei presenti, che abbassarono lo sguardo. Dopodiché si staccò appena, ammiccandogli. «Non me ne vado. Mi nascondo.» Sussurrò al suo orecchio. Atlas aveva voglia di seppellirsi. A quel punto, per concludere quella messa in scena, gli assestò una pacca sul sedere. Giurò a se stesso che, se fosse uscito vivo da lì, l'avrebbe uccisa con le sue stesse mani.
Fissò la sua figura allontanarsi. Perez ridacchiò e gli fece cenno di avvicinarsi. Sapeva di dover giocare bene le proprie carte. «Complimenti, figliolo.» Pronunciò quella parola con amaro disprezzo. «Hai conquistato marito e moglie, esattamente nel mezzo.»
Atlas fece un mezzo sorriso infastidito. «Vorrei dire, ma mi hai visto bene?» Almeno se fosse morto, le sue ultime parole sarebbero state sarcastiche, come la sua natura.
«Ci muoviamo? Voglio vederlo morire e soffrire come un cane.» Keyles lo guardò male.
«Prendi un cazzo di numeretto e mettiti in fila.» Atlas sputò quelle parole al veleno. Non era il primo che voleva farlo stare così male. Strinse i pugni nervoso.
Perez, invece, non si scompose. Gli puntò una pistola al capo, pronto a sparare. Sorrise di sbieco, mirando poi al piede. Era sicuro che avesse intenzione di farlo morire agonizzante, sparandogli ovunque.
Atlas sapeva bene di dover pizzicare l'anello debole di quella catena. Se avesse toccato i punti giusti, i nervi scoperti, forse sarebbe riuscito a capovolgere quella situazione a proprio favore. Si rivolse a lui, mentre Perez lo teneva sotto tiro. «Sai tuo figlio mi ha implorato tante volte. Piagnucolava come un bambino. È stato divertente vedere come il suo respiro si mozzasse sotto il suono dei miei pugni. È una sensazione straordinaria. È stato eccitante, direi.»
E come un idiota, cadde nella sua trappola. Lanciò un urlo rabbioso, gettandoglisi addosso, Perez fece per intervenire, ma l'uomo, ormai accecato dalla rabbia, lo spinse di lato. Atlas deviò il suo colpo, sfilò dalla tasca interna della propria giacca un pugnale e glielo conficcò al fianco. Vide la camicia di Keyles sporcarsi di sangue, così come le proprie mani.
L'urlo di dolore squarciò il silenzio, rimbombando nel salone. Si accasciò a terra, portandosi le mani alla ferita. Era pallido. Sudava e gemeva.
Era una sensazione unica, gli mancava. Sparare spesso non portava alle stesse soddisfazioni. Sfilò il coltello. Non gli diede il tempo di rialzarsi che lo colpì ancora una volta al polpaccio. Lo lasciò agonizzante a terra, mentre imprecava verso di lui, senza forze e con gli occhi annebbiati da rabbia e dolore. Lo vide mentre cercava di strisciare a terra, per recuperare la pistola che gli era caduta da mano, ma Atlas fu più veloce di lui. Gli calpestò la mano, premendo col piede sul polso.
Un altro urlo si liberò nel silenzio. Si abbassò per prendere l'arma prima di lui, ma uno sparo lo ridestò e ben presto anche una fitta lancinante al fianco.
Atlas fece per voltarsi verso Perez.
Abbassò lo sguardo sulla ferita. La camicia aveva iniziato a sporcarsi. Si morse l'interno guancia. Almeno realizzò che il proiettile fosse uscito.
Perez era ancora a terra, aveva preso la mira e stava cercando di rialzarsi, nonostante gli acciacchi del tempo. Atlas strappò la manica della camicia e la avvolse attorno alla ferita, stringendo. Gli sfuggì un rantolo di dolore.
Keyles ormai era fuori gioco, probabilmente senza soccorsi sarebbe morto dissanguato. Atlas si abbassò lentamente per prendere la pistola, quando il suono assordante di una sirena li fece paralizzare tutti.
Entrambi i suoi aguzzini furono distratti da alcuni rumori alle loro spalle. Una luce accecante li illuminò, filtrando con violenza attraverso le finestre.
Atlas pensò che mancava solo la polizia. Se avessero interrotto la sua vendetta, avrebbe ucciso anche tutti loro. Era la sua vita.
Era la sua storia.
Era il suo incubo.
E soltanto lui avrebbe potuto mettere un punto a tutto quello.
«Siete circondati! Fermate le armi e uscite con le mani alzate.» Una voce quasi robotica, a causa del megafono attirò la sua attenzione.
Atlas scosse il capo. Sarebbe riuscito a fuggire, lasciando i due cadaveri all'interno. Si trascinò in direzione di Perez, sovrastandolo. Gli sparò a un piede.
L'urlo fu così forte che probabilmente lo avrebbero sentito da fuori, ma non gli importava.
I suoi occhi erano iniettati di sangue e odio recondito, lasciato a marcire per anni. Pensava di averlo dimenticato, ma non si era mai sentito così bene. Non gli interessava dove fosse Shayla, né dove si fossero nascosti i suoi amici. Voleva restare lì e fissare negli occhi Perez, guardare come la vita si spegneva nel suo sguardo da folle.
«POSATE LE ARMI! ADESSO ENTRERÒ E DOVETE TENERE LE MANI BEN IN EVIDENZA!» Atlas si lasciò distrarre dalla voce di Martin, proveniente dal corridoio. Non poteva interrompere proprio quel momento. Alzò lo sguardo, fissando l'ingresso.
Un banale e stupido errore come quello poteva costargli caro e amaro.
«Brucerai all'Inferno.» Perez riuscì a recuperare la propria pistola e gli sparò al piede, poco prima che riuscisse a reagire.
Atlas si accasciò sulle gambe dal dolore e serrò la mascella. Si lanciò su Perez. Bloccò il suo corpo a terra, ignorando i dolori sparsi per tutto il corpo e la vista un po' annebbiata a causa del sangue perso. Riuscì a sfilargli la pistola dalle mani, dopo una breve colluttazione. I muscoli gli dolevano, erano tutti tesi come corde di violino. La l'amico lontano e iniziò a mettergli le mani al collo.
Perez si agitava sotto di lui, conficcando le unghie nelle sue braccia. Atlas non riusciva a sentire più nulla.
«ATLAS! Fermati.» Martin teneva una pistola puntata contro di lui.
Atlas non alzò lo sguardo. Ormai era completamente assorto da Perez, che si dimenava come un pesce fuor d'acqua, pur di aggrapparsi a un minimo di respiro. Voleva sopravvivere, dopo tutto il male che gli aveva fatto. Voleva sentire il respiro spegnersi al tatto. Sentiva l'esigenza di bearsi di quel dolore.
«Va' via, Martin. O dovrò uccidere anche te.»
«Atlas, ti prego. Fermo.»
«Abbassa la pistola, Greyson.» Shayla era alle sue spalle. Gli puntava l'arma contro la schiena. La sua voce era gelida. «Sappiamo bene entrambi quanto questo momento debba essere suo.»
Perez approfittò di un momento di pausa di Atlas, indebolito dalle ferite e lo colpì con un calcio allo stomaco, costringendolo a spostarsi di lato. Si tirò in piedi, mentre Martin, immobilizzato teneva la pistola ancora puntata su entrambi. Non poteva uccidere Perez, se non per legittima difesa, ma allo stesso tempo non poteva permettere che quel pazzo facesse altri morti. «Fernando Perez la dichiaro in arresto. Tolga le mani da quella pistola e la lasci cadere. Metta le mani ben in vista.»
Atlas era a terra, dolorante. Aveva chiuso gli occhi, cercando di ritrovare le forze. Senza attirare l'attenzione aveva allungato la mano, recuperando la propria pistola a terra, poco lontano da lui. Avrebbe voluto anche ridere. Perez non si sarebbe fermato finché non l'avesse ucciso. Il prete lo anticipò, ridendo come un ossesso. Puntò la pistola contro la fronte di Atlas e sorrise un'ultima volta a Martin e Shayla. «Sto solo depurando il mondo da questo demonio.»
Atlas fu più veloce.
Scaricò il caricatore, sparando più volte alla nuca di Perez.
Poi perse i sensi, tra le urla di Martin e di Shayla.
༄༄༄
Non credeva che l'Inferno avesse le somiglianze di un ospedale. Né tantomeno il soffitto lo immaginava così bianco. Era escluso che fosse in Paradiso, quindi optò per la soluzione secondo la quale era ancora vivo.
Sentiva dolori ovunque, sparsi per tutto il corpo.
Spostò lo sguardo di fianco e vide, appollaiato su una sedia, Hercule. Dormiva in una posizione davvero scomoda e avrebbe scommesso tutti i suoi soldi che un lancinante torcicollo gli avrebbe illuminato il risveglio. Accanto a lui, invece, c'era Heaven, che gli sorrideva a trentadue denti. Si tirò in piedi dalla sedia che aveva con sé e gli andò incontro. «Non ho dormito qui, eh. Non me lo hanno permesso... sono venuta solo a trovarti.»
Atlas inclinò appena il capo. «Mm, non lo so non dovresti essere a scuola o qualcosa del genere?»
«È domenica.»
Atlas storse il naso. «Detesto la domenica, sarebbe stato meglio svegliarsi domani.»
«Nemmeno a me piace.» Heaven si dondolò sui piedi. «Come ti senti?» farfugliò in imbarazzo, prima di prendere coraggio. «Spero bene, perché volevo ringraziarti per averci aiutato. Così ti avevo preso un libro, papà dice che leggi molto. Mi ha detto anche che tu mi hai regalato per il compleanno quello di Harry Potter e quindi volevo fare qualcosa di carino e allora ho pensato-»
«Non c'è un pulsante per chiamare i medici e chiedere l'eutanasia?»
Heaven si bloccò e aggrottò la fronte. Inclinò il capo. «Cos'è l'eutanasia?» si portò le mani alle trecce. «È un tipo di spogliarellista?»
Atlas era pronto a parlare, ma qualcuno lo interruppe. «Va bene, Heaven, tesoro, perché non vai a chiamare Isak fuori e gli dici che Atlas è sveglio? Così chiamiamo i medici.» Hercule si era appena svegliato, forse in calcio d'angolo per salvare sua figlia da una serie di nozioni non propriamente adatte ai bambini.
Heaven si imbronciò. Si avvicinò ad Atlas e gli posò un bacio sulla guancia. Atlas iniziava a credere di dover uccidere almeno metà della popolazione mondiale per riequilibrare tutte quelle dimostrazioni di affetto delle ultime ore. «Poi mi dici cos'è l'eutanasia?»
«Heaven!» Hercule si portò una mano in volto. Sembrava di esasperato.
La bambina annuì, uscendo e lasciandoli soli.
«Prima che tu possa dirmi che non devo dire certe cose davanti a tua figlia, vorrei ricordarti che l'ospedale non è proprio un parco giochi, nel caso non te ne fossi accorto, dottore.»
Hercule sorrise e scosse il capo. «Sono felice che tu stia bene e pronto a rompere il cazzo come sempre.»
Atlas storse il naso. «Cos'è successi dopo la morte di Perez? Sono in arresto?»
Hercule scosse il capo. Pochi istanti dopo si voltò verso la porta e vide Martin fare il proprio ingresso. Sembrava arrabbiato. O forse era sollevato. Atlas non era bravissimo a distinguere le espressioni, non era un esperto dell'ampio spettro delle emozioni umane. «Come ti senti?»
«Posso andare a scalare una montagna. Se mi danno altra morfina siamo a cavallo.» Sorrise scettico. «Quando l'avevi capito?»
Martin fece un leggero sorriso. «Quando i tuoi amici sono venuti a cercarti alla stazione di polizia. Avevo già alcuni dubbi, ma negli ultimi tempi tanta gente era interessata a te...» Si grattò la nuca. «Comunque sia, ti ho fatto portare in questa clinica privata perché, così come sentirai nei notiziari, il flagello notturno ha ucciso Perez, liberato i bambini ed è fuggito via prima che potessi intervenire. Era troppo tardi.»
Atlas inarcò un sopracciglio. Alzò lo sguardo verso Hercule, che gli stava sorridendo tranquillo. «La prossima volta non sarò tanto indulgente...» Martin scrollò le spalle. «Prenditi una pausa, mh? O magari cambia città.» Si guardò attorno. «Io avrò una promozione e un trasferimento, anche se tu restassi qui, le nostre strade non si incrocerebbero più.»
«Suppongo che un grazie possa bastare, no?»
Martin gli posò una mano sulla spalla. «Credo di sì. È stato bello esserti amico. Non condivido quello che fai, ma d'altronde era la tua storia. Forse è stato meglio così.» Fece un passo indietro. Abbandonò la stanza non appena il dottore fece il suo ingresso.
Atlas si passò una mano in volto, mentre continuavano a ripetergli di dover restare lì ancora per qualche giorno e stare a riposo. La ferita al piede sarebbe guarita e non avrebbe zoppicato per sempre. La notizia lo rilassava abbastanza. Gli ricordò i medicinali e gli anti infiammatori da prendere, mentre Hercule se ne stava seduto ad annotare tutto.
Atlas fissò la sua fronte corrugarsi e tutte le espressioni del volto.
Si chiese quanto sarebbe durato quel breve idillio. Non voleva rovinare più la vita di nessun altro.
«Tutto chiaro?» Il medico si sistemò gli occhiali sul naso aquilino, squadrandolo da capo a piedi come fosse un pazzo.
«Chiarissimo, posso avere un altro po' di morfina? Dove si aumenta?»
Il medico abbandonò la sala, dopo avergli riservato un'espressione truce. Atlas ridacchiò e sorrise in direzione di Isak ed Ida, che stavano attendendo con ansia il loro turno.
Isak gli mollò un pugno sulla spalla. «La prossima volta ti sparo nelle palle, brutto deficiente.»
«Tu provaci, idiota, e ti spello.» Sorrise divertito, massaggiandosi la spalla. Gli sembrava strana quella sensazione di calma e tranquillità. Era davvero tutto finito ed era terrorizzato da cosa il futuro avrebbe potuto riservargli.
Ida roteò gli occhi al cielo. «Smettetela.» Sbuffò piano. Il suo sguardo poi si addolcì. «Tra poco abbiamo l'aereo. Ti lasciamo in buone mani.» Indicò con un cenno del capo Hercule.
Atlas ghignò. «Ti ricordo che è un medico legale... proprio ottime mani non direi.»
Hercule sospirò stanco. «Sono una persona pacifica, ma sei così stressante che-»
Atlas si voltò a guardarlo. «Che? Vai con cosa mi puniresti?»
«Lasciamo perdere.»
Ida sorrise. Gli accarezzò una guancia e salutò entrambi. Isak gli disse di prendersi una vacanza e andare a trovarlo a New York. Atlas stava effettivamente considerando l'idea di andarsene per un po'. Doveva staccare da tutti, senza far troppo del male a chi teneva a lui. Non voleva rovinare altre vite, aveva fatto già abbastanza.
Vide i suoi amici andarsene e affondò il capo nel cuscino. Hercule si sedette sul bordo del letto e Atlas gli spostò appena, facendogli spazio. «È tutto finito. Andrà tutto bene, adesso.» Gli sorrise incoraggiante e Atlas pensò che avrebbe sentito la mancanza anche di quel sorrisetto insopportabile.
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