𝐗𝐗𝐕𝐈𝐈. 𝐏𝐚𝐫𝐭𝐞𝐧𝐳𝐞

I been knowing you for long enough
Damn I need you right now
You can take your time, don't have to rush
This might take us a while, (yeah)
I left all the doors unlocked and you said you're on your way
When you get here don't just say a word, got no time to play
I know you think that you know me
But you ain't even see my dark side
This is for you only
So baby do it right, do me right
We can go all the time
We can move fast, then rewind
When you put your body on mine
And collide, collide
It could be one of those nights
But we don't turn off the lights
Wanna see your body on mine
And collide, collide
Baby it's all yours if you want me, all yours if you want me
Put it down if you want me (tonight)
Said it's all yours if you want me, all yours if you want me
Put it down if you want me (Let's collide)
Wakin' up, she on it
Good love in the mornin'
Get on top my cojones
I pleasure you for the moment
This don't come with no warranty
You want it but can't afford it
My world is different than yours
You're opinion of me is glory



Era strano svegliarsi con qualcuno accanto e doversi preoccupare di non fare troppo rumore.
Atlas non avrebbe mai immaginato una cosa simile e non avrebbe mai creduto alla versione di se stesso venuta dal futuro se gliel'avesse raccontato, anzi probabilmente l'avrebbe presa a pugni.

«Buongiorno.» Hercule aveva la voce ancora impastata dal sonno. «Guarda che ti puoi muovere eh.»

Atlas si voltò a guardarlo con uno scatto. «Da quanto sei sveglio?»

Il medico ridacchiò. «Da abbastanza tempo da guardarti immobilizzato per non fare rumore... sembri una mummia.»

Storse il naso. «Idiota.» Si tirò subito in piedi. Si guardò attorno per la stanza e fece ciondolare il capo, alla ricerca dei vestiti. «Ho pensato a una cosa da fare.»

Hercule non sembrava molto intenzionato a uscire allo scoperto. Sapeva di aver un letto comodo, Atlas aveva testato ogni materasso del negozio. Il commesso non ne era stato particolarmente felice, ma se n'era rimasto in silenzio dopo che l'aveva minacciato di pestarlo a sangue. «E quale piano auto distruttivo hai in mente, per l'esattezza?»

«Devo andare in un posto.» Atlas prese i propri pantaloni. Cercò un maglione abbastanza caldo da poter sopportare quella giornata appena iniziata e fece per andarsene dalla stanza. Sentì un cuscino colpirlo alle spalle. Si voltò a guardare Hercule. «I tuoi attacchi a sorpresa sono davvero terrorizzanti.» Inarcò un sopracciglio, annoiato. «Che c'è?»

«In quale posto hai intenzione di andare?» Hercule si mise seduto e si passò un paio di volte le mani in volto, forse cercando di svegliarsi. Lanciò un'occhiata all'orologio sul comodino e sgranò immediatamente gli occhi. «Ma sono le sei e mezza! Perché non dormi? Pensavo fosse più tardi.» Si lasciò cadere sul letto.

«Allora ti lascerò dormire, principessa.»

Hercule lo guardò male. Sembrava infastidito. Non voleva che nessuno di loro si preoccupasse per lui. Stava bene. Non era mai stato meglio. Era sempre stato bravissimo nel fingere di non provare nulla o di non sentire dolore. Il peggio era passato, lo sapeva. Gli bastava chiudere gli occhi e fingere che nulla fosse successo. Era bravo a mentire. Era vero che fosse mattiniero, ma la sera precedente avevano fatto abbastanza tardi. Semplicemente non aveva chiuso occhio. Aveva aspettato che Hercule si addormentasse e aveva trascorso la notte a fissare il soffitto, domandandosi se il suo destino avesse in serbo per lui qualche momento di tranquillità. C'era stato anche un attimo di rabbia e avrebbe voluto alzarsi e andare a fare una carneficina, ma alla fine era riuscito a controllarsi. «Atlas! Ti sei perso, di nuovo. Terra chiama Atlas...»

Scosse il capo. «Dicevo, tu risposa. Io vado a cambiarmi e a prendere la colazione...»

«Mi credi un idiota?»

«Vuoi che ti risponda con argomentazioni in ordine cronologico o alfabetico?»

«Dove devi andare? Stai sviando l'argomento.» Hercule fece per alzarsi. Atlas decise di non doversi lasciar distrarre e uscì dalla stanza, dirigendosi verso il bagno e approfittando della sua breve distrazione. Fece per chiudere la porta, ma il dottore fu abbastanza veloce da infilarsi all'interno con lui.

Gli sorrise provocatorio. «Capisco della voglia di una doccia insieme come sveglia, ma sono un tantino impegnato.» Indossò il maglione velocemente, ignorando le occhiatacce dell'altro. «Possiamo farlo al mio ritorno?»
Aprì lo sportello del bagno, accanto allo specchio. Qualsiasi persona normale, con una vita normale e con una voglia di trascorrere una giornata normale, avrebbe tenuto al suo interno qualche filo interdentale, degli spazzolini di riserva o un pettine. Atlas prese semplicemente una delle sue pistole e un filo di ferro. Infine un tirapugni.

«Sorvolando su dove tu tenga alcune delle tue cose...» Hercule scosse il capo. «... vengo con te. Non mi piace questa storia.»

Atlas socchiuse gli occhi. Il modo migliore per tenere le persone, che amava, lontano dai suoi problemi e dai pericoli, era ferirle. Ed era sempre stato un campione nell'isolarsi e fare commenti al veleno, al punto che quasi tutti se n'erano andati. Era un maestro dell'auto sabotaggio, probabilmente avrebbe dovuto tenere dei corsi per chi era ancora alle prime armi. «Vieni con me così puoi concludere quello che hai iniziato?» Strinse i pugni. Non odiava Hercule, probabilmente tutt'altro, ma non l'avrebbe mai detto ad alta voce. Poteva superarlo, far finta di nulla, eppure era una cicatrice che sentiva ancora abbastanza fresca. E nonostante avesse voluto urlargli addosso tutto quel dolore che teneva sulle spalle come un fardello, voleva proteggerlo e tenerlo lontano dai guai e da se stesso, soprattutto.

Hercule arretrò appena. Scosse poi il capo. «Oh, non provare a uscirtene così.» Gli puntò un dito contro e Atlas lo afferrò, stringendo appena.

«Ti assicuro, posso dire cose anche peggiori.»

Hercule gli afferrò il braccio. «Atlas... dove vuoi andare?»

I suoi occhi dardeggiarono ovunque. Avrebbe potuto rinchiuderlo nel box doccia, tanto Ida e Isak lo avrebbero trovato. Poteva anche segregarlo nel bagno e portarsi la chiave, così avrebbe evitato di scocciarlo ancora. Quella notte, tra lampi di rabbia e ansia, aveva avuto una piccola idea. Un pensiero l'aveva sfiorato. Perez era così ossessionato da lui che non si sarebbe stupito se avesse tenuto i bambini in ostaggio nel luogo dov'era cresciuto. Nel peggiore dei casi sarebbe stato un tuffo nel vuoto. «Non puoi venire.» Forse era meglio essere onesti.
Probabilmente se ne sarebbe pentito.

«E perché, di grazia?»

«Perché non voglio andare con nessuno. Voglio stare da solo.» Sfilò il cellulare dalla tasca. Scrollò appena le spalle. «E poi scommetto che i viaggi in treno ti annoino, no? Che peccato, prenoterò solo per me.»

Hercule era veloce, aveva sottovalutato la rapidità delle mani di un chirurgo, sebbene dei morti. Gli prese il telefono dalle mani e prenotò due posti vicini. Gli diede nuovamente il telefono e sorrise sornione. «Bene, il pagamento lo fai tu. Una bella gita fuori porta eh? Vado a fare due borsoni.»

Atlas era tentato dal cestinare uno dei biglietti. Eppure, ripensando al posto dov'era intenzionato ad andare, le mani presero a tremargli. Forse l'idea di non essere totalmente solo iniziava a non dispiacergli. Quando tornò in camera, dopo aver finito di prepararsi, osservò Hercule mentre sistemava all'interno di due borsoni dei vestiti. Scosse il capo. «Non ho intenzione di trattenermi a lungo.»

«Va bene, ma ci servirà qualcosa nel caso perdessimo almeno una o due notti fuori, no? Cosa hai intenzione di dire ai tuoi amici?»

«Lascerò un biglietto.» Scrollò le spalle. Era la sua storia e il suo dolore. «Dirò che sto seguendo una pista.»

«Proprio per questo credo che dovrebbero venire.»

Atlas scosse il capo. «Perez per ora non si aspetterà un attacco a sorpresa, quindi potrebbe funzionare comunque.»

Hercule annuì. «Va bene, allora andiamocene.»

Prese le borse di entrambi. Scrisse velocemente un biglietto, lasciandolo sul tavolo dei suoi amici. In realtà sperava di poter trovare qualche indizio utile, se fosse stato fortunato avrebbe trovato indizi sui ragazzini. Forse aveva bisogno di rivedere il suo passato per riuscire a lasciarselo definitivamente alle spalle. Si sentiva un idiota a voler assecondare quel pensiero folle, che si era insinuato nella sua mente durante la notte, come un serpente a sonagli. Lo aveva attirato. Credeva di poter trovare qualcosa di quantomeno utile.

La stazione centrale di Edimburgo era abbastanza grande. Atlas osservava le persone che si affollavano per prendere le coincidenze giuste. Si muovevano tutti nervosamente come un gregge di pecore.
Vide lo schermo in alto illuminarsi. Il treno per Millport sarebbe partito a momenti al binario otto. Rabbrividì.
A volte la mano pesante e violenta del suo passato tornava a poggiarsi sulla sua spalla. Sentiva come lo trascinasse nel turbine dei suoi incubi e aveva paura. Così tanta che forse la sua idea di ritornare, dove tutto era incominciato, iniziava a terrorizzarlo. Indietreggiò appena, andando a sbattere contro Hercule, che sussultò.

«Atlas... se non te la senti non ci andiamo.»

Guardò Hercule al suo fianco con la coda dell'occhio. Non gli aveva detto nulla del perché volesse tornare nel paesino che l'aveva cresciuto e torturato, uccidendo il bambino che voleva ancora correre felice e giocare a pallone. Aveva semplicemente letto il nome della destinazione e deciso di andare con lui. Senza forzare inutili idee o confessioni. Lo aveva visto anche smanettare col telefono, prenotando una camera per la notte. Sebbene la parte più intollerante e diffidente di lui gli stesse urlando che stava facendo altre cose alle sue spalle, quel briciolo di raziocinio gli ricordava che quei gesti significavano prendersi cura di qualcuno, non erano per forza macchinazioni per fargli del male.
Scosse il capo e prese i due borsoni. «No, no. Sto bene, andiamo.»

Atlas doveva ammettere di preferire di gran lunga i viaggi in treno. Adorava fissare il paesaggio, attraverso il finestrino, e osservare come esso cambiasse così velocemente. I colori si mescolavano, il verde degli alberi si univa all'azzurro del cielo, come in uno strano disordine, che però non gli dava alcun fastidio. Aveva sempre odiato viaggiare con l'aereo, soprattutto perché ne era terrorizzato, ma a volte era necessario. Soprattutto per andare in America, dove Isak si era trasferito per permettere delle cure adatte a sua figlia. Poggiò il capo contro il finestrino, mentre Hercule, al suo fianco, leggeva un romanzo in tranquillità.
Lo osservò, poi, di sbieco e sorrise. «Oh leggi il libro che ti ho regalato?»

Hercule annuì, ancora assorto nella lettura. Aveva il naso un po' più sgonfio rispetto al giorno precedente. I suoi occhi saettavano sulle pagine, mentre le sfogliava. Osservò per un po' il suo profilo, poi decise di darsi un contegno. «Già, il tuo regalo romantico per il mio compleanno.» Sorrise allegro.

Atlas roteò gli occhi al cielo. «Nessun regalo è romantico, a meno che non ci si presenti con dei fiori e dei cioccolatini. Volevi quello, forse? Perché sappi che secondo me i fiori si portano solo al camposanto.»

Hercule ridacchiò. «Non mi aspettavo una risposta diversa da te, credimi.»

Atlas sorrise, tirato. Era in tensione. Iniziò ad agitare la gamba su e in giù. Teneva la mano chiusa in una morsa. Osservò Hercule incupirsi, attraverso il vetro del finestrino. Gli prese la mano e la strinse, tornò poi a leggere. Fissò le loro mani intrecciate. Le dita lunghe affusolate del medico erano unite alle sue, le nocche erano spaccate quasi sempre a sangue. Atlas si chiese come potessero andare avanti due mondi così diversi. Non poteva portare nessuno nel suo abisso personale. Ricordava come i medici gli avessero detto chiaramente della sua propensione alla distruzione, propria e degli altri. Voleva ritrarsi, ma anche cullarsi in quel breve contatto.

Quando arrivarono, dovette ammettere che Hercule non aveva avuto una cattiva idea ad affittare una camera. Almeno avrebbero sistemato lì i bagagli. Era tardo pomeriggio. Lesse la sfilza di messaggi che Isak gli aveva lasciato, definendolo un brutto idiota incosciente, assieme a una serie di appellativi molto poco amichevoli. Sorrise, posò poi il cellulare nella tasca dei pantaloni.
Sapeva già dove voleva andare.
Hercule lo seguì, fin dentro al taxi, restandosene in silenzio per tutto il tragitto.
Non gli era mancata quell'aria di campagna. Atlas non era un amante della città e della sua confusione, quanto piuttosto dei suoi peccatori. Preferiva la vita tranquilla, lontano dal caos cittadino. Aveva sognato, da ragazzino, una villetta con giardino e cane, non gli importava con chi accanto. Poi, la sua vita aveva preso una piega diversa, ma almeno possedeva una libreria, di quello ne era felice. Alla fine non se ne lamentava. Era nato per uccidere, era il suo destino e si sentiva completo a farlo.
Mentre fissava quel piccolo boschetto, con vecchi viali di ricordi e terrori, pensò che nulla fosse cambiato, nemmeno dopo tanto tempo.

Quando arrivarono, fissò l'enorme distesa di verde abbandonata. Nessuno aveva più voluto ricostruire lì. Né avevano avuto il coraggio di eliminare i pochi resti di quella casa degli orrori. Socchiuse gli occhi.
Il tassista si sistemò il capello in testa, i baffi erano così lunghi da nascondere le labbra. «Siete alcuni di quei turisti appassionati delle stragi? Perché, vi devo avvisare, dicono che questo posto sia maledetto.»
Hercule si voltò a guardare l'uomo, riservandogli un'occhiata rabbiosa. Lo pagò nervosamente, intimandogli di andarsene.

Si avvicinò ad Atlas, che era rimasto a fissare quasi disincantato quel posto. Gli pareva di poter rivedere le pareti, i pilastri. Poteva sentire ancora le urla che provenivano da quella casa, mentre tutti fingevano che non fosse nulla, solo un ragazzino capriccioso e problematico. Fece qualche passo avanti, come spinto da una forza superiore. Si portò al centro del prato. Sembrava che anche la vita, l'erba e i fior,  avessero deciso di non crescere in un posto così intriso dal male. Ciondolò il capo e si morse un labbro. Non c'era più nulla e aveva freddo. Era notte ormai, il sole era tramontato già da un po'. Hercule si strinse nel proprio cappotto e gli si affiancò. «Ti prego, dimmi qualcosa.»

Indicò con un cenno del capo una piccola casa distante da lì. Anch'essa abbandonata e sentì la laura assalirlo. «Lì vivevano i miei vicini...» abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe, come se non riuscisse a sostenere il peso di quei ricordi. «Speravo sempre che mi vedessero dalla finestra del bagno e venissero a salvarmi... sembravano due brave persone.» Scalciò all'aria, provando ad allontanare tutti i ricordi. «Non hanno mai sentito nulla. Non riuscivo ad urlare e credevano fossi felice. In realtà ho anche ucciso il loro gatto, ancora non riesco a perdonarmelo.» Si voltò a guardare Hercule, che lo fissava in silenzio. Lo sguardo era pieno di commiserazione. Non voleva la sua pietà. «Ho sempre creduto di meritarmi tutto quello che mi è successo... Avevo sette anni. Avevo solo sette anni.» Ripeté piano quelle parole. «Avrei preferito che quell'auto uccidesse me e non mia madre. Guarda cosa ne è uscito...» Si indicò con un gesto nervoso.

Hercule lo tirò a sé, prendendolo per la manica del giaccone. «Perché sei voluto tornare qui?»

Atlas sospirò piano e si liberò da lui. Sfilò dal collo un vecchio crocifisso, un rosario e lo guardò nauseato. «Voglio solo dirgli addio... e credo che possa nascondersi qui.»

Hercule scosse il capo. «Non credo sia così stupido, Atlas. Ed è tardi, è buio ed è meglio che torniamo. Domani possiamo andare dove vuoi.»

«Andiamo in Chiesa.»

«Cosa?»

«Domani, andremo in Chiesa. Entriamo dall'ingresso sul retro.» Deglutì. «A volte mi portava anche lì per le pratiche.» Scosse il capo, nervoso. Si portò una mano in volto. «E sai cosa c'è di peggio?»

Hercule scosse il capo.

«Sono suo figlio. Ha violentato mia madre. Lei mi ha tenuto e se non l'avesse fatto tutto questo probabilmente non sarebbe successo. Nella mia violenza ha visto l'errore e il peccato di un uomo retto. Capisci? Il problema sono io, non lui.» Strinse i pugni.

Hercule fece per parlare, ma entrambi sentirono dei passi alle loro spalle. Era stato un idiota a credere che non sarebbero stati seguiti in qualche modo. Come d'istinto spinse il dottore di lato e gli si parò davanti. Vide quel folle avanzare verso di loro, correndo, con una pistola in mano s brontolando quasi come una cantilena vecchie preghiere, riconobbe un tono latino e sbuffò nervoso. Sfilò la propria pistola e gliela puntò contro. Le mani gli tremarono nervose per la situazione e gli andò incontro. Premette il grilletto, mirando alla testa. Non gli bastava una volta. Quando lo vide cadere ai propri piedi, iniziò a scaricare l'arma, dilaniando il suo corpo, ormai già morto.

«Atlas! Atlas basta, va bene siamo salvi e vivi!»

Hercule gli si avvicinò e lo spinse di lato. Atlas si voltò a guardarlo, col volto sporco del sangue dell'uomo, così come i vestiti. Aveva iniziato a sparare a vicinanza, lasciando che il suo sangue lo sporcasse. Sgranò gli occhi, nervoso. Scosse il capo. «Non avresti dovuto vederlo. Non dovevi venire.» Serrò la mascella. «Te l'avevo detto.»

Hercule scosse il capo. Gli si avvicinò e gli abbassò l'arma. Portò una mano dietro il suo capo e lo tirò a sé. «Non mi fai paura, sono solo preoccupato. Ora dobbiamo andarcene.»

Atlas scosse il capo. Sfilò dal proprio cappotto alcuni lacci che aveva con sé, sempre e una corda. A volte era utile. Si liberò del cappotto stesso e lo lanciò in direzione di Hercule. La sua mente viaggiava già alla velocità della luce. Doveva eliminare il corpo. Si avvicinò all'uomo disteso a terra e fece un'espressione disgustata. «Preferisco quando hanno gli occhi chiusi. Sembra che mi fissi.» Scrollò le spalle. Sapeva che poco distante ci fosse un Lago. Da ragazzino aveva provato ad affogare nelle acque. Un pescatore lo aveva salvato, credendo fosse semplicemente scivolato. Lo caricò sulla schiena. Hercule, confuso, lo seguì comunque. Legò il corpo a un masso e lo lanciò nel lago, lasciando che andasse a fondo. Fissò per un istante quella superficiale, tanto familiare quanto letale. Hercule gli pulì il volto dal sangue, restandosene in silenzio. Lo odiava o forse lo temeva. Non gli piaceva quando stava in silenzio.

«Te lo ripeto, dottore: non avresti dovuto venire.»

«Pensi che mi terrorizzi per così poco? Ho fatto autopsie sui cadaveri che lasciavi in giro, ho visto di peggio.»
Lo costrinse a chiudersi di nuovo nel cappotto, per nascondere la camicia sporca di sangue e chiamò un taxi.

Fino al ritorno nel loro alloggio, il viaggio fu abbastanza silenzioso. Una volta in camera, Atlas si liberò delle scarpe e del giaccone. Fissò il proprio riflesso allo specchio. Il sangue rappreso macchiava la camicia bianca e il maglione. Hercule era seduto sul letto e lo osservava. Scosse appena il capo. Si tirò in piedi e gli si avvicinò lentamente. Atlas seguiva i suoi movimenti con attenzione.
Quando gli fu vicino, gli lasciò un bacio sul collo. Atlas inclinò il capo, creandogli spazio. Iniziò a sbottonargli la camicia. Atlas fissava le sue mani, sorridendo appena, e in pochi istanti si avventò su di lui, prendendolo per il maglione, stringendolo a pugno. Permise, per l'ennesima notte, che il nervosismo lasciasse spazio ad altro. La mente gli si svuotò, non c'era spazio per pensieri razionali.
Sentì le labbra del medico distorcersi in un sorriso, sotto alle proprie. Senza staccarsi o separarsi, coi respiri pesanti, lo fece arretrare fino al bordo del letto. Forse con troppa foga lo spinse, facendolo scontrare col materasso. Hercule ridacchiò. «Menomale che è morbido.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. Il medico lo avvicino ancora a sé, tirandolo per i lembi della camicia semi aperta. Atlas apprezzava come aspettasse fosse lui a toglierla, solo nel caso in cui sentiva di farlo. Fece scontrare ancora le loro labbra con esigenza, più fame di prima.

Hercule gli posò una mano sul petto, spingendolo e costringendolo ad allontanarsi.
Corrugò la fronte, un po' imbronciato.
«Perché non ci laviamo prima, mh? È vero che sono abituato, ma sai com'è...» indicò una macchia di sangue sul suo braccio.

Atlas annuì e sorrise appena. «Vuole per caso unirsi a me, dottore?»




Non era mai stato un amante delle conversazioni notturne, ma Hercule evidentemente non aveva voglia di chiudere né gli occhi, né la bocca, di conseguenza doveva starsene buono ad ascoltarlo.
La verità era che trovava difficile aprirsi totalmente a qualcuno, lo faceva rabbrividire. Dover condividere i propri punti deboli non era un qualcosa di piacevole, lo faceva sentire ancora più vulnerabile. E Atlas detestava sentirsi in quel modo.

«Senti-» Hercule si posizionò sul fianco, voltandosi a guardarlo. «-prima, quando eravamo vicino a quella che un tempo era casa tua, hai detto qualcosa. E credo che forse ti farebbe bene parlarne.»

Atlas storse il naso. Sfilò dai pantaloni, a terra al letto, un pacchetto di sigarette e un accendino, ignorando gli sguardi del medico, non così contento di affumicare la stanza. «Non preoccuparti, dottore. Ho disattivato i rilevatori di fumo.» Sorrise sornione e accese una sigaretta. «... comunque ho detto tante cose, a che ti riferisci? Sto benissimo.» Fissò il soffitto, tenendo la sigaretta penzolante tra le labbra. Nascose una smorfia di dolore, la schiena continuava a ricordargli quanto facesse male.

«Riguardo al fatto che quel maniaco sia tuo padre, Atlas. Non puoi fare finta di nulla. Magari parlarne, dire come ti senti davvero, potrebbe essere un aiuto, no?» Il medico si passò una mano in volto, sembrava esasperato e Atlas si chiese quanto a lungo avrebbe potuto resistere. Tutti nella vita si erano stancati di lui, non era facile stargli dietro e seguire tutte le folli idee che attraversavano il suo cervello. Probabilmente sarebbe scappato, anche lui. «ricordati che ho visto come hai vissuto la morte di Lindsay e dubito che questa scoperta possa far bene alla tua mente.»

Scosse il capo ed espirò il fumo. «Ma che cazzo vuoi che ti dica?» Si mise seduto nel letto e si passò una mano in volto. «Che probabilmente se mia madre non fosse stata un'idiota allora avrebbe dovuto abortire?» Roteò gli occhi al cielo. «O che probabilmente non importerà mai quanto mi sforzi, ma sarò sempre un mostro, figlio di un mostro più grande. Che l'unica persona che avrebbe dovuto tenere un minimo a me è un pazzo, che ha idee piuttosto discutibili e che ancor peggio, non solo è mio padre, ma siamo identici.»

Hercule aggrottò la fronte. «Atlas tu non gli somigli per niente-»

«E tu cosa cazzo ne sai, eh? Lui vuole eliminare il male dal mondo, io uccido persone piuttosto discutibili. E sai che cosa? Lo faccio perché mi piace.» Lo guardò in volto, dritto negli occhi chiari, sebbene sembrasse dispiaciuto di non poter fare nulla. «Mi piace vedere il loro terrore nello sguardo e sentire la loro vita spegnersi tra le mie mani. Uccido persone poco raccomandabili perché così mi è stato insegnato, ma in fondo mi piace. Se non avessi questa strada da seguire, i-io ucciderei chiunque. Senza rimorso.» Abbassò lo sguardo. «Se mi guardo allo specchio, dottore, adesso vedo lui. Non riesco a dormire perché le sue parole mi rimbombano nella mente e vorrei prendere a testate il mio riflesso.»
Hercule gli posò una mano sulla spalla, cercando di tirarlo a sé. «Per questo voglio vederlo morto, e non mi darò pace finché non lo vedrò strisciare.» Spense il mozzicone di sigaretta con un gesto nervoso e iniziò a fissare il soffitto intensamente, alzando lo sguardo.

«Atlas...» Hercule gli accarezzò la mano. Si tirò seduto e posò il capo sulla sua spalla. «Non siete nemmeno un po' simili, te lo assicuro.»

«Non voglio sentire stronzate consolatorie, dottore-»

«Sul serio. Ti lamenti tanto di sentirti un mostro, ma comunque ti impegni per non esserlo. Continui a seguire quella strada che ti sei proposto combattendo degli istinti...» Inclinò il capo. «... e poi, se credi che lasciar crescere la barba ti aiuti a non sentirti uguale a tuo padre o a qualsiasi cosa sia, va bene. Ma sul serio, non vi somigliate nemmeno un po'.»

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