𝐗𝐗𝐕. 𝐂𝐚𝐧𝐞 𝐬𝐜𝐢𝐨𝐥𝐭𝐨

Look me in my eyes
Tell me everything's not fine
Oh, the people ain't happy
And the river has run dry
You thought you could go free
But the system is done for
If you listen real closely
There's a knock at your front door
We'll never get free
Lamb to the slaughter
What you gon' do when there's blood in the water?
The price of your greed is your son and your daughter
What you gon' do when there's blood in the water?
Beg me for mercy
Admit you were toxic
You poisoned me just for
Another dollar in your pocket
Now I am the violence
I am the sickness
Won't accept your silence
Beg me for forgiveness

𝐀𝐭𝐥𝐚𝐬



Chiuso in quella cella, le cui luci a neon lo accecavano e infastidivano soltanto, aveva iniziato a perdere il controllo del tempo. Non aveva idea di quanti giorni fossero trascorsi, né le ore che erano passate dopo l'ultimo incontro.
Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, a quando aveva soltanto sette anni ed era terrorizzato anche solo dal rumore dei passi di suo padre o di Perez. Aveva imparatole a distinguerli nel corso degli anni. Quello di Fernando era deciso, sicuro. Suo padre, invece, sembrava si trascinasse.
Tutto il corpo gli doleva, rinchiuso in quella camicia di forza, che gli toglieva le forze e la voglia di vivere -non che ne avesse molta-.
Aveva provato anche a chiudere occhio, quando le luci venivano rese maggiormente soffuse per permettergli di dormire, ma i suoi pensieri martellavano in testa. Non poteva far a meno di pensare alle parole di Perez. Rimbombavano nella sua testa, come un'eco da troppo tempo dimenticato e che, adesso, ricercava la propria attenzione.
Era suo figlio.
Aveva violentato sua madre, credendo che da quell'unione potesse nascere il suo prossimo erede, un Salvatore del mondo, che portasse avanti le sue credenze. Poi sua madre era scappata via dalle sue grinfie e credenze, incontrando l'uomo che alla fine aveva accolto entrambi nella loro casa, dandogli anche il proprio cognome. Atlas ricordava come all'inizio fossero felici. Erano pochi i momenti che la sua mente era riuscita a conservare, ma a volte non gli sembravano così distanti nel tempo.
Sua madre, poi, era morta e tutto era crollato, come un castello di carte. Perez era ossessionato da lui ed era riuscito a trovarlo. Ricordava ancora come suo padre fosse felice di aver scoperto che un nuovo vicario era in città e che fosse un grande esperto delle pratiche esorciste. Aveva trovato nella fede un'ancora di salvezza per il dolore della morte di sua moglie. Perez, invece, aveva ritrovato il suo agnello sacrificale preferito.
E da lì, la sua vita aveva preso una piega distorta, ogni sua azione, ogni suo trauma, non era più recuperabile. La sua anima aveva iniziato a sporcarsi, inasprirsi e inquinarsi, fino ad arrivare a un punto di non ritorno. Era cresciuto con la convinzione che nel mondo non ci fosse abbastanza spazio per lui e che non meritasse l'amore o l'affetto di qualcuno.
Ancora poteva dire che le persone che tenevano a lui erano da contare sulle dita di una sola mano e una di esse era anche morta e non era riuscito a salvarla.
Si mosse a disagio su quel lettino. Avrebbe voluto urlare, spaccare qualcosa e nessuno poteva immaginare quanta voglia di uccidere avesse in quel frangente. Era esattamente come un drogato senza la propria dose.

Sentì un rumore fastidioso provenire dagli altoparlanti fissati in alto nella stanza. Non era pronto alla voce fastidiosa di Perez. Strinse i pugni. «Buongiorno, Jeremiah, hai dormito bene?»

«Una favola.» Sputò verso la telecamera e si tirò in piedi, avvicinandosi ancora di più, minaccioso. «Appena potrò metterti le mani alla gola, mi implorerai, chiamandomi col mio vero nome.»

«Dovresti essere molto più orgoglioso del tuo nome, Jeremiah. In ebraico significa "Esaltazione del Signore".» Detestava la sua voce calma e imperscrutabile. «Sei proprio un indegno, ma nonostante tutto, oggi ho un regalino per te.» Era un sadico, sembrava divertirsi. Si chiese dove potesse mai nascondersi, se all'interno di qualche gabbiotto. Non riusciva a vederlo, ma poteva solo sentire la sua voce. A giudicare da quanto fosse codardo, non si sarebbe sorpreso se in quel momento non era nell'edificio, ma da qualche altra parte, collegato in remoto.

«Ma che carino, non dovevi. Non voglio nessuna delle tue sorprese.»

Non gli rispose e Atlas prese a guardarsi intorno in quella stanza. Aveva sempre detestato gli ospedali, gli trasmettevano tristezza, forse anche perché gli ricordavano quando erano corsi via in un'ambulanza, nella speranza che sua madre potesse essere salvata o operata. Ricordava ancora il medico paffuto che l'aveva portato in disparte dagli adulti, per tenerlo distratto dal chirurgo che avrebbe avvisato suo padre che la donna non ce l'aveva fatta. Atlas l'aveva capito subito e non avrebbe mai potuto cancellare quel rimorso o senso di colpa dai propri ricordi. Col tempo non aveva più provato quella sensazione, ne era incapace, ma quello fu l'ultimo momento in cui provò rimorso. Alla sua mente, era un ricordo sbiadito, quasi da un sapore lontano.

Sentì la porta cigolare, aprendosi poi, e si voltò nella sua direzione. Aggrottò la fronte, quando Hercule varcò l'ingresso, guardandosi intorno. Era soddisfatto nel vedere il suo naso gonfio, per lo meno aveva sofferto un po'. «Hai sbagliato reparto, non sono ancora morto, per tua sfortuna.»

Hercule roteò gli occhi al cielo e gli si avvicinò, facendolo sedere. Atlas pensava alla prossima mossa, magari avrebbe potuto assestargli un calcio agli stinchi, era un punto nevralgico piuttosto doloroso. «Come stai oggi?» Il medico gli curò un taglio sul sopracciglio. Preferì non rispondergli mentre prendeva la mira per colpirlo, magari sul naso di nuovo, almeno gliel'avrebbe spaccato definitivamente.  «Ho bisogno di un'assistente.» Si rivolse all'altoparlante. Nessuna risposta. Atlas non aveva fatto caso che sembrava fosse tutto staccato. Inarcò un sopracciglio, in tensione. Se era un'idea di Perez per farlo preoccupare, allora ci stava riuscendo piuttosto bene. Odiava come riuscisse ad entrare nella sua mente, affollandola. Sentì dei passi avvicinarsi e deglutì. Se solo fosse stato libero da quella camicia, avrebbe potuto reagire. Erano tutti dei gran codardi.
Hercule sorrise soddisfatto.
Vide entrare Ida, con indosso un camice. La donna gli ammiccò, si posizionò davanti alla telecamera e sfilò una pistola, sparando nella sua direzione. «Muoviamoci dottore, devo aiutare Isak con le guardie.»

In pochi attimi le sue orecchie iniziarono ad essere bombardate dal rumore fastidioso di un allarme. Evidentemente Perez si era accorto che qualcosa non andasse e aveva chiamato i rinforzi. Assurdo quanto fosse stupido, non avevano alcuna speranza contro dei sicari ben allenati. Hercule iniziò a maneggiare con la camicia di forza per liberarlo. «Ti avevo detto che avrei trovato un modo per sistemare le cose. I tuoi amici, però, hanno trovato prima me.»

Era stordito. Un formicolio nervoso iniziò a percorrere tutti i suoi muscoli, mentre veniva liberato da quella prigione del proprio corpo, ma anche dell'anima. Aveva la stessa sensazione di essere uscito da sott'acqua, senza fiato. Come quando da ragazzino Perez lo spingeva nell'acqua bollente col capo, provando ad affogare il demone che era in lui. Quando il suo capo veniva tirato fuori era una boccata di vita, i polmoni riprendevano a respirare, riempendosi d'aria. Sentì degli spari in lontananza. Qualcosa scattò così veloce in lui, come un guizzo. L'avevano tenuto per troppo tempo fermo e sedato. Sentiva la rabbia pulsare nelle sue vene, dandogli così tanta forza da ignorare i dolori persistenti per tutto il corpo. Si tirò in piedi, spingendo Hercule di lato. Le mani tremavano ancora, nervose e impazienti di agire.
Ida entrò di nuovo nella sua cella inquietante e gli tese una pistola. Lo guardò attentamente e si morse un labbro.

«Te la senti o non devo fidarmi?»

«Da' qua e sta' zitta. Pensa tu a guardare le spalle a quell'idiota.» Indicò Hercule con un cenno del capo. Strappò con rabbia l'arma dalle mani dell'amica e si accertò fosse carica. Si fece consegnare anche un altro caricatore.
Poter impugnare quel ferro freddo gli diede la sensazione di assaporare di nuovo la propria libertà e un calore di piacere si impossessò del suo corpo. Non sentiva più le voci di nessuno, così come quello dell'allarme, che continuava a rimbombare, stordendo quasi tutti.
Sapeva benissimo cosa voleva fare.
Isak e Ida si stavano occupando delle guardie.
Lui voleva vendicarsi e cercare Perez in tutto l'edificio, finché non l'avrebbe scovato.

Quando uscirono dalla sua cella, vide Ida ed Hercule dirigersi a sinistra, verso l'uscita. Deviò a destra. Avrebbe ucciso chiunque gli si parasse davanti. Non sarebbe scappato. Era la sua guerra.
Strinse forte la pistola.

«ATLAS! Dobbiamo andarcene!» Ida gli urlò dietro.

Iniziò a correre per l'edificio. Era tutto così fatiscente e abbandonato. D'altronde Perez si era interessato solo di preparare la sua cella, non gli interessava di altro. Diede il calcio a una porta che conduceva alle scale, per raggiungere il piano inferiore. Se la richiuse alle spalle, tra le grida dei suoi amici.
Probabilmente Isak avrebbe voluto ucciderlo, conoscendolo.

Incrociò un infermiere, intendo a fuggire. Ricordava gli avesse iniettato qualche sostanza. Prese la mira e lo colpì alle gambe. Un altro colpo e lo vide accasciarsi a terra. Gli calpestò la mano, godendo del suo rantolo di dolore e proseguì dritto.

«Atlas!» Isak lo aveva raggiunto, insieme anche agli altri. «Dobbiamo andarcene da qui, chiameranno la polizia!»

«Non lo faranno perché troveranno solo avanzi di galera che fanno esperimenti su innocenti.» Atlas sparò al capo di un'altra infermiera. Avrebbe fatto una carneficina se fosse stato necessario, pur di arrivare a Perez. Non gli interessava se stesse perdendo il controllo. Voleva vederli tutti morire e poi sarebbe rimasto a fissare i loro cadaveri inermi, a marcire nelle pozze di sangue.

Isak sembrava frastornato, mentre fissava la scia di cadaveri, che probabilmente sarebbe aumentata esponenzialmente. «Non possiamo ucciderli tutti.»

Atlas si voltò a guardarlo, con lo stesso sguardo furioso di un cane con la rabbia. «E perché no? Dove sta scritto?!»
Una guardia andò loro incontro, Atlas aveva bisogno di quell'adrenalina, di tutto quel sangue. Lo eccitava. Sentiva di essere di nuovo vivo. Non voleva condividere il divertimento con nessuno di loro. L'uomo sparò. Entrambi si abbassarono, acquattandosi contro il muro. Atlas si sporse di poco, approfittando della lentezza dell'avversario, e sparò al ginocchio. Lo vide accasciarsi per il dolore. Gli si avvicinò, assestandogli poi un calcio allo stomaco. Puntò al capo e sparò. Il sangue gli schizzò in volto. Si girò a guardare Isak. «Provate a mettervi in mezzo e vi lego fino a quando non avrò finito.» La mano che impugnava la pistola gli tremava nervosa. «Non provare a fermarmi, Isak, credimi.» La rabbia alimentava il suo cuore, sempre se ne avesse mai avuto uno.

Isak provò a prenderlo per il braccio, ma lo allontanò, strattonandolo con foga. Sparò un altro colpo al corpo inerte della guardia uccisa poco prima. Poi un altro ancora. Il sangue schizzava via, sporcando i suoi vestiti. Non gli interessava. Cambiò il caricatore, mentre Isak teneva lo sguardo fisso sull'uomo a terra, forse un po' disgustato.
Atlas storse il naso. Intravide uno degli infermieri scappare via. Nella sua mente scattò soltanto il pensiero di una vera e propria caccia all'uomo. Iniziò a correre per tutto l'edificio, come un predatore dinanzi al suo prossimo pasto.

«Atlas! Dobbiamo andarcene!»

«Non hanno chiamato la polizia.» Ida tirò un sospiro di sollievo. Li sentiva correre alle sue spalle. «Cristo è impazzito o cosa?»

Isak borbottò qualche parolaccia in norvegese ed era abbastanza certo lo avesse anche chiamato stronzo. Se non ricordava male "bæsj" significava esattamente quello.

Atlas raggiunse l'ultimo piano. Le luci erano completamente spente. Si guardò intorno. Ogni fibra del suo corpo era tesa come una corda di violino e il cuore gli palpitava in petto con forza. Inclinò il capo e cominciò a fischiettare. «Non voglio farti soffrire tanto. D'altronde mi hai solo drogato per giorni.» Diede un calcio a una porta.  Il rimbombo si schiantò con un'eco in tutto il corridoio. «Oh-» ridacchiò nervoso. «-tanto uscirai da lì. Morto, possibilmente.» La voce era roca.
Lanciò un'occhiata ed era una stanza vuota. «Non mi piace giocare a nascondino, non sono paziente.» Si infilò in quelli che dovevano essere dei vecchi bagni. Vide l'uomo provare a smanettare con la finestra, cercando di far saltare i cardini. Doveva essere un volo molto alto, era un folle.
Adorava gli imbecilli folli.
Era divertente. Forse adesso voleva divertirsi ancora un po'.

«Atlas!» Isak era alle sue spalle, teneva la pistola puntata contro l'infermiere, forse per evitare gesti avventati.

Atlas in un attimo gli fu addosso. Lo afferrò in un lampo, spingendolo contro la parete. Aprì la finestra e lo spinse in avanti, tenendolo stretto per il camice e lasciando penzolare il busto verso l'esterno. «Dov'è Perez?»
L'uomo sudava freddo. Balbettò. Atlas gli tirò i capelli, spingendolo di nuovo all'interno. Colpì ripetutamente la sua testa contro il vetro della finestra, urlandogli addosso. «Ho tutta la notte! Dove cazzo è Perez? Ti stacco le dita delle mani una ad una finché non me lo dici.» Il sangue dell'uomo, scorreva lungo tutto il volto. Anche Atlas era completamente sporco, ma non gli interessava. Lo spinse di nuovo in avanti, verso l'esterno della finestra.
Aveva gli occhi sgranati dal terrore. Atlas si nutriva di quelle sensazioni, lo facevano sentire vivo e gli erano mancate. Lo agitò nervosamente. «Dove cazzo si nasconde?» Alzò ancora di più la voce, urlandogli addosso. L'uomo tossì, agonizzante, alla ricerca d'aria. Boccheggiava. Provò a dire qualcosa, ma dalla sua bocca fuoriuscì solo un rivolo di sangue.
Pensò che sarebbe stato più inquietante se avesse piovuto, forse anche un po' più scenografico. Peccato che non si poteva avere sempre tutto dalla vita.

«I-io non lo so!» Piagnucolava. «Ci ha solo assunti, dopo che eravamo suoi assidui frequentatori...» Tirò su col naso e tossì. Aveva sempre meno fiato. «Arrivava qui raramente, seguiva tutto da lontano-» Gli afferrò le braccia, cercando un contatto, la sua empatia o pietà. «Ti prego... stavo solo facendo il mio lavoro.»

Atlas ghignò. «Oh.» Lo tirò fuori dalla finestra. L'uomo sembrò rilassarsi appena. Sfilò la pistola. «E io sto facendo il mio.» La puntò al suo capo. Lanciò un'occhiata ad Isak, Ida ed Hercule, che in silenzio lo fissavano. Atlas lo strattonò, dandogli una ginocchiata alla schiena. Socchiuse gli occhi soddisfatto, ascoltando i suoi rantoli di dolore. Poi sparò un colpo secco alla testa. Il sangue schizzò sul suo volto e sorrise soddisfatto. Prese fiato. La mano prese a tremargli nervosa. Tutti i dolori sparsi lungo il corpo si risvegliarono. La schiena gli bruciava e le gambe sembravano voler cedere sotto il suo stesso peso. Si fissò per un attimo allo specchio del bagno, sporco del sangue dell'uomo appena torturato. Era pallido, le occhiaie violacee gli scavavano il volto, anch'esso macchiato di tutti i peccati di quella notte, della sua strage personale.

Alzò, poi, lo sguardo verso Isak, Ida ed Hercule. Quest'ultimo si era voltato, forse per non guardare la scena. Prese fiato. Le mani presero a tremargli.



«Se tu non fossi stato il mio grande errore...»

«Stai buono, non brucerà tanto.»

«Io sarò sempre nella tua testa.»

«In fondo, non trovi che siamo simili?»


Il petto iniziò ad agitarsi. La bocca era secca. Non aveva le forze per parlare. I pensieri avevano ripreso a vorticare nella sua testa con violenza, insieme ai ricordi e alle sue parole.
Era suo figlio.
Ed un mostro esattamente uguale a lui.
Una vita intera a cercare di scappare, ad allontanarsi, per poi ritrovarsi a congiungere in un unico punto.

«Atlas? Abbassa la pistola, non fare l'idiota adesso.»

Forse, se effettivamente non fosse mai nato, nessuno avrebbe mai sofferto in quella storia. Spesso continuava a ripetersi di vivere la sua vita da protagonista, ma ne era sempre stato l'antagonista. Teneva stretta la pistola tra le mani e iniziò a puntarsela, quasi con un gesto involontario e naturale, sotto al mento.

Isak scosse il capo nervoso. Lanciò un'occhiata veloce a Ida, quasi pietrificata. «Atlas, abbassa l'arma. Non è così che risolveremo questa storia.»

Atlas inclinò appena il capo. Le orecchie erano ovattate. Non riusciva nemmeno a parlare. Credeva semplicemente fosse la soluzione migliore. Il suo corpo aveva iniziato a muoversi come un automa.

Hercule si morse un labbro. «Nessuno di noi vuole questo, Atlas. Se siamo tutti qui è perché teniamo a te.»

«Esatto.» Isak rincarò la dose. Atlas vide Hercule passare qualcosa a Ida, ma non riuscì a intravedere cosa. La donna si avvicinava a lui con calma, molto piano. «Chi potrà prendere poi in giro Bendik perché non sa usare uno smartphone? E poi Leyla ha bisogno che tu l'aiuti a completare la collezione di orsacchiotti lilla.» Atlas deglutì. Ida continuava a muoversi nella sua direzione. Non l'avrebbe fermata, si fidava di lei. Avevano trascorso una vita intera a litigare come cane e gatto, ma le sarebbe sempre stato amico, alla fine.

«Non farlo, va bene? Perché-» Hercule fece saettare gli occhi su tutta la sua figura. La voce gli si stava pericolosamente incrinando. «Tengo a te, Atlas, e non me lo perdonerei mai se ti succedesse qualcosa del genere a causa mia. Posa quella pistola, ti prego-»

Atlas fece per rinsaldare la presa sulla pistola, ma in pochi attimi, Ida lo spinse a terra. Gli bloccò il polso con la pistola e gliela tolse dalle mani, lanciandola poi a Isak. Gli si avvicinò piano, sussurrandogli all'orecchio. «Non volevo iniettarti un tranquillante, ma adesso dobbiamo andarcene a casa.» Sentì l'ago scavare nella sua pelle, ancora. Lo sguardo gli si annebbiò.

Isak ed Hercule lo aiutarono a tirarsi in piedi, dopo che Ida l'aveva sovrastato. «Quando gli dirò che sono riuscita ad atterrarlo, morirà di rabbia.» Ammise un po' divertita, per smorzare la tensione.

Si appoggiò al suo amico e li seguì fuori dall'edificio. La testa gli doleva così forte, che aveva la sensazione che l'avessero infilzato con una serie di aghi invisibili. I muscoli iniziarono a rilassarsi e il dolore riprese a propagarsi per tutto il corpo.
Una volta fuori, lo fecero salire nella sua auto. Avevano guidato fino a lì. Isak si mise alla guida, mentre Ida ed Hercule si sistemarono dietro, tenendolo al centro tra loro. Forse per accertarsi non facesse altre mosse false. Non sentiva più nulla.
Era strano.
Nessuna voce o pensiero lo stava tormentando. Era tutto così silenzioso nella sua testa.
Isak mise in moto l'auto, mentre Ida sfilò un fazzoletto, pulendogli il volto dal sangue.

«Adesso andiamo a casa, mh? Puoi riposarti un po' se ti va.» Gli accarezzò i capelli ricci, dove del sangue rappreso era ancora appiccicato.

Atlas annuì con un flebile gesto del capo. Le palpebre erano pesanti. Un tremolio si scaricò lungo tutto il corpo, al contatto con Ida. Rabbrividì, ma non aveva le forze per reagire, grazie anche a quell'ennesimo tranquillante. Socchiuse appena gli occhi e poggiò il capo sulla spalla di Hercule. Si addormentò poco dopo.








Angolino
Allooora Hercule si è fatto perdonare e Atlas ha fatto una strage. Questo è uno dei miei capitoli preferiti, perché viene fuori ancora di più l'ira e l'indole di Atlas.
Spero vi piaccia e ci sentiamo!
Buon Natale (anche se questo è stato sanguinoso)

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top