𝐗𝐗𝐈. 𝐑𝐢𝐬𝐯𝐞𝐠𝐥𝐢𝐨
It's just another night
Just another fight for my life
It's alright, because everything dies
Nobody know why
Wetin I go do?
Wetin you go do when you feeling like you're falling
And you can't find nothing to hold on to?
Memories ahh-ooh
Carry me go
Carry me go, oh na, yeah
Sick and tired of it all, take me far away
Mr. DJ, gbemi trabaye
Now I no fit trust anybody
Na hin mek I no fit shout
My body don dey tire, eh
E make me madder, eh
My head don scatter, eh
My Holy Father, eh
My body don dey tire, eh
E make me madder, eh
When my whole world is set on fire
Don't leave me alone
Aprì mollemente gli occhi.
Dovette abituarsi all'accecante luce al neon della stanza. Sbatté le palpebre e non appena provò a muoversi, ma le gambe non risposero agli impulsi. Aveva ancora il corpo semi addormentato.
Sgranò gli occhi, quando si rese conto di tenere le braccia consorte al petto in una fastidiosa morsa. Era completamente immobile. Non poteva far nulla, reagire in nessun modo.
Prese a tremare nervosamente. L'aria gli mancava e avrebbe voluto urlare, ma la voce gli morì in gola.
Era da solo in quella stanza. Lo avevano rinchiuso lì dentro, in attesa che si svegliasse, con una camicia di forza, perché volevano assicurarsi che al suo risveglio non li uccidesse tutti.
Aveva la gola secca e gli occhi gli bruciavano. Osservò il proprio riflesso al piccolo specchio che aveva di fronte e sembrava distrutto. C'era ancora del sangue rappreso sul capo, dove Hercule lo aveva colpito.
In un moto di stizza fece per tirarsi in piedi, ma le gambe cedettero sotto il suo stesso peso e cadde a terra. Si fece sfuggire un rantolo di dolore e si sedette, posando la schiena contro il bordo del letto.
Si domandò quanto tempo fosse trascorso e quanto tempo avesse dormito, sotto gli effetti di qualche strana droga.
Se solo pensava al suo nome sentiva il sangue ribollirgli nelle vene, chiedendosi come avesse fatto a fidarsi di un idiota sempre sorridente. Non vedeva l'ora di potergli mettere le mani al collo e vedere il suo sorriso svanire mentre lo strangolava.
Sentì il cigolio della porta e alzò lo sguardo verso due infermieri, che si avvicinavano a lui con cautela. Era stato reso completamente inerme, non avrebbe potuto attaccare nemmeno se avesse voluto.
«Oh non mordo, idioti...» Tirò su il capo, prendendo un respiro forte. Gli doleva tutto il corpo, ma poteva reggere. Ne aveva vissute di molto peggio. «Forse.» Ridacchiò appena quando li vide tremare, portandosi all'indietro.
Uno di loro si avvicinò per aiutarlo ad alzarsi. Lo lasciò fare. Doveva capire dove fosse, altrimenti qualsiasi piano di fuga non avrebbe avuto senso e modo di esistere. Socchiuse gli occhi. «Come si sente?»
«Come dovrei sentirmi, idiota del cazzo? Sto bene, dottore, posso andare a casa con qualche pillola?!» Gli ringhiò quasi contro e vide l'altro portare istintivamente la mano a una siringa.
Si chiese quante volte lo avessero già sedato dopo un risveglio violento. Semplicemente non ne aveva ricordi e aveva la sensazione che avessero usato le stesse droghe dello stupro che utilizzava lui stesso.
«Stai calmo, Jeremiah, e non dovrò farti drogare ancora.»
Atlas impallidì. Odiava come il suo corpo reagiva a quella voce. Odiava paralizzarsi e sentirsi morire fin dall'interno. Era come la voce delle sirene, calda, accomodante, ma che invitava i marinai -o le sue future vittime- ad auto distruggersi nel mare del loro dolore. Si lasciò sedere sul letto, sebbene quella camicia gli desse fastidio anche all'altezza del cavallo. Sbuffò scocciato. Non poteva vederlo, riusciva a percepire solo la sua voce attraverso degli altoparlanti montati nella stanza degli orrori, dove l'aveva relegato.
«Sono tranquillissimo, non vedi?» Sibilò nervoso. «Così calmo che potete anche togliermi questa prigione da dosso.»
«Non sono uno stupido, Jeremiah, ma se farai il bravo ogni cosa avverrà a proprio tempo.»
Detestava quella placida e calma voce. Continuava a rimbombare nella sua testa anche durante i suoi peggiori incubi.
«E cosa hai intenzione di fare? Vuoi giocare con me, come hai fatto sempre? Ti propongo un accordo-»
«Non credo tu sia nella posizione di parlare, ragazzo. Faremo tutto secondo i tempi divini, credimi.»
Atlas storse il naso. Si sentiva agitato. Alzò lo sguardo verso i due infermieri. Tenevano le mani posate sulle sue spalle, per evitare che si alzasse di colpo. Osservò i loro profili: al colli pendevano dei rosari, con un crocifisso raffigurato sopra. Rabbrividì. Gli sembrava di star tornando così tanto indietro nel tempo, che il terrore lo pervase di colpo. Scosse il capo, non doveva lasciarsi soggiogare ancora dai ricordi.
«E dove siamo, almeno?»
«È un vecchio ospedale psichiatrico, il posto migliore per una mente tanto malata come la tua.»
«O come quella di chi si diverte a esorcizzare dei bambini che avrebbero solo bisogno di affetto. Di certo non hanno il cazzo di demonio in corpo, perché quello ce l'hai tu!» Si tirò in piedi, liberandosi dalla presa dei due infermieri. Si avvicinò verso la piccola telecamera, nell'angolo in alto a sinistra di quella stanza glaciale e bianca. Puntò il suo sguardo, carico d'odio, fisso nell'obbiettivo. «E te lo giuro, arriverò a torturarti così tanto che implorerai la morte. Probabilmente sarò felice solo quando il tuo cazzo di sangue sporcherà ogni centimetro della mia pelle.» Sputò nell'obbiettivo.
Voleva uscire. Don Fernando non lo voleva ancora morto, voleva giocare e divertirsi, forse per vendicarsi del fatto che l'aveva quasi ucciso. Sapeva bene, però, che se fosse rimasto anche solo qualche altro giorno lì dentro, avrebbe rischiato di ripercorrere quel viale di ricordi che non aveva alcuna intenzione di rivivere. Gli infermieri fecero per avvicinarsi, ma sentì il comando negativo di Perez. Dal suo tono di voce non appariva per nulla turbato. D'altronde si aspettava certe reazioni, lo conosceva così bene. Era stato lui stesso la causa del suo essere. Se in lui c'era del male, era a causa sua, e Atlas questo aveva imparato ad accettarlo. Non avrebbe mai riavuto indietro la spensieratezza di un tempo, ma non poteva permettergli che facesse ad altri bambini ciò che aveva fatto a lui. Doveva tenere alta la sua attenzione su di sé, solo così poteva tenere quanto più lontano possibile le sue mani da quelle anime innocenti.
«Sfogati pure, se ne senti la necessità, Jeremiah. Ma sappi che il tuo sacrificio, con la preghiera giusta per la tua anima, ci libererà dal male e dall'anticristo.»
Atlas sgranò appena gli occhi. Aveva sempre saputo che quel folle vedeva in lui il seme del male. Era così ossessionato che credeva che avrebbe liberato il mondo dal Diavolo se lo avesse ucciso secondo i suoi metodi. Forse poteva mandare a puttane il suo piano. Si avvicinò alla parete di fronte a sé. Era vetrata, ma solo dall'esterno potevano osservarlo, lui invece non vedeva nulla. Socchiuse gli occhi e iniziò a dare testate al muro. La fronte gli faceva male e il sangue iniziò a scorrere lungo il naso. Con gesti meccanici, sbatteva ripetutamente. Il tonfo dei colpi rompeva il silenzio appena creatosi.
Se si fosse ucciso, avrebbe impedito a Perez di portare avanti la conclusione del suo piano, non avrebbe più potuto utilizzare il suo agnello sacrificale preferito.
«Fermatelo!»
Due braccia forti lo avvolsero al petto, costringendolo ad allontanarsi. Atlas provò a colpire l'infermiere con un calcio.
Si paralizzò quando sentì la punta di un ago affondare nella propria carne. I muscoli si rilassarono di colpo e la vista gli si annebbiò, per l'ennesima volta.
Sapeva di essere finito nel proprio loop infernale.
«Atlas, vieni qui.»
Sussultò. Suo padre non l'aveva mai chiamato in quel modo. Era sempre stato solo Jeremiah. Si era rifiutato per anni di accettare il nome che sua madre gli aveva dato, ricordava troppo lei, non poteva farlo.
Era una domenica mattina, erano appena tornati dalla solita messa, e Atlas stava posando il proprio cappotto. Gli si avvicinò, titubante. Ormai aveva tredici anni, stava crescendo e non aveva idea che la sua vita sarebbe drasticamente cambiata. Da qualche mese suo padre aveva iniziato a disintossicarsi dall'alcol, ma era un processo difficile e a volte era più stanco del solito.
Titubante, gli andò incontro. Forse voleva che andasse al bagno a prepararsi per la solita seduta. «Devo preparare la vasca?» La sua voce era atona. Ormai non era più così debole. Era una routine. Chiudeva gli occhi, fingeva di essere altrove mentre la sua schiena andava a fuoco e poi tutto tornava alla "normalità".
Gli occhi di suo padre parvero inumidirsi. Scosse il capo e gli prese il volto tra le mani callose. «Tra un po' arriverà Fernando. Devi fare esattamente come ti dico, va bene?»
Atlas lo guardò confuso. «I-in che senso?»
«Mi dispiace figliolo... per tutto. Ma ho la soluzione, credimi.» Forse era impazzito. Non era mai stato un padre per lui, o perlomeno non lo ricordava. C'erano stati momenti felici, quando c'era ancora sua madre, ma poi erano stati brutalmente spazzati via con la sua morte. «Avrei voluto una storia diversa per entrambi, tu ricordati cosa ti ho insegnato.»
«Che sono troppo violento?»
«E?»
«Che quando sento l'esigenza di uccidere, devo accertarmi che siano persone che effettivamente lo meritino?»
«Bravo ragazzo.» Gli accarezzò i capelli e Atlas rabbrividì a quel contatto. Si tirò indietro. Non amava più il contatto fisico, gli provocava brividi lungo tutto il corpo. Lo vide incupirsi, forse era la consapevolezza fosse tutta colpa sua. O forse aveva davvero bevuto troppo, raggiungendo un nuovo stato di ubriachezza. «Allora ascoltami. Quando ti darò il segnale, tu andrai via. Non voltarti indietro. Chiuderò io la storia con Perez. Lascerò la bombola del gas aperto, raggiungerà i limiti di infiammabilità e darò un innesco. Tu devi essere fuori, va bene?»
Atlas sgranò gli occhi. Era libero. Forse sarebbe stato libero. Non provava dolore o rimorso per abbandonare suo padre. Sentiva fosse giusto così. D'altronde, sarebbero morti due esseri che non meritavano più di restare in vita. Era la giusta chiusura. Annuì con un cenno del capo, ancora intontito da quella rivelazione. Sentiva una strana confusione e si sentì tremare. Suo padre gli accarezzò i capelli ricci un'ultima volta e sorrise. «Bravo ragazzo, ora va'. Dirai ai poliziotti che eri uscito a giocare e se vuoi raccontare la tua storia sarà meglio.»
Sentirono il campanello bussare e si voltarono verso la porta. «Corri verso la libertà, muoviti.» Lo spinse in avanti, verso la porta sul retro della cucina. Atlas annuì. Avrebbe tagliato lui il tubo del gas, sentiva che fosse compito suo.
Si avvicinò alla bombola della cucina.
Sentiva i due uomini discutere animatamente, ma non poteva concentrarsi sui loro discorsi.
Le mani sfrigolavano dall'eccitazione. Prese la bombola e iniziò a perdere tempo vicino alla manopola.
«È un bastardo, il figlio di uno stupro, Michael, lo sai benissimo!» la voce di Perez era accalorata, gli arrivava forte e chiara fin alla cucina.
«E allora? Che colpe ne ha lui?»
«Sei impazzito?!»
«O forse sono rinsavito! Non lo sapremo mai!»
Li sentì litigare ancora per un po', ma poi non fece caso al silenzio assordante di qualche minuto.
Atlas diede uno strattone alla bombola, lasciandola cadere a terra. Permise così al gas di espandersi e prese un fiammifero. Si avvicinò all'uscita della cucina e lo lanciò verso la bombola.
Uscì velocemente di casa, corse a perdifiato lungo la strada e chiuse gli occhi. Si allontanò di molto. Non poteva far a meno di sorridere. Non sapeva se essere felice, ma almeno adesso tutto sembrava finito.
Pochi istanti dopo sentì uno scoppio alle sue spalle.
Si voltò a guardare la propria casa in fiamme e socchiuse gli occhi. Era libero.
Non aveva idea, però, che, da quel momento, sarebbe iniziato un periodo di allontanamento ed estraniamento sociale, in orfanotrofio.
Lì avrebbe conosciuto qualche altro ragazzino strano 9 lui, ma poi col tempo avrebbero perso le tracce l'uno dell'altro.
«Atlas?» una voce familiare cercava di riportarlo alla realtà. «Atlas, mi senti?! Svegliati, cazzo.»
Riaprì lentamente gli occhi. Il solito soffitto bianco era sempre lì ad accoglierlo e si sentì mancare il fiato per l'ennesima volta. Era ancora bloccato in quella camicia, che era una prigionia, e le sue forze erano così basse che a stento poteva alzarsi. Sbatté le palpebre per l'ennesima volta.
«Dio. Pensavo ti avessero iniettato troppo sedativo.»
In un lampo ritrovò la voglia di strangolare qualcuno, non appena riconobbe la voce di Hercule. Si tirò seduto sul letto e fece un movimento brusco in avanti per colpirlo, ma ovviamente non poteva, era completamente bloccato. Hercule arretrò appena. Lo guardava dispiaciuto, ma Atlas avrebbe voluto strappargli i denti uno ad uno. Gli riservò un'occhiata carica di odio, così viscerale che se avesse potuto, lo avrebbe fulminato sul posto.
Il medico alzò le mani. «Va bene, forse non è stata un'ottima idea venirti a trovare.»
«Io inizierei a nascondermi anche in capo al mondo, dottore.» Gli sibilò contro. «Perché non appena sarò fuori da qui farò il tuo corpo in mille pezzi e lo darò in pasto ai maiali.»
Hercule deglutì. «Senti, non avevo idea che ti avrebbe conciato così.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. «Oh, allora avevi nobilissime intenzioni a riunire un vecchio pazzo pedofilo con la sua vittima, hai ragione perché non ci ho pensato.»
Calò il silenzio tra loro. Atlas socchiuse gli occhi. Cercò di prendere fiato.
«Quando mi ha contattato, non sapevo fosse Perez...» mormorò a bassa voce. Lanciò un'occhiata alla telecamera. «Mi aveva chiesto solo di seguirti e tenerti d'occhio. Mi aveva detto chi fossi davvero.»
Atlas inarcò un sopracciglio. Voleva fargli male. Voleva vederlo sanguinare. Forse poteva averne l'occasione se gli avesse lasciato credere di essersi calmato. Si spostò lateralmente sul letto, sedendosi e gli permise di accomodarsi accanto, fingendo di essere vagamente interessato al suo racconto. «Sapevo fin dall'inizio fossi tu Mr Knight e credevo che volesse catturarti per conto di qualche forza speciale. Non sapevo chi fosse fino ad oggi...»
Atlas lo osservava mentre si avvicinava. «Perché avresti dovuto accettare?» Era nervoso e doveva fingere di essere calmo. Quella situazione lo infastidiva all'inverosimile. Se non avesse avuto tutto il busto bloccato avrebbe ucciso chiunque si fosse azzardato a incrociare la sua strada.
Hercule si sedette accanto a lui. Fissò le sue ferite e si morse l'interno guancia. Aveva il naso ancora sporco di sangue rappreso e la fronte piena di graffi e lividi. Probabilmente aveva dormito un giorno intero e doveva ammettere di sentirsi a pezzi. Aveva dei mal di testa lancinanti, stilettate alle tempie. «Ho dovuto farlo, per la mia famiglia.»
«Stronzate. Quanto ti ha pagato?» Lo guardò dritto negli occhi. Il suo pomo d'Adamo si abbassò, in tensione. Hercule interruppe quel contatto. «Sappiamo benissimo che sono i soldi che ti ha dato.»
«Tutto ciò che faccio, è solo per difendere la famiglia che mi ha cresciuto e mi ha permesso di studiare e farmi una carriera. Farei di tutto per mio padre, non posso abbandonarlo ora che ha bisogno di me.»
Atlas voleva spaccargli la faccia. «E pensi che i tuoi siano orgogliosi dell'uomo che stai diventando? Di quello che stai facendo?» in realtà non ci capiva un fico secco di tutto quello che aveva detto. Ma delle persone con una sorta di codice morale normale avrebbero dovuto sentirsi attaccate da quelle accuse. Se l'avessero detto a lui, avrebbe risposto che suo padre era stato il primo a insegnargli a uccidere, quindi teoricamente, almeno, avrebbe potuto esserne orgoglioso o vantarsene. Se non l'avesse fatto saltare in aria.
Lo vide reagire. Era esattamente quello che aspettava. Aveva abbassato la guardia. Hercule si era sentito colto sil vivo e aveva abbassato lo sguardo, estraniandosi per qualche istante. Ancora di fronte a lui. Il primo errore. Con una mossa veloce, Atlas gli si avvicinò e gli diede una testata sul naso.
Hercule si portò le mani in volto. Le dita iniziarono a sporcarsi di sangue e lo guardò sconvolto. Non si aspettava una mossa così fulminea. Ad Atlas non interessava se lo avessero sedato per altri tre giorni, si era lasciato passare uno sfizio. Poteva dirsi soddisfatto.
Degli infermieri fecero per entrare, ma Hercule alzò la mano. «No. Sto bene, non è il caso, ci penso io.»
Sbuffò piano e sfilò un fazzoletto dalla tasca, tamponando il flusso di sangue. Poi si voltò a guardarlo e annuì con un cenno del capo. «D'accord. Je l'ai mérité.» (d'accordo, me lo sono meritato.)
Strizzò gli occhi, forse per ricacciare il dolore all'indietro. «Mio padre ha tantissimi debiti, Atlas. Si è affidato a persone crudeli e ho capito troppo tardi a chi mi sono affidato io. Forse siamo una famiglia di ingenui. Non volevo ti succedesse questo, né che vivessi in un incubo simile. Non avevo idea che fosse quel pazzo su cui la polizia stava indagando.» Gli posò una mano sul ginocchio.
Atlas lo fissò e si ritrasse. Si era fidato una volta, non avrebbe ripetuto lo stesso errore. «Va- t'en.» (vattene.)
Hercule sospirò piano e si tirò in piedi. Si avvicinò appena e gli disinfettò la ferita sulla fronte, sebbene Atlas non facesse altro che muoversi per allontanarlo. «Je trouverai une solution. Je te promets.» (Troverò una soluzione, te lo prometto.) Gli sussurrò quelle parole all'orecchio, per far sì che rimanessero tra loro e si allontanò appena.
Si avvicinò alla porta per uscire e si voltò a guardarlo un'ultima volta.
Atlas sbuffò e si distese sul letto, dandogli le spalle. Era stanco. Era anche stanco di combattere con se stesso, voleva riposare, trovare un po' di pace.
Sentì la porta chiudersi.
Angolino
Non ho distrutto una delle mie ship preferite, assolutamente 😂
Non vi preoccupate, come Hercule ha promesso saprà farsi perdonare.
Alla prossima 💕
Ps. Mi scuso per la sofferenza dei prossimi capitoli.
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