𝐗𝐕𝐈. 𝐔𝐧 𝐩𝐚𝐬𝐬𝐚𝐭𝐨 𝐛𝐮𝐢𝐨
Ever since I could remember
Everything inside of me
Just wanted to fit in (oh, oh, oh, oh)
I was never one for pretenders
Everything I tried to be
Just wouldn't settle in (oh, oh, oh, oh)
If I told you what I was
Would you turn your back on me?
And if I seem dangerous
Would you be scared?
I get the feeling just because
Everything I touch isn't dark enough
If this problem lies in me
I'm only a man with a candle to guide me
I'm taking a stand to escape what's inside me
A monster, a monster
I've turned into a monster
A monster, a monster
And it keeps getting stronger
Can I clear my conscience
If I'm different from the rest
Do I have to run and hide?
Atlas non aveva idea di come fosse finito a ritrovarsi in quella particolare situazione, né avrebbe voluto essere in commissariato con dei lancinanti mal di testa. Se gliel'avessero chiesto, non avrebbe saputo spiegare perché era lì, in compagnia di Hercule, che sorrideva imbarazzato a Martin. Il loro amico li osservava confuso, come se non si aspettasse per nessun motivo al mondo di trovarli lì, accusati di atti osceni in luogo pubblico.
Martin si passò una mano sul volto stanco, erano le tre del mattino e credeva, erroneamente, che quel turno notturno poteva essere quantomeno tranquillo. «Vi va di spiegarmi perché siete qui?» Inclinò poi il capo. Atlas doveva avere un aspetto schifoso, gli occhi gli bruciavano e a giudicare dall'alito e dalla puzza di alcol, che entrambi emanavano, dovevano essere davvero molto ubriachi. «Insomma, come diavolo vi è venuto in mente?»
Atlas roteò gli occhi al cielo, non vedeva dove ci fosse questo gran bisogno di urlare. «Vorrei saperti rispondere, ma al momento non mi ricordo nulla.» Si guardò attorno. Fissò la scrivania di Martin, così disordinata e piena di cianfrusaglie, che rischiava di avere un attacco cardiaco. Iniziò a mettere in ordine, come un meccanismo, il porta penne. Martin lo guardava sempre più confuso.
«Atti osceni in luogo pubblico, idiota.»
Il tono di Martin era nervoso. Atlas continuava a sistemare, mentre la sua mente elaborava le informazioni. «Puoi-puoi stare fermo?!»
Hercule al suo fianco, invece, iniziò a ridacchiare divertito.
Non avrebbe dovuto fidarsi di quel medico che sorrideva a tutto il mondo. Deglutì, spaventato dall'idea di cosa avrebbero potuto fare. La sua mente iniziò a immaginare tutti i possibili -e peggiori- scenari. «E cosa avremmo fatto?» I postumi dell'alcol lo confondevano sempre di più. Era abbastanza sicuro di aver recitato qualche poesia urlandola a squarcia gola. Alcuni ricordi erano annebbiati.
Martin trattenne a stento un sorriso divertito, Hercule era rosso livido in volto cercando invano di trattenere delle risate sguaiate e rumorose. «Stavi pisciando contro il muro di una Chiesa»
Atlas scrollò le spalle. «Credevo molto peggio.»
Martin sbuffò. «E stavate scassinando una vecchia auto, non chiedermi perché.»
Atlas si aspettava decisamente qualcosa di peggiore. «E tu scusa?» Si rivolse ad Hercule. «Che diavolo facevi?»
Il medico ridacchiò, grattandosi poi dietro il capo in imbarazzo. «Avrei dovuto fare da palo e controllare che non passasse nessuno mentre ti liberavi. Ti avevo anche detto di andare a casa, ma dicevi che ti scappava.»
Atlas non poteva credere di riuscire sempre a circondarsi di così tanti idioti. Sgranò appena gli occhi e si grattò il mento. «E illuminami, perché cazzo siamo qui allora? Non sai fare nemmeno la guardia? »
«Ero distratto...»
Atlas si mosse sul posto. Lo avrebbe afferrato con piacere per i capelli e poi spingerlo (così tante volte da perderne il conto) con la testa contro il tavolo. Non poteva credere di essere in commissariato, come un completo deficiente per un'accusa tanto stupida. Se avesse avuto con sé qualche pistola, probabilmente avrebbe iniziato a sparare all'aria.
Martin sembrava divertito da quell'assurda situazione e guardava i suoi amici con aria di sufficienza. Scribacchiò qualcosa al computer e poi batté appena la mano sulla scrivania. «Va bene, facciamo così. Io vi lascio andare, un po' perché siete miei amici e un po' perché siete abbastanza ubriachi da farmi tenerezza, però non voglio che si ripeta una cosa simile, va bene?»
Atlas annuì, tirandosi in piedi. Chiuse gli occhi perché il mondo aveva iniziato a girare senza il suo permesso e sospirò frustrato. Odiava poter ringraziare quel gesto di estrema benevolenza. Insieme ad Hercule, abbandonò il commissariato. Una volta fuori, accese una sigaretta e lasciò che il freddo gli raggelasse le vene. si chiuse un po' nel proprio cappotto e osservò la leggera cortina di fumo che gli annebbiò la vista. Hercule lo raggiunse poco dopo e sospirò piano.
«Sei arrabbiato?»
«Cosa te lo fa dedurre, dottorino?»
Il medico sorrise appena e si poggiò alla parete, guardando distrattamente il cielo, appena stellato. «Prima, almeno, ridevi un po'. Certo non ricordo di cosa stessimo parlando, ma sembravi lontano da quell'ombra di problemi che ti trascini dietro...»
Restarono in un silenzio quasi ombroso, un silenzio scuro, d'inchiostro. Lo guardò poi, annuendo e decise di essere buono o caritatevole e gli sorrise.
«Non fa nulla. Io credo di andare a casa e ci vediamo, mh?»
Hercule tentennò sul posto. Lo guardò allontanarsi e Atlas gli diede le spalle, nascondendo le mani nelle tasche dei pantaloni e sospirò piano. «Tieniti distratto, Atlas.» la sua voce era preoccupata.
Lo salutò con un cenno della mano, senza nemmeno voltarsi a guardarlo e sbuffò piano. Inspirò il fumo della sigaretta e camminava per le strade buie di Edimburgo. Soltanto la luce soffusa dei lampioni illuminava l'aria, colorandola quasi di giallognolo, scontrandosi contro i muri e le strutture scure e gotiche. Forse avrebbe dovuto ubriacarsi più spesso, se l'aiutava ad essere distratto da tutti gli incubi e ricordi della sua vita.
Raggiunse il proprio palazzo. Mai come quella volta le scale erano così pesanti.
Forse i fumi dell'alcol avevano iniziato a svanire, a scemare, lasciando spazio alle paure e alle ansie di ogni giorno.
Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca delle chiavi. Le sentì tintinnare, ma poco dopo percepì al tatto un foglio di carta e rabbrividì, sfilandolo poi.
Osservò di nuovo quella velata minaccia, le parole dell'uomo che gli aveva dato il tormento per una vita intera, rovinandogliela e riservandogli un posto d'onore all'Inferno, sebbene fosse convinto che fosse nulla rispetto a quello che viveva in terra.
Socchiuse gli occhi, dopo aver riletto quelle parole e tremò appena, il corpo percorso da brividi convulsi.
Ormai erano le quattro, sentì le campane del Duomo risuonare, i rintocchi vibrarono fin nelle sue ossa, smuovendole come corde di una chitarra.
Non era mai stato un bambino felice o perlomeno non ricordava nemmeno qualcosa di vagamente simile a un sentimento del genere.
Aveva memoria dei baci sulla fronte di sua madre, certo. Delle sue carezze, del suo amore, ma col tempo sembrava stesse svanendo via, come soffiato con violenza da una folata di vento, come foglie al gelo.
Era stanco, anche quel mattino di Natale, e non voleva alzarsi dal letto.
A volte continuava a fissare la porta, nella speranza che sua mamma ritornasse da lui, gli portasse una cioccolata calda a letto e gli ricordasse che il mondo non era poi un posto così crudele. Quasi ogni mattina si svegliava con la speranza di riaverla lì con lui, invece aveva imparato che tutto ciò che toccava moriva, si deteriorava lentamente fino a marcire come il suo animo.
Era presto.
Ormai non ricordava più cosa significasse dormire fino a tardi. Si rannicchiò, nascondendosi sotto le coperte e socchiuse ancora una volta gli occhi.
Nei suoi sogni era ancora lì, a ripercorrere sempre quella giornata, nella speranza che il finale si rivelasse diverso.
Era in salotto a giocare con sua madre e correva ovunque lungo il salotto.
Era sempre stato un bambino particolarmente iperattivo, ma sua madre lo guardava solo con gli occhi dell'amore, come se fosse il suo bene più prezioso, nonostante frutto di una violenza gratuita.
Gli accarezzò la guancia, cercando di tenerlo fermo.
«Usciamo fuori? È una bellissima giornata, mamma!» Urlò felice, prese sua madre per mano, costringendola ad alzarsi e a seguirlo. La trascinò fuori, fino in strada e iniziò a giocare col pallone.
Amava il calcio, adorava palleggiare e scambiare qualche passaggio con lei. Sua madre diceva che aveva lo stesso tocco di un giocatore brasiliano, aveva talento secondo lei. Le passò il pallone, ma questo finì in strada.
«Atlas, sta attento tesoro.»
Non la ascoltò. Forse avrebbe dovuto farlo, almeno una volta, smettere di seguire quelle smanie che non riuscivano a trattenerlo fermo nemmeno per qualche istante. Corse verso l'asfalto. I suoi occhi riuscivano a fissare soltanto il pallone.
Sentì un clacson suonare con violenza, alzò lo sguardo verso quell'enorme fuori strada, che correva come se la strada gli appartenesse, come fosse su un circuito ad alta velocità.
Chiuse gli occhi e si sentì spingere, cadde a terra e sbatté il capo.
L'ultima cosa che riuscì a vedere, prima di perdere i sensi, fu il corpo di sua madre a terra, immobile.
Gli occhi erano ancora aperti, a fissarlo.
«Jeremiah!» Le urla di suo padre lo riportarono alla realtà. Anche i tonfi contro la porta di legno.
Rabbrividì, lasciandosi scappare un flebile buongiorno.
«Alza quel culo di merda e vieni a fare colazione. Non te lo ripeterò ancora.»
Atlas tirò su col naso e rabbrividì. Si asciugò una lacrima solitaria, al pensiero di sua madre, e scese velocemente dal letto, ignorando i giramenti di testa. Indossò dei vestiti puliti: un jeans e un vecchio maglioncino, regalo di sua madre, dal quale non si sarebbe mai separato, e raggiunse suo padre in cucina. Negli ultimi tempi aveva iniziato a frequentare una giovane donna. All'inizio era spensierata, poi si era lasciata trascinare a fondo da quel turbine d'odio che aleggiava attorno alla loro famiglia.
Suo padre la maltrattava, spesso aveva sentito le percosse fin nella sua stanza, nascosto in un angolino.
Non urlava mai, però, piangeva in silenzio.
Molte volte veniva punita, quando si ribellava alle sue sedute di purificazione, perché credeva che non l'avrebbero aiutato. Cercava di difenderlo, ma Atlas voleva tanto dirle che se lo meritava, sua madre era morta a causa sua e non era degno del perdono del Signore.
Iniziò a bere silenziosamente il latte, tenendo lo sguardo basso. Rabbrividì, cercando di non soffermarsi a osservare il volto tumefatto dai lividi di Livia, così si chiamava. Aveva un nome dolce, a volte Atlas provava a ripeterlo più volte, ricercando quella bontà.
Si sistemò meglio sul proprio posto e prese poi lo zaino per andare a scuola.
Anche lì era sempre un completo incubo, tutti i ragazzini lo guardavano con aria di sufficienza e lo prendevano in giro per i vestiti vecchi e i lividi sparsi.
Li odiava, li detestava tutti.
«E vedi di non portarmi note, chiaro?!» Suo padre battè la mano sul tavolo, facendolo vibrare sotto il suo tocco pesante.
Atlas socchiuse gli occhi. Annuì e Livia gli accarezzò i capelli in un piccolo gesto di dolcezza. Suo padre lo guardò male, come se potesse inquinare la ragazza a causa sua. Si sistemò lo zaino in spalla e uscì di casa. Come ogni mattina, attese il piccolo autobus scolastico e si nascose tra i sedili. Gli altri bambini lo evitavano sempre, si sedevano lontani, da altre parti, o preferendo restare in piedi, come fosse un cane pieno di zecche e pulci.
Quel giorno una ragazzina gli si accomodò affianco, gli sorrise gentile e rimase in silenzio per un po' ad osservarlo.
«Come ti chiami?»
Atlas sbatté le palpebre confuso. Si guardò attorno, come per accertarsi che si stesse rivolgendo proprio a lui. Balbettò inizialmente e poi deglutì, cercando di darsi forza per non apparire come un completo disastro. «Ehm Jeremiah, ma preferisco mi chiamino col secondo nome, Atlas.»
La bambina gli sorrise e gli strinse la mano. Quando il pullman si fermò alla fermata di scuola, scesero insieme. Era strano avere una compagnia per una volta, un'amica o qualcosa di vagamente simile, ma quel piccolo sogno si arrestò bruscamente.
«Ehi! Che diavolo fai con questo sfigato?»
Atlas riconobbe subito la voce di Joshua. Era un ragazzino dell'ultimo anno, aveva solo tredici anni, un po' più grande di lui e credeva di poter governare all'interno della scuola. Si interpose tra i due e lo squadrò da capo a piedi, soffermandosi sul suo livido nero sull'occhio. «Non dovresti stare con questo sfigato, Mel, porta sfiga, non lo sai? Dicono sia il figlio di uno stupratore e sua madre è morta a causa sua. Io starei ben lontano da questo figlio di puttana.»
Atlas non capì nulla in quell'istante. Sentì la rabbia montargli addosso, con violenza. Lasciò cadere lo zaino a terra e si alzò le maniche del maglione. In pochi istanti riuscì a spingere quel ragazzino -più alto di lui di molto- a terra, dopo averlo placcato. Si mise su di lui e iniziò a prenderlo a pugni in volto. Le mani gli si sporcarono subito del suo sangue, mentre tutti urlavano alla rissa. Pochi istanti dopo gli insegnati riuscirono a separarli.
Atlas guardò con un ghigno soddisfatto Joshua, che aveva le lacrime agli occhi. Almeno da quel momento non avrebbero mai più provato a prenderlo in giro, lo avrebbero lasciato in pace, poco gli importava se avesse dovuto trascorrere il resto della sua vita da solo, ormai ci era abituato, non temeva più nulla.
Il dolore era parte di lui, anzi, ormai non lo percepiva quasi più. Si sentiva più forte, rinvigorito. Aveva imparato che provare qualcosa non facesse altro che renderlo un debole.
Tornare a casa dopo quella giornata non fu semplice. Suo padre era livido di rabbia. Lo avevano espulso per una settimana e sapeva bene a che conseguenze sarebbe andato incontro. Si era nascosto in silenzio, mentre suo padre guidava l'auto e gli urlava addosso ogni genere di insulto, sputava quelle parole al veleno, ricordandogli quanto fosse mortificante avere un figlio degenere come lui.
Atlas guardava fuori dal finestrino, quelle accuse non lo toccavano più come prima. Sussultò a un pugno violento contro la spalla e si morse l'interno guancia provando a trattenere le lacrime.
Suo padre si fece sfuggire anche qualche bestemmia, accusandolo di portarlo a fondo, deviando dal cammino di Dio. Era sempre colpa sua, d'altronde. «Ti ho detto tantissime volte di tenere a freno quella violenza, Jeremiah. Sei una testa di cazzo. Ti ho detto che le persone innocenti non vanno uccise!»
Atlas diede un pugno sul cruscotto. «Non l'ho ucciso!» Si voltò a guardare con odio suo padre. «Ha chiamato mia madre puttana e io gli ho solo spaccato il naso e fratturato qualche costola. Nel giro di un mese starà bene e potrà tornare ad insultarmi. Adesso se non ti dispiace facciamo tutto velocemente, che ho una marea di compiti da recuperare.» Scese subito dall'auto. Camminò nel vialetto di casa. In lontananza già aveva intravisto don Fernando, che lo aspettava sull'uscio della porta, mentre Livia era nascosta alle sue spalle, con sguardo preoccupato.
Atlas si sfilò subito il maglione, non appena fu in casa. Non aveva bisogno che gli ricordassero quanto fosse cattivo, lo sapeva benissimo e la verità era che non se ne preoccupava più, né se ne vergognava.
Era la sua natura.
Era una condanna.
Come poteva qualcuno nato da tanto odio poter essere buono? Il suo destino era stato già scritto e lo aveva accettato.
Trovava inutili tutti quei tentativi di redenzione della sua anima, non c'era più un punto di ritorno, lo aveva perso da tempo.
Si diresse a passo svelto verso il bagno. Aprì l'acqua bollente e si piegò, attendendo Perez. Sentì i suoi passi alle spalle e non si voltò. Sapeva benissimo cosa sarebbe successo.
«Nel nome del padre-» Il prete iniziò a colpirlo con la cintura sulla schiena. Non reagì, chiuse solo gli occhi per un istante. «Del figlio-» un altro colpo. Atlas si soffermò a fissare la casa dei vicini di fronte, attraverso la finestra. Era inutile chiedere loro aiuto, non avrebbero mai potuto immaginare cosa si nascondesse in quella casa. «E dello Spirito Santo.» l'ultima frustata fu più violenta e inarcò appena la schiena. Trattenne le lacrime dal dolore, stringendo le mani attorno al bordo della vasca, fino a far impallidire le nocche.
«Prega per la tua anima, Jeremiah. Sei stato cattivo oggi.»
Atlas iniziò a recitare qualche preghiera, roteando gli occhi al cielo. La sua voce si incrinò appena, quando sentì il calore irradiarsi lungo tutta la schiena, come se stesse andando a fuoco.
«Non ho sentito bene, Jeremiah. Dio vuole che le tue richieste di perdono siano sincere.»
Atlas deglutì. «Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi, e molto più perché ho offeso Te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa.» Alzò così la voce. Fissò il riflesso di Fernando attraverso il vetro e non poteva far altro che desiderare, in contrasto con quelle preghiere, di portargli le mani alla gola. L'unico desiderio che lo manteneva in vita era quello. Aspettava il momento giusto per mettere fine alla sua vita e a quella di suo padre.
«Continua così, Jeremiah e forse Dio ed io ti perdoneremo.»
Ripeté ancora una volta quella preghiera come una cantilena, sotto i colpi della cintura e delle ustioni. Il suo Inferno personale era in Terra, quello che lo avrebbe aspettato dopo la Morte non lo spaventava più ormai.
Si riprese appena e sfilò il cellulare dalla tasca. Le dita erano nervose, tremavano, mentre cercava il numero del suo migliore amico.
Aveva bisogno di lui, più che mai. Cercò in rubrica Isak, doveva farsi aiutare nella ricerca di Perez, non avrebbe mai potuto farlo da solo, avrebbe rischiato di soccombere sotto la frana dei ricordi.
"Avrei bisogno di un tuo aiuto... e anche di Ida.
Vi va una piccola vacanza a Edimburgo?
Ho bisogno del tuo aiuto, Isak.
Ti aspetto."
Pochi istanti dopo, la risposta non tardò.
I: "Prenoto i biglietti"
Angolino
Aaaa Isak e Ida in arrivo, i miei cuoricini belli💕
Come state comunque? Credevate davvero di poter avere tutte queste gioie ultimamente?😂
Alla prossima
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