𝐗𝐕. 𝐑𝐢𝐜𝐡𝐢𝐞𝐬𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐢𝐮𝐭𝐨
In a dark room we fight, make up for our love.
I've been thinking, thinking 'bout you, about us.
And we're moving slow, our hearts beat so fast.
I've been dreaming, dreaming 'bout you, about us.
Hey, hey, hey, hey
My head is a jungle, jungle
My head is a jungle, jungle
My head is a jungle, jungle
My head, oh
I was speaking soft, see the pain in your eyes,
I've been feeling, feeling for you, my love.
And our bodies are tired, our shadows will dance,
I've been aching, aching for you, my love.
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«Potresti evitare di comparire sempre in momenti imbarazzanti?» Atlas teneva la nuca poggiata contro la parete del bagno.
Era seduto accanto al water e credeva davvero che avesse rigettato anche l'anima.
Non appena Hercule lo aveva accompagnato in casa, si era precipitato nel bagno e si era chiuso dentro.
Sentì Hercule ridacchiare dall'altro lato della porta e avrebbe scommesso tutto che stava anche sorridendo come suo solito. Voleva prendere a pugni quel bel faccino, anche se era convinto che se gli avesse sorriso col sangue che sgorgava dal naso, probabilmente avrebbe perso ogni senso della ragione e lo avrebbe trovato paradossalmente eccitante. «Mi spieghi perché ti sei chiuso dentro? Se dovessi svenire o sentirti male dovrei chiamare i pompieri per sfondare la porta.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. La verità era che ogni qual volta entrasse in bagno, in automatico chiudeva a chiave. Anche quando era solo. Era un meccanismo di difesa. Quando era un ragazzino, ogni volta facevano irruzione suo padre e quell'altro squilibrato di Perez, pronti per l'ennesima tortura -o cura per la sua anima, così come la volevano definire loro- .«Perché non te ne vai a casa, dottorino? Non mi sembra oggi il giorno della passeggiata.»
«Hai uno strano modo per definire la nostra futura uscita, anziché appuntamento, ma come preferisci.»
Restò in silenzio per qualche istante. Era ridicolo, ma non era un campione in quel campo, soprattutto quando voleva dire conoscere l'altra persona davvero. La maggior parte delle sue "relazioni", se avesse potuto definirle in quel modo, erano solo di senso fisico. Andava in un locale, fingeva di essere interessato a qualcuno -altrettanto più finto di lui-, trascorreva una serata e poi tornava a casa. Faceva una doccia e andava a dormire. Era tutto così meccanico e schematico, che l'idea di un'uscita seria lo stava terrorizzando. Vomitò di nuovo.
Sentì Hercule sbuffare. «Mi apri o no?!»
Quanto era insopportabile e testardo. «No.» Tirò per l'ennesima volta lo sciacquone. «E comunque, tanto per la cronaca, non sarà un appuntamento, non abbiamo sedici anni.»
«Chiamalo come vuoi.» Diede uno strattone alla porta, forse nella stupida speranza che gli aprisse. «Atlas, esci da lì dentro. Ti preparo qualcosa di caldo?»
«Ho una piantina di alloro sul davanzale. Prendi una foglia, senza strattonarla.» Ci teneva sul serio alle sue piante. Le curava ogni mattina al suo risveglio. «Poi preparo io la camomilla, ora esco.» Si tirò in piedi e vide tutto attorno a sé girare improvvisamente. Si puntellò alla parete e prese un grosso respiro.
Forse avrebbe dovuto mangiare prima qualcosa. Aprì la porta, titubante, e sull'uscio incrociò lo sguardo di Hercule, poggiato alla parete, in sua attesa.
Il dottore inclinò appena il capo. «Sei pallido.»
Atlas sorrise forzato. «Sei davvero perspicace, Sherlock.» Lo superò e sbuffò piano. Doveva ammettere di avere fame. D'altronde non aveva vomitato per mal di stomaco, ma per tutti i ricordi, che l'avevano sopraffatto come una leonessa con la preda. Sfilò il cellulare dalla tasca. «Hai fame, dottorino?»
Hercule si sgranchì la schiena e scrollò le spalle. «Non ho ancora cenato. In realtà volevo vedere come stessi per la questione di Lindsay e poi tornare a casa per cena. Se insisti resto.»
Atlas sorrise appena, alzò il mento. «Non sto insistendo.»
Hercule gli posò una mano sulla spalla. Si diresse verso la cucina, cercando tra i cassetti una tovaglia. «Per me andranno bene una pizza e una birra, grazie.»
Atlas lo osservò per qualche istante, mentre si muoveva con tranquillità nella sua casa, alla ricerca dei bicchieri per poter apparecchiare. Si fermò per qualche secondo -forse di troppo- ad osservare i suoi movimenti. Scosse poi il capo e chiamò una pizzeria poco distante, ordinando un paio di pizze e una porzione di alette di pollo, perché stava iniziando a sviluppare una strana fame chimica. Richiuse poi, lanciando il cellulare sul divano e si passò una mano in volto.
«Hai davvero solo due bicchieri?» Hercule lo guardava sconvolto.
Atlas si limitò a scrollare appena il capo. «Sono sempre solo io. L'altro l'aveva comprato Lindsay per quando si auto invitava a casa.» Sentì uno strano vuoto allo stomaco. Un fremito di nervosismo percorse il suo corpo, come una scarica elettrica, e la sua mano prese a tremare. Aveva così tanta voglia di spaccare qualsiasi oggetto, che non riusciva più a trattenersi. Non aveva idea del perché fosse così difficile cercare di fermare i suoi istinti.
Hercule abbassò lo sguardo e si passò una mano dietro la nuca. «Forse dovresti parlarne con qualcuno, sai? Potrebbe aiutarti.»
Atlas scosse il capo di rimando e accese il televisore. Cercò di non incontrare gli occhi chiari del dottore, che aveva iniziato ad avvicinarsi, a passi lenti, come se stesse cercando di calcolare la distanza migliore a cui stare, senza urtare il suo nervosismo. «Non ho bisogno di aiuto. Ho i miei metodi per stare meglio.»
«Non credo che fare risse in qualche locale ti faccia tanto bene. Anzi è controproducente.»
Atlas si voltò a guardarlo. Si era seduto sul divano, di fronte a lui. Aveva accavallato le gambe e non distoglieva lo sguardo dalla sua figura.
«E chi ti dice che io faccia solo quello?»
Hercule finse di ragionarci su, portandosi una mano al mento. «Oh, non saprei. Mh, vediamo...» Alzò appena gli occhi al cielo. «Ah giusto! Il tuo livido sull'occhio, le nocche spaccate... devo davvero continuare?»
Atlas fece un sorriso sghembo. Si sedette sul tavolino di fronte a lui, faccia a faccia, a sostenere il suo sguardo. Non aveva fatto altro che provocare sempre nella sua vita. Non poteva far a meno di fare commenti inopportuni o dire sempre cosa pensasse, ignorando cosa avrebbe potuto provare qualcuno di rimando. Ignorava i sentimenti umani, molti non li avrebbe mai potuti comprendere, poteva solo sforzarsi per le persone che amava -che fra l'altro potevano contarsi sulle dita di una sola mano-. «E io che pensavo che li trovassi eccitanti.»
Hercule si sistemò meglio, un piccolo spasmo di tensione travolse il suo corpo, cercando di non darlo a vedere. Si piegò in avanti. «E cosa te lo fa pensare?»
«Vuoi la risposta seria o quella che darei in questo momento?» Atlas doveva sempre spezzare qualsiasi momento in cui poteva crearsi una vicinanza. Non ci riusciva. L'aria iniziava a mancargli e doveva spezzare qualsiasi legame che andava a rafforzarsi. Non era pronto, non lo sarebbe mai stato.
«Quello che diresti adesso. Non mi piace parlare con qualcuno che si sforza di non essere quello che è. A me vai bene così.»
Atlas deglutì. «Suppongo che lividi e tumefazioni ti eccitino, dato il tuo lavoro, dottorino.» Lo disse in fretta, come quando strappava un cerotto velocemente per non sentire dolore.
Però la sua mente non faceva altro che ripetere sempre le stesse parole, come in un loop.
A me vai bene così.
Non ricordava che nessuno gliel'avesse mai detto. Scavava nella sua memoria alla ricerca di un ricordo abbastanza felice da sopraffare quella frase. Non poteva sentirsi così debole.
Alzò lo sguardo su Hercule, che ridacchiò scuotendo il capo. Alzò un dito e lo indicò. «Dovevo aspettarmelo, effettivamente. Dici che ho qualche problema?»
Atlas scrollò le spalle. «Chi non ne ha, dottore. Io sono sociopatico.»
«Non ti sembra che tu ti nasconda dietro questo problema per non ammettere che invece qualcosa lo puoi provare ma ne sei troppo spaventato?»
Atlas si tirò in piedi. «Non ci provare a entrare nella mia testa, dottore. Se possedessi dello spirito di conservazione, non saresti ancora qui.»
Hercule annuì e sospirò piano. «Hai troppa paura di esporti, siamo solo chiacchierando.» Scrollò le spalle. «E comunque, a proposito di spirito di conservazione, credo di non possederne. Mia figlia mi ha fatto fare quel test di smistamento e a quanto pare sono Tassorosso, evidentemente non ne ho.» Scrollò semplicemente le spalle.
«Ci avrei tranquillamente scommesso.» Atlas spostò il suo sguardo sul televisore, evitando di sostenere quello di Hercule.
«Perché hai così tanta paura che ti voglia psicanalizzare? Non è il mio mestiere e non lo farei. Credo solo che tu abbia tanto dentro, ma non lo vuoi mostrare.»
«Perché se volessero analizzarmi, mi metterebbero una camicia di forza. Credimi, lo so benissimo.» Atlas prese un pacchetto di sigarette e ne sfilò una, porgendone un'altra al dottore, che scosse il capo.
«No grazie, sai non so fumare. Inizio a tossire come un ossesso.»
«Sarebbe divertente vederti soffocare anziché sorridere come sempre a tutti, come se vivessi in un magico mondo fatato.» Atlas accese la sigaretta e inspirò il fumo.
Hercule inclinò il capo. «Sei geloso che non sorrido solo a te?» Adesso gli avrebbe mollato con piacere un pugno.
«Te la spengo in fronte se non la finisci.»
Hercule rise e si tirò in piedi e gli si avvicinò appena. Atlas individuò il suo profumo alla vaniglia e all'acqua di colonia. Era troppo vicino per i suoi gusti e voleva fuggire via, come gli era sempre stato più semplice. Deglutì. Hercule, invece, una volta abbastanza vicino, gli sfilò la sigaretta e la spense. Atlas aggrottò la fronte, imbronciandosi. Probabilmente il dottore aveva voglia di essere pestato a sangue. Non l'avrebbe fatto non perché voleva preservare quel bel faccino, ma semplicemente perché vedendolo sporco di sangue probabilmente non avrebbe saputo contenersi in maniera appropriata.
Era la seconda volta che l'immagine di Hercule, col sangue che colava dal naso, attraversava la sua mente. E doveva assolutamente cancellarla, per evitare reazioni indesiderate. Iniziò a pensare al suo vecchio e bavoso professore di matematica, del liceo, in costume.
Gli effetti erano spettacolari e funzionanti fin da subito.
«Essendomi auto eletto tuo medico di fiducia, ti vieto di fumare.»
Atlas storse il naso. «Mi stai scocciando abbastanza oggi, sappilo.»
Hercule scrollò le spalle. «Devi pur farti perdonare per aver vomitato sulle mie scarpe, no?»
«Cosa?!» Atlas sgranò gli occhi, inorridito. «Davvero? Cristo, che schifo, dalle a me e le pulisco-» Non sapeva ben dire perché stesse per farsi assalire dal panico. Forse perché l'ultima volta che da bambino vomitò sulle scarpe di Perez, subì una delle torture peggiori. A detta sua era il demone che si ribellava di uscire dal suo corpo.
Hercule forse lo vide sbiancare e tremare, ma non diede troppo a vedere di essere preoccupato. Gli posò le mani sulle spalle. Rabbrividì. Doveva cercare un modo per cacciarlo da lì. «Atlas, sto scherzando. Mi hai spinto di lato per non sporcarmi e nel caso non sarebbe stata una gran tragedia.»
Atlas si allontanò e prese il telefono, come a volersi distrarre. In televisione, in qualsiasi canale, ormai non si faceva altro che parlare della notizia della morte del giovane Paul Keyles. Storse appena il naso. Hercule si sistemò meglio sul divano. «So che oggi Martin e Tanya avrebbero dovuto parlare con il vigilante, chissà com'è andata.»
Atlas scrollò le spalle, come se la questione non gli interessasse affatto. «Speriamo prendano il bastardo che sta torturando i ragazzini.»
Hercule si rabbuiò appena. Abbassò lo sguardo sulla punta delle proprie scarpe. «Non oso immaginare se facessero lo stesso a mia figlia...»
A volte dimenticava che il medico avesse una bambina, sarebbe stato gentile e da persona normale chiedergli qualcosa, probabilmente. Forse avrebbe dovuto usare un poco più di tatto. «Come mai non ce l'hai ancora fatta conoscere? Esiste davvero?»
Hercule aggrottò la fronte. «Certo che sì. Perché sei così cinico?» Inclinò appena il capo. «Quando vorrai mi farebbe piacere se la conoscessi, è una bambina adorabile.»
Atlas roteò gli occhi al cielo. «Non mi piacciono i bambini. Non so comportarmi con le persone normali, figurarsi con dei nanerottoli.» Sentì il citofono suonare e uscì, per ritirare le pizze. Poteva sentire ancora lo sguardo di Hercule bruciargli addosso.
Pagò il fattorino, osservandolo con attenzione. Negli ultimi tempi non si fidava quasi di nessuno, se non solo di se stesso, eppure anche la sua mente gli giocava brutti scherzi, spesso e volentieri. Il ragazzino si sistemò meglio il berretto sul capo e si allontanò, dopo aver preso la mancia.
Atlas ritornò nell'appartamento e sistemò i cartoni di pizza in tavola.
Aprì il frigo e afferrò un paio di birre.
Si sedette di fronte ad Hercule e iniziarono a mangiare in silenzio.
Era strano trascorrere una serata in compagnia, non era più abituato e forse non era nemmeno a proprio agio. Le ultime volte in cui era stato in compagnia, risalivano a qualche anno prima, quando lavorava insieme ai suoi amici Isak, Bendik e quella vipera di Ida. Erano forse la cosa più vicina al concetto di famiglia che avesse mai avuto. Ognuno aveva preso la propria strada, poi, restando comunque in contatto e aiutandosi l'uno con l'altro nel momento del bisogno.
«Come mai così silenzioso? Di solito non fai altro che dire qualcosa, anche se non moralmente corretta, pur di non startene zitto.» Hercule gli sorrideva, con la bottiglia di birra tra le mani, quasi pendente dalle sue labbra.
Atlas si pulì gli angoli della bocca. «Quando si mangia si combatte contro la morte, te l'hanno mai detto?»
Il medico rise e scosse il capo. «Avrei dovuto aspettarmelo, giusto.» Guardò fuori alla finestra. Edimburgo era quasi magica la sera, Atlas la trovava più affascinante, nelle sue atmosfere gotiche. Si rivelava il momento migliore in cui agire, avvolto tra le tenebre e le guglie delle chiese, protetto quasi dalle torri del castello. «Immagino non sia la tua serata ideale questa...»
Atlas inclinò il capo. In realtà non credeva fosse così male trascorrere una serata in compagnia; anche se in quella del dottore, sempre così felice e tranquillo. Forse lo invidiava un po', avrebbe voluto poter essere spensierato o fingere di esserlo. A volte i suoi pensieri viaggiavano così veloci da togliergli l'aria, non gli davano possibilità di fermarsi: lo soffocavano. Non erano mai d'aiuto, tra l'altro. Tutti gli proponevano i peggiori scenari possibili, gli ricordavano che non avrebbe mai potuto comprendere appieno qualcuno e che nessuno avrebbe potuto farlo con lui. Si era rassegnato da anni alla possibilità di avvicinarsi davvero a qualcuno. E forse andava bene così, nessuno avrebbe dovuto amare il male, nessuno poteva avvicinarsi al suo animo, perché l'avrebbe contaminato, l'avrebbe trascinato a fondo con lui.
E ancora una volta si era perso in quei pensieri, che lo affollavano con violenza. «Atlas? Dove ti sei perso?» Hercule gli schioccò le dita davanti al volto.
Scosse il capo e si portò una mano in volto. «Ero altrove... comunque-» tossicchiò appena, sedendosi meglio e ricomponendosi. «- Perché credi non lo sia? Cosa credi che faccia quando sono solo a casa?»
Hercule scrollò le spalle. «Martin crede che tu beva o da qualche parte da solo o che guardi qualche film horror. Io penso che semplicemente ti piace stare da solo, forse perché ci sei abituato. E a giudicare dai lividi che hai quasi sempre in volto, penso che fai o spesso risse, come al tuo compleanno, o che vai da qualche parte per fare incontri appositi.» Gli sorrise tranquillo.
Atlas annuì. «Molte volte vado anche in qualche locale per sfogarmi in altri sensi, dottorino.» Bevve un altro sorso di birra e si tirò in piedi. Lo squadrò dalla testa ai piedi, con quel solito sguardo provocatorio. «Tu invece o trascorri serate in compagnia, sorridendo a tutti e regalando loro giornate meravigliose o ti ecciti sui cadaveri la notte?»
Hercule sorrise e scosse il capo. «Che problemi hai col mio lavoro, esattamente?» Sarebbe stato molto più divertente se si fosse innervosito o avesse reagito, così gli toglieva qualsiasi sfizio. Sembrava lo facesse di proposito, come quando si toglie a un bambino il proprio giocattolo preferito. Tutto diventava noioso.
«Se sei un medico, perché voler occuparsi dei morti?»
«Mi piacciono le indagini e il corpo umano, la medicina. Ho unito solo due passioni, Atlas. Tu perché ti sei fatto cacciare dall'esercito, davvero era stress post traumatico? O hanno scoperto della tua malattia?» Non si aspettava una reazione, non così pungente almeno.
Atlas strinse i pugni. Hercule si alzò, avvicinandosi. Avevano la stessa altezza, all'incirca. Lo fissò negli occhi e probabilmente era uno dei pochi ad avere il coraggio di voler leggere davvero il suo sguardo. Inclinò il capo, indossando un sorrisetto soddisfatto. «Affondato, eh?» Gli assestò qualche schiaffetto sulla guancia, come a prenderlo in giro.
Atlas arretrò. Poi ghignò appena e afferrò le sigarette, ne accese una e scrollò le spalle. «Resta col dubbio.» Si allontanò poi e si avvicinò al frigorifero, prese una bottiglia di birra e l'aprì. La passò ad Hercule, che la accettò di buon grado e ne prese un'altra per sé. «Quanto reggi l'alcol?»
«Abbastanza bene da non vomitare. Il tuo stomaco debole può dire lo stesso?»
«Touché, te lo concedo.» Atlas si sedette sul divano e socchiuse appena gli occhi. Hercule si accomodò al suo fianco e iniziò a sfogliare i canali, soffermandosi poi su un film, di cui gli interessava ben poco.
Atlas sospirò piano. Non capiva perché fosse ancora lì, a cena conclusa, nonostante avesse provato in ogni modo a farlo innervosire, senza nemmeno volerlo fare di proposito, semplicemente gli veniva naturale. «Mi dici perché sei ancora qui?»
Hercule lo osservò di sbieco, distogliendo la sua attenzione da quello stupido film schifosamente romantico, ma in alcuni tratti divertente. «Perché non oso immaginare come tu stia vivendo la morte di Lindsay e non voglio che resti solo, andando a farti pestare da qualche parte. Preferisco curare ferite invisibili piuttosto che disinfettare quelle reali.»
Atlas storse il naso. Nessuno era così volontariamente buono. Sapeva che non tutti ragionassero, come lui, alla ricerca di un secondo fine. Semplicemente non era abituato a gesti che non richiedevano nulla in cambio. Anche quando Bendik e gli altri erano rimasti suoi amici, nonostante il suo caratteraccio, li aveva definiti degli idioti.
E forse Hercule era ancora più idiota di tutti loro. Bevve un altro sorso di birra. «Sto bene. E sei abbastanza idiota per non andartene ancora.»
Hercule lo fissò ancora. «Se ti do fastidio, allora levo il disturbo. Vuoi che me ne vada? Basta dirmelo, non cambierebbe nulla, davvero.»
Atlas sospirò piano «J'ai une maison grande et vide, tu peux rester aussi longtemps que tu le souhaites» (ho una casa enorme e vuota, ci puoi rimanere quanto vuoi.)
Hercule sorrise, forse diversamente dal solito, come se fosse davvero felice di sentire quelle parole e non fosse il tipico sorriso di circostanza, che elargiva a tutti. Forse quel sorriso era un po' suo. Tornò poi a guardare il film, restandosene tranquillo al suo fianco. Atlas osservò i suoi lineamenti, anche la gobbetta sul naso leggermente storto e prese un forte respiro.
Forse iniziava a comprendere cosa volesse dire "Fernweh" in tedesco. Forse iniziava a sentire davvero quella nostalgia di essere altrove.
Gli sarebbe piaciuto che fossero così lontani entrambi da dov'erano, senza nessun problema alle spalle.
Ma sarebbe rimasto per sempre un pensiero che avrebbe tenuto nascosto nei meandri più profondi della propria mente.
Andava tutto bene.
Angolino
Quando parlavo di capitoli preferiti, senza dubbio questo è tra quelli.
Spero vi sia piaciuto e alla prossima 💕
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