𝐕𝐈𝐈. 𝐂𝐞𝐧𝐚
Forse era da vigliacchi non voler andare a quella cena, lo sapeva bene, eppure aveva paura che certi incubi tornassero a dargli il tormento.
Aveva cercato in ogni modo di abbandonare quei ricordi spiacevoli, ma a volte il passato non era poi così lontano come aveva sempre sperato. Stava tornando per la resa dei conti.
Alla fine, probabilmente, avrebbe ceduto.
Nel frattempo, stava trascorrendo la maggior parte del suo tempo in biblioteca, cercando di non uccidere qualsiasi cliente gli facesse domande banali.
Roteò l'ennesima volta gli occhi al cielo, mentre un signore credeva fosse interessante raccontargli del suo viaggio in Thailandia con l'ormai ex moglie. Probabilmente quella povera donna l'aveva lasciato perché troppo logorroico.
«Bene, arrivederci e grazie.» Atlas gli passò il pacchetto contenente i libri, che aveva acquistato, e lo guardò abbandonare la libreria. Si lasciò cadere sulla sedia dietro alla cassa e portò le mani nelle tasche dei pantaloni, alla ricerca del tanto agognato pacchetto di sigarette. Se ne accese una e sospirò piano. «Cristo, che palla al piede certe persone.»
Lindsay, che aveva ridacchiato sotto i baffi tutto il tempo, trascinò una sedia di fronte a lui e sorrise tranquilla. «Ora che siamo soli, posso raccontarti di com'è andato il mio appuntamento.» Trillò felice. Si sistemò i capelli biondi in una coda alta e rubò una sigaretta dal suo pacchetto.
Atlas inarcò un sopracciglio. «Non credo di avertelo chiesto...»
Lindsay scacciò via quelle parole come fossero insetti fastidiosi con un gesto della mano e aspirò il fumo. «Mi ha portata in un bellissimo ristorante qui in città. Studia lettere classiche all'università e mi ha offerto la cena! Poi abbiamo passeggiato tutto il tempo e mi ha comprato un peluche dolcissimo-»
«Ma che carino.» Atlas aveva voglia di vomitare.
Lindsay si corrucciò. «La smetti? Mio Dio, Atlas avresti bisogno di uscire là fuori e innamorarti! L'oceano è così pieno di pesci!» Saltellò in piedi allegra. Si voltò a guardarlo e inclinò appena il capo. «Hai programmi per questa sera?»
Atlas storse il naso. «Non lo so, potrei guardare un film, qualche documentario o masturbarmi, vuoi aggiornamenti per caso?»
«Fai schifo.»
«E tu fai domande troppo personali. Cosa ne so cosa può succedere nel mio futuro? Magari esco da qui e un camion mi investe.»
«Atlas, letteralmente sto parlando di cosa farai tra un paio d'ore.» Lindsay posò le mani sui fianchi. «Non credo valga come futuro.»
«Tecnicamente sì, non sono ancora accadute, ergo è il futuro.»
«Non so cosa significhi ergo. Comunque sia, perché non esci con Martin? Almeno prendi aria, conosci persone.»
Atlas si portò una mano alle tempie. «Per l'amor del cazzo, Lindsay, lavori in una biblioteca e non conosci la parola "ergo"?»
«Oh perdonami, la prossima volta lo metterò sul curriculum. Immagino tu chieda a tutti cosa significhi.» Sbuffò scocciata, liberando i capelli da quella coda asfissiante. Le ciocche bionde ricaddero sulle sue spalle. «E comunque non hai risposto alla mia domanda.»
«Va a cena da un amico con Tanya e qualche altro collega per inaugurare l'appartamento del nuovo arrivato e dargli il benvenuto.» Atlas si tirò in piedi, iniziando a disperdersi per i corridoi, pieni zeppi di tomi e antichi romanzi, della biblioteca, forse per evitare che Lindsay volesse indagare ulteriormente. Eppure, quella ragazza lo seguì. Atlas credeva fosse tanto stupida quanto coraggiosa e che la linea che separasse le due caratteristiche fosse davvero tanto sottile.
«Non dirmi che è a casa di quell'uomo bellissimo che è venuto fin qui a restituirti quella fiaschetta di whisky!» Lindsay aveva una vocina stridula, nemmeno avesse vinto un terno al lotto.
«Mi dici perché ti sovra ecciti così?» Sistemò i libri sullo scaffale, contando mentalmente almeno fino a cento. Uno dei suoi migliori amici, Bendik gli aveva consigliato di fare così quando sentiva l'impulso di uccidere qualcuno. Peccato che spesso, anche quando lavorava, non riusciva nemmeno a contare fino a cinque.
«Ma come perché?» Lindsay gli posò le mani sulle spalle e Atlas sentì il proprio corpo rabbrividire, come spaventato. Da quando Perez era tornato in circolazione, non riusciva più a gestire bene il contatto fisico. Si allontanò appena, ma la ragazza era troppo su di giri per far caso a quella reazione. «È l'occasione perfetta! È l'uomo giusto per te, ne sono sicura. Dovrei dire a Martin di organizzarvi un incontro-»
Atlas storse il naso. «Sai che non c'è bisogno che gli amici organizzino appuntamenti per gli omosessuali come fossimo cani da monta, vero?»
Lindsay prese un giornale e glielo suonò sulla spalla. Atlas socchiuse gli occhi. Cento uno, centodue, cento tre, cento quattro, cento cinque.
Quella ragazzina stava solo alimentando la sua voglia di strangolarla. «Certo che lo so! Ma con te bisogna fare in questo modo o invecchierai senza darmi nipotini.»
«Non so se a scuola te l'hanno insegnato, ma due uomini non possono generare un sacco di merda e vomito, lo sai?»
«Hai appena definito i bambini sacchi di merda e vomito?»
Atlas scrollò le spalle. «Troppo accurato, forse?»
«Dio mio, ma quanto sei psicopatico?» Lindsay si portò le mani alla bocca, mentre Atlas cercava tutte le forze dentro di sé per non seppellirla viva. «Scusa, mi hai ripetuto tante volte che sei sociopatico, perdonami.»
Atlas finse un sorriso e le diede le spalle, cercando di ignorarla come fosse una zanzara fastidiosa e riprendendo a impilare i libri sugli scaffali. «Dai, dimmi che ci andrai.»
«Perché dovrei?»
«Perché passerai l'ennesima notte da solo e sono preoccupata per te! Non voglio essere la tua unica erede.»
Atlas si chiedeva ancora come avesse fatto Lindsay a diventargli simpatica. Forse era il suo scarso quoziente intellettivo ad intenerirlo o forse perché era una brava assistente, dopotutto metteva sempre in ordine e ricordava che amava bere il cappuccino anziché il caffè. Era orfana, forse anche quello aveva smosso qualcosa in lui, anche se si ostinava a far finta di non essere legato a lei.
Inoltre, quella serata avrebbe rappresentato un'occasione per capire meglio quali fossero i casi, approfittando di un Martin completamente soggiogato dall'odio di dover condividere il proprio ossigeno con l'ex moglie. Avrebbe cantato come una gallinella. Alzò le mani in segno di resa. «Va bene.»
Lindsay sorrise soddisfatta. «Allora va' a casa, indossa una camicia, il bianco risalta i tuoi occhi scuri. Poi sistemati con una bella giacca e dei jeans e mandami una foto quando sei pronto!»
«Scordatelo.»
Lindsay scrollò le spalle, per nulla sconfitta. «Va beh, dai. Ci ho provato. Ora vai, qui ci penso io!»
Atlas sbuffò scocciato e decise -stranamente- di darle ascolto. Prese le chiavi di casa e uscì dalla propria biblioteca. D'altronde abitava a pochi passi di distanza e in pochi minuti fu a casa.
Sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e compose il numero di Hercule. La sua memoria gli impediva di eliminare alcune immagini, compreso il codice numerico del cellulare dell'uomo.
A: "Sarò dei vostri questa sera."
H: "Cosa ti ha fatto cambiare idea?"
Atlas roteò gli occhi al cielo, guardando lo schermo del telefono. Quell'idiota non aveva nient'altro da fare che rispondergli con un'altra domanda?
A: "Mi scoccio di cucinare al momento e Martin mi odierà se non sarò lì."
H: "Forse ci credo. Pensavo avessi buttato il mio numero. Forse la compagnia di Nemo adesso è noiosa?"
A: "Non si chiama Nemo."
Ora si sentiva davvero un idiota a difendere il nome del proprio pesce rosso.
H: "e come allora?"
A: "Gaston."
H: "È un nome francese, mi piace."
A: "a che ora?"
H: "Alle 20.30. A più tardi."
Atlas posò il telefono sul tavolo e iniziò a prepararsi. Si chiese perché stesse davvero indossando una camicia, ascoltando i consigli di quella stupida pazza assatanata di Lindsay. Sbuffò scocciato e prese la propria giacca prima di uscire da casa. Si guardò attorno e fece schioccare il collo. La ferita al fianco gli doleva ancora, ma aveva preso un antidolorifico per non sentire fastidi durante la serata.
Chiamò un taxi, dirigendosi all'appartamento del dottore. Avrebbe dovuto fingere di non conoscere assolutamente nulla del posto.
Una volta davanti all'appartamento bussò, attendendo che gli aprissero la porta. Pochi istanti dopo, Hercule lo accontentò, sorridendo come suo solito. Non capiva perché avesse sempre quell'espressione raggiante in volto, di chi guardava alla vita come fosse una perenne giornata soleggiata. «Vieni, Martin è qui e mi sembra già abbastanza su di giri.»
«Aaatlaaas! Sei venuto!» Martin teneva in mano un bicchiere di vino e gli sorrise, tirandolo all'interno dell'appartamento, mentre Hercule richiudeva la porta.
«Mio dio, hai intenzione di vomitare già? Perché ho le scarpe nuove e non vorrei macchiarle col tuo vomito.»
Hercule sorrise e intrecciò le braccia al petto. «Sei davvero empatico.»
Atlas gli rivolse uno sguardo glaciale. «Tu devi essere un esperto di empatia, i morti devono essere davvero comprensivi.»
Hercule aprì appena la bocca, confuso sulla risposta da dare. Atlas sorrise abbastanza soddisfatto, riportando la sua attenzione su Martin. «Sto cercando di bere per dimenticare che questa sera Tanya sarà qui.» Chiarì, come se fosse ovvio.
«Dubito che mostrarti semi brillo ti aiuterà a metterti in mostra coi colleghi.»
Martin si sistemò meglio i capelli, tirandoli all'indietro e tornando un po' in sé. Ben presto l'appartamento si riempì di persone. Non gli era mai successo di essere circondato da così tanti sbirri, se non in qualche assurdo inseguimento. Si accomodò su un divano, guardandosi intorno. Sbuffò piano, passandosi una mano in volto. Odiava stare in mezzo a così tanta gente e l'aria sembrava un po' mancargli.
Tanya, l'ex moglie di Martin, parlava con Hercule, sorridendo di tanto in tanto. L'aveva conosciuta tempo fa, ma non credeva fosse poi così antipatica, in realtà. Era una donna ambiziosa, che aveva posto la sua stessa carriera prima di ogni altra cosa, anche prima di suo marito. Non avevano gestito la concorrenza e alla fine si erano lasciati, quando Tanya era riuscita ad ottenere la promozione al posto di Martin, mettendolo anche in cattiva luce, senza giocare poi così pulito.
La donna prese due bicchieri di vino e gli si avvicinò, sedendosi al suo fianco. Gli porse il calice. «Sei silenzioso questa sera.»
Atlas sorrise e avvicinò il bicchiere alle labbra. «Preferisco ascoltarvi oggi.» Sorrise appena.
«Questo caso mi sta stressando, Atlas.» Si portò una mano alla tempia, buttò giù il vino come fosse acqua. «Troppi bambini disperati, famiglie devastate. Non voglio che la Stampa ci metta i suoi artigli sopra, ma è difficile. E dovrò rivolgermi anche a un figlio di puttana a cui do la caccia.»
«Alcune scelte, anche se poco etiche, magari si rivelano essere sagge...» Atlas osservò Martin, che li teneva sottocchio, fingendo -molto male- indifferenza.
«So che tu sei uno dei tanti fan del flagello notturno.» Tanya sorrise di sbieco.
Atlas scrollò semplicemente le spalle e si tirò in piedi, avvicinandosi a Martin e allontanandogli l'ennesimo bicchiere. «Adesso mangiamo, mh?»
«Ti ha parlato di me?»
Atlas storse il naso e scosse il capo. «No. Avresti bisogno di guardarti un po' intorno, amico. Sai quante donne aspettano per te?»
Martin si lasciò sfuggire una risatina. «Oh senti un po' da chi vien la predica.»
Si accomodarono tutti a tavola, Hercule si accomodò al suo fianco e gli sorrise gentile, Cristo quanto detestava tutta quell'allegria. Iniziò a mangiare silenziosamente, mentre i diversi colleghi scherzavano tra loro, prendendosi in giro. Tendevano a raccontare di quanto Martin si facesse in quattro per risolvere ogni caso e di come annuisse sempre in preda ad attacchi isterici.
Atlas sorrise, bevendo un po', e si guardò attorno nel salotto.
Intravide un pianoforte all'angolo e inclinò appena il capo.
Sussultò, quando sentì il braccio di Hercule sfiorare il suo, attirando l'attenzione. Si voltò a guardarlo e inarcò un sopracciglio. «Che vuoi?»
«Sai suonare?»
«Cosa?»
«Guardavi il pianoforte, sai suonare?»
Atlas annuì, scansandosi da quel contatto. Hercule si bagnò appena le labbra. Continuava a tenere lo sguardo fisso su di lui. Sorrise poi, fingendo di non aver notato quell'improvviso bisogno di lontananza. «Sarei curioso di vedere se sei migliore di me.»
Atlas sorrise beffardo. «Non credo ci vorrà molto, dottorino. D'altronde posso immaginare come il tuo unico sfogo possa essere suonare il pianoforte. Dev'essere stancante giocare all'allegro chirurgo coi cadaveri.»
Hercule inclinò il capo. In sottofondo c'erano le risate dei colleghi, accompagnate da una luce giallognola e soffusa. Posò il gomito sul tavolo e si appoggiò col volto contro il palmo della mano chiuso a pugno. «Perché sei sempre così spigoloso?»
«Tu ne connais pas la moitié de ça.» (E non hai visto ancora niente.)
Hercule sorrise. Osservò le fossette agli angoli della bocca. Aveva tutta il suo interesse per sé ed era strano. Odiava essere al centro dell'attenzione, eppure non si sentiva a disagio. Si mosse nervosamente sulla sedia.
«Hercule! Suonaci qualcosa, dai.» Tanya li riportò entrambi alla realtà. Si voltarono a guardare i colleghi, tutti pronti ad ascoltare il grande talento del medico legale. L'uomo annuì e si tirò in piedi, dopo avergli lanciato un'occhiata provocatoria.
Gli posò appena una mano sulla spalla, avvicinandosi al suo orecchio, fingendo di prendere il pacchetto di sigarette posato sul tavolo. «Adesso ti mostro come si suona, davvero.»
Atlas seguì i suoi movimenti, fino ad arrivare al pianoforte. In pochi istanti la stanza si riempì della melodia triste e malinconica di Mad World. Atlas si poggiò meglio contro lo schienale della sedia, osservando come le dita del medico, agili, si muovevano sui tasti del pianoforte, quasi accarezzandolo. Danzavano esperte, sicure. Ebbe quasi la sensazione che, assieme alle sue mani, anche le note ballassero quasi eteree attorno a loro, nell'aria, ripetendo quel ritornello triste, che rimbombava nella sua mente.
Socchiuse appena gli occhi. La musica aveva uno strano effetto terapeutico, forse perché fin da bambino lo aiutava a stare lontano dal dolore e dalle violenze di casa. Gli permetteva di estraniarsi da un mondo che lo soffocava ogni giorno, sempre più di prima. Forse era stata la cura per la sua anima diabolica, un modo per spegnere i sentimenti e fingere che i problemi non esistessero.
Mentalmente ripeteva il testo della canzone, a tempo con quella musica.
All around me are familiar faces
Worn out places, worn out faces
Bright and early for the daily races
Going nowhere, going nowhere
Their tears are filling up their glasses
No expression, no expression
Hide my head, I wanna drown my sorrow
No tomorrow, no tomorrow
And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I'm dying
Are the best I've ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles it's a very, very
Mad world, mad world
Quando aprì gli occhi, incontrò gli occhi chiari di Hercule, che lo stavano scrutando di sottecchi e inarcò un sopracciglio. Si versò altro vino nel calice e mandò giù. Ebbe la sensazione di aver scorto nel suo sguardo qualcosa di celato, non detto e sentì il petto incrinarsi appena. Si passò nervosamente le mani in volto, poggiandosi meglio contro lo schienale della sedia, ascoltandolo e fissandolo, forte per la prima volta, rapito.
Era un mondo davvero folle.
Quando finì di suonare partirono alcuni applausi sommessi. Un collega gli diede una leggere gomitata scherzosa. «È così che le conquisti tutte, eh? Come hai fatto anche con tua moglie.»
Tanya, una delle poche donne presenti a quella cena, tossicchiò leggermente infastidita, mentre Hercule si limitò a scrollare le spalle, sorridendo a tutti. «Se fosse bastato il pianoforte non sarei un uomo divorziato.» Allentò quella breve tensione, invitando tutti a tornare al tavolo per il dolce.
Atlas si tirò in piedi e uscì fuori al balcone a fumare. Fissò un po' il cielo stellato e nascose le mani nelle tasche dei pantaloni, quando sentì vibrare il telefono.
Lo sfilò e osservò la foto che Lindsay gli aveva inviato.
Sgranò appena gli occhi.
L: "Io e Paul ti mandiamo un bacio.
Ps. Come prosegue la serata?"
Atlas sentì le sue mani tremare mentre fissava la foto. Riconobbe subito il volto del ragazzo, lo ricordava benissimo. Era quel povero che gli aveva chiesto di eliminare quelle due gemelle pazze, che avevano provato ad ucciderlo. Allora, un dubbio si insinuò nella sua mente, con la stessa sinuosità e pericolosità di un serpente a sonagli.
E se fosse stato tutto programmato come una trappola?
Probabilmente adesso quel ragazzo teneva sotto controllo Lindsay. Così avrebbero potuto minacciarlo con qualcuno a lui vicino.
Poteva essere stato tutto un piano altrettanto folle di Perez, iniziava ad esserne quasi certo.
«Ti va una fetta di cheesecake?» Hercule richiamò improvvisamente la sua attenzione. Gli sorrise, con due piatti ancora pieni di dolce e gli si avvicinò, poggiandosi alla ringhiera del balcone, al suo fianco.
Atlas annuì, lasciando sfilare il cellulare nella tasca dei pantaloni e accettò di buon grado il dolce. Iniziò a mangiare, restandosene in silenzio, perso tra i propri pensieri e preoccupazioni, quasi dimenticando che Hercule era al suo fianco, osservando ogni movimento particolare delle sue labbra, ogni ruga d'espressione. «Qualcosa ti turba? Ti sei effettivamente reso conto di non poter competere con il mio talento al pianoforte, eh?»
Atlas sorrise sarcastico e scosse il capo. Mangiò un'altra fetta di dolce. «Certo, come no, dottorino. Se ti piace crederlo, chi sono io per infrangere i tuoi sogni di gloria.»
Hercule sorrise pulendosi l'angolo della bocca dalla panna. «Allora una di queste sere potresti dimostrarmi di essere migliore.»
«Stai cercando di invitarmi a cena, forse? Ti facevo più bravo di così.»
«Non sei esattamente semplice da convincere.» Hercule sorrise tranquillo. Inclinò appena il capo. «Però ti è piaciuta la performance di prima. Eri letteralmente rapito.»
Atlas non si scomodò. «Credo tu ti stia sopravvalutando.»
Hercule scosse il capo. «Okay, très bien. Montrez-moi que vous êtes en charge alors. Prove moi que tu es meilleur.» (Okay, molto bene. Dimostrami di essere tu al comando. Dimostrami che sei migliore.)
«Avremo modo di confrontarci, dottorino.» Atlas gli posò il piatto vuoto tra le mani e inclinò appena il capo. Gli si piazzò davanti. «Ora vado a casa, sono abbastanza stanco. Però promettimi una cosa.»
Hercule sorrise curioso. «Cioè?»
«Prendi delle lezioni di pianoforte, sei davvero negato.»
Angolino
Come al solito vi ringrazio per il sostegno a questa storia, anche perché quando ho avuto l'idea e ho iniziato a pubblicare, mai mi sarei immaginata tanto affetto per me e Atlas, né il seguito, in tutta onestà.
Grazie mille ancora. Davvero❤️
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