𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝐁𝐨𝐧𝐮𝐬

𝐂𝐢𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐚𝐧𝐧𝐢 𝐝𝐨𝐩𝐨

Oslo.

Era sempre stato un amante del freddo. Lo preferiva di gran lunga al calore estivo capace di togliergli qualsiasi energia. Eppure, quello di Oslo, adesso, gli era sofferente. Dopo tutto ciò che era successo, si era ritrovato a fare i conti coi propri sentimenti, che aveva affogato per anni.
Forse doveva tornare a vivere. O forse non lo meritava, dopotutto. Si portò istericamente le mani al volto, se avesse potuto avrebbe iniziato a tirarsi i capelli.
Era seduto sul bordo del letto della camera d'albergo che
avevano affittato per qualche notte. Condivideva la propria con Bendik, in quella attigua c'era Ida, anche se spesso il suo migliore amico era anche da lei.
Era teso. Non sapeva cosa fare: partire per New York insieme ai suoi amici, a casa dove Eyre, la moglie di Isak, e la piccola Leyla lo aspettavano, o restare ancora un po' lì, ad Oslo, dove Hercule stava lavorando.
Rivederlo in ospedale era stato strano, simile a una boccata d'aria fresca. Aveva risvegliato quelle sensazioni in lui, che aveva ben pensato di aver seppellito così bene, da non poter tornare a galla.
Poi gli aveva rivolto quel solito sorriso idiota e le gambe avevano sembrato cedergli.
E, infine, il colpo di grazia: "Forse mi sei mancato un po'".
Continuava a ripetersi quelle parole, come a cercare un significato nuovo, nella speranza che avessero cambiato la lingua. Avrebbe tanto voluto che fossero state parole al veleno, almeno sarebbe stato più semplice.

Erano passati cinque anni. Possibile che neanche lui fosse andato così tanto avanti?
I suoi pensieri avevano iniziato ad affogarlo di nuovo. Muoveva la gamba nervosamente su e giù. Guardò la propria valigia già pronta nell'angolo della stanza e sospirò piano. Non sapeva cosa fare. Era stato lui stesso, cinque anni prima, ad allontanare il medico, ad interrompere la loro relazione perché non lo meritava. E non credeva che le cose fossero cambiate, ma, facendo una breve analisi, da allora la sua vita gli era sembrata abbastanza vuota. Si era tuffato nel lavoro, accettando così tanti casi sparsi per il mondo pur di smettere di pensarci. Però, poi, ogni sera, quando tornava a casa e si stendeva sul letto, quegli stessi pensieri tornavano, suggerendogli che fosse un idiota.
E forse doveva essere un po' egoista per una volta nella vita. Non che di solito non lo fosse, ma sentimentalmente parlando era stato davvero molto caritatevole, risparmiando Hercule da una vita completamente senza un filo logico.
Tamburellò con le dita sul letto. Poteva sentire ancora lo scroscio dell'acqua della doccia: Bendik a volte sembrava metterci le ore.

«Guarda che se non ti muovi perderete il volo.» Gli urlò dietro. La sua mente aveva parlato e aveva deciso. Stava dando per scontato che non sarebbe partito. Sbuffò frustrato e sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Digitò il numero di Heaven e osservò la loro chat. Era da un anno che avevano iniziato a parlare. Quando le era stato dato il suo primo cellulare, -così gli aveva raccontato-, aveva rubato il suo numero dalla rubrica del padre e aveva iniziato a contattarlo.
Le aveva sempre risposto, per educazione, non perché la trovasse simpatica. Se lo ripeteva di continuo.
Gli mandava video stupidi o gli chiedeva aiuto nei compiti quando suo padre non era in casa. Non avevano mai parlato di lui, nemmeno una volta. Heaven gli diceva sempre che anche lei sentiva la sua mancanza, il che lo trovava assurdo, dato che erano stati insieme solo per due settimane.
Digitò un messaggio.

A: "Siete a casa?"

Aspettò, nervoso.

H: "Sì, perché? Sei a Oslo? Davvero? Ci vediamo?"

Atlas posò il cellulare nella tasca, dopo averle chiesto l'indirizzo. Voleva evitare di comportarsi in maniera inquietante, almeno per una volta, e ricavare le informazioni da solo.

Bendik uscì dal bagno, ormai pronto, con il solito maglione a collo alto e il giaccone. Lo squadrò da capo a piede. «Sbaglio, o hai detto che perderemo il volo? Perché? Tu non vieni?»

Atlas si irrigidì appena. «Non lo so... Non ho mai visitato Oslo.»

Bendik sorrise divertito. Aveva lo stesso sguardo glaciale di suo fratello, ma era decisamente più equilibrato e calmo. A volte Atlas credeva che si comportasse come un padre con lui, piuttosto che come un amico o un fratello, ma tutto sommato non gli dispiaceva. «Sai-» Sistemò la propria valigia, controllando di non aver dimenticato nulla. «-Sei un pessimo bugiardo.»

«Me l'hanno detto in molti.» Atlas si tirò in piedi.

«Ho promesso che mi sarei preso cura di te, per cui se non l'avessi fatto da solo, oggi, ti ci avrei portato io.» Bendik gli posò una mano sulla spalla. Guardò poi fuori alla finestra. Aveva ripreso a nevicare e le strade ormai erano piene dei canti di Natale intonati in ogni angolo della città. «Abbiamo sempre voluto fossi felice, e, diciamocelo, in questi anni non lo sei mai stato.» Avvicinò pollice e indice per marcare il futuro concetto. «Nemmeno un po'.» 

Atlas si mosse nervoso sui propri piedi e lo accompagnò alla porta della camera. «Suggerimenti?» Si poggiò alla parete, deviando accuratamente lo sguardo dell'amico. Non era bravo in quelle situazioni, non lo era mai stato e a momenti avrebbe vomitato dal nervoso. «Non mi guardare così o ti spacco quel naso, è anche storto, magari si sistema.»

Bendik rise e scosse il capo. «Idiota.» Scrollò le spalle. «Di solito ti direi di non essere te stesso, perché porti rogne, ma a quanto pare a lui piaci davvero per come sei e quindi ti direi di fare solo quello che ti senti. Magari senza portare armi, sai com'è, non stai conquistando un paese...»

Atlas roteò gli occhi al cielo e sbuffò. «Bene, allora buon viaggio. Ricorda ad Eyre che le mie piante vanno annaffiate ogni giorno e a Leyla che Thelma è un cane e non un cavallo.»

Bendik annuì. «E aggiungerò i tuoi saluti e il fatto che hai sentito la loro mancanza.»

Storse il naso. «Non credo sia ver-»

«Te l'ho detto: menti molto male, dovresti allenarti meglio.»

Bendik si allontanò, per andare a bussare alla camera di Ida e Atlas chiuse la porta, appoggiandosi ad essa e lasciandosi cadere a terra. Avrebbe preferito una sparatoria piuttosto che aprire il cuore, anche perché spesso gli avevano detto di esserne sprovvisto. Forse era meglio muoversi, lasciando che fossero i passi delle sue gambe a guidarlo, altrimenti i pensieri lo avrebbero bloccato nel labirinto delle paranoie.
Si tirò subito in piedi, dandosi una breva spinta e si sistemò il maglione. Forse doveva indossare una camicia. Forse, invece, era un idiota.
Sbuffò nervoso e indossò un caldo giaccone, per ripararsi dal freddo gelido e spietato.

Uscì da quell'albergo così grande e scintillante. Atlas aveva già individuato alcuni oggetti scintillanti e sarebbe stato difficile cercare di non portarseli via.
Teneva le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni, quando camminando si fermò davanti a un supermercato. Si lanciò al suo interno e prese alcune buste di caramelle gommose alla frutta, per Heaven, ed era indeciso tra una scatola di cioccolatini fondenti o di cioccolato misto per Hercule.
Non aveva calcolato quanto odiasse l'essere umano, fino a quando una commessa non gli si avvicinò. «Posso esserle utile?»

«No.»

Eppure sembrava stupida da ignorarlo. «Sta facendo un regalo per la sua fidanzata?» Sorrise quasi persa nel suo mondo. «Com'è? Cosa le pi-»

«È morta, l'ho uccisa io perché parlava troppo e faceva la commessa in un supermercato.»
Fu divertente vederla pietrificarsi all'improvviso, terrorizzata. Prima che urlasse, decise di chiarire. «Sto scherzando.» Prese una scatola di cioccolatini fondenti e si allontanò dalla corsia.
Pagò il conto. Quando si voltò per uscire, un uomo si scontrò contro di lui. Lo vide portare la mano verso la tasca dei suoi pantaloni, forse alla ricerca del proprio portafoglio. In un attimo lo afferrò per il colletto della camicia e lo spinse lontano. «Ti spezzo le ossa del collo.»

Non si aspettava una reazione, nella confusione generale scatenatasi all'interno del supermercato. Atlas fece per andarsene, ma l'uomo si tirò subito in piedi e lo spinse, facendogli perdere l'equilibrio e sbattere contro la cassa. Sentì un dolore lancinante sul sopracciglio e vide il sangue sporcare il metallo della cassa. Eppure ci aveva sperato di potersi presentare senza del sangue in volto. Fu un attimo. Posò la busta della spesa e lo afferrò per im maglione. Lo colpì con un pugno sul naso, lo sentì spaccarsi sotto il suo gancio destro. Gli assestò poi un calcio allo stomaco, spingendolo a terra, on un angolo contro una vetrina, che gli si riversò addosso. Il rumore del vetro, che si infranse a terra, ruppe le urla delle anziane.
Atlas sorrise soddisfatto e prese la propria busta della spesa.

«Buona giornata. Io chiamerei un medico per il suo naso.»

Uscì dal supermercato, incamminandosi verso il palazzo dove Hercule aveva affittato un appartamento. Si guardò attraverso il vetro del portone e sbuffò scocciato, nel notare che il sopracciglio non avesse smesso di sanguinare. Forse avrebbe dovuto bussare, ma scassinare una serratura era cosa da niente per lui.
Riuscì ad entrare nel palazzo e raggiunse il terzo piano, dove Heaven gli aveva detto che stessero. Individuò l'appartamento 221 della scala b e prese un grosso respiro.
Aveva la tentazione di tornare indietro, ma i suoi muscoli furono più veloci e bussò alla porta.

«Arrivo, un attimo.» Sentì Hercule dall'altro lato della casa e avrebbe voluto sprofondare e scappare via, urlando possibilmente.
Poi, però, il medico lo batté sul tempo, aprendo la porta. Restò per qualche secondo a fissarlo. «Atlas? Che fai qui? Cioè sei ancora a Oslo? Che hai fatto al sopracciglio? Entra, dai.»

Erano troppe domande e inviti. Non sapeva cosa rispondere, né cosa fare, ma quando Hercule si spostò di lato per farlo entrare, decise di assecondare le proprie gambe, dove evidentemente si era spostato il suo cervello. «Ho pensato di passare a salutarti prima di andarmene.» Adesso era anche più patetico di prima.

Hercule si massaggiò il mento e indossò un sorrisetto sadico. «Sono felice tu abbia imparato a bussare, sai qui le serrature sono più care che ad Edimburgo.» Atlas avrebbe voluto ribattere, ma si limitò ad aggrottare la fronte.

Heaven si affacciò dal divano, sorridendogli e salutandolo. «Vedevo il Re Leone, vuoi unirti a me?»

Hercule sorrise. «Tesoro, gli sistemo il sopracciglio spaccato e poi credo abbia fretta...» Gli fece cenno di seguirlo verso il bagno.
Atlas si era soffermato a osservare il salotto, in gran disordine, perché Hercule era incapace a posare le cose dopo averle utilizzate. Era sul punto di una crisi di nervi, non solo per la tensione e si augurava di non vomitare nel bagno del medico. Si stava caldi, il riscaldamento doveva essere acceso. Il salotto era accogliente, con un divano di pelle e un televisore enorme per godere delle serate in tranquillità. Hercule gli posò una mano sulla spalla e lo condusse verso il bagno.

Atlas lo seguiva in silenzio. «In realtà non vado di fretta.»
Forse non erano proprio le migliori parole con cui iniziare.

Hercule chiuse la porta del bagno e gli sorrise. Lo fece sedere su uno sgabello, spingendolo un po', sembrava stesse cercando di indossare un'espressione arrabbiata, che non gli riusciva poi così bene. Aprì uno sportello alla ricerca di disinfettanti e punti da cucirgli sul momento. «Pensavo fossi passato prima del volo.»

Atlas sbuffò piano. «Mh, era quella l'idea all'inizio, stamattina.»

«E cosa ti ha fatto cambiare idea?»

«Non lo so... ho perso il volo, però.»
Hercule lo guardò strano. Prese il disinfettante e iniziò a pulirgli la ferita. Sentire di nuovo le sue mani tamponargli e accarezzargli la pelle era strano. Probabilmente ne aveva sentito la mancanza, più di quanto avrebbe voluto ammettere. «Brucia.»

Hercule roteò appena gli occhi al cielo. «Lagna, suppongo tu abbia vissuto di peggio.»

«Da quando sei così antipatico?»

Hercule sorrise. «Solo con chi decide di lasciarmi, si prende cinque anni di riflessione e poi ritorna senza dirmi il vero motivo per cui è qui.»

Odiava sempre quando gli leggeva dentro, lo detestava. «Mi stanno dicendo in molti ultimamente che mento molto male.»

Hercule iniziò a cucirgli la ferita, stando attento a non fargli male. «Hai sempre mentito malissimo, credimi.» Atlas storse il naso, ma per lo meno poteva bearsi di nuovo del suo profumo alla vaniglia, almeno per un altro po'. «Allora, Atlas, hai intenzione di parlare?» Adesso sembrava scocciato. «Perché sto iniziando ad esaurirmi, sul serio. In ospedale prima mi rispondi che ti sono mancato anch'io, poi te ne vai sgusciando via senza salutare. Ora lo so che hai seri problemi con le convenzioni sociali, ma in cinque anni si migliora, non si dovrebbe peggiorare-»

Deglutì. Non aveva le parole. «Ti dirò la verità, dottore. Quelle cose che non ti ho detto anni fa le penso ancora.» Sbuffò piano. Storse il naso per il fastidio dell'ago. Era abbastanza sicuro che si stesse un po' divertendo a torturarlo, di solito non aveva mai sentito dolore. «Credo ancora davvero che questa cosa non possa essere la migliore scelta per te. Credo ancora che la mia persona non meriti l'amore di un cuore come il tuo e tutte queste stronzate varie.»

Hercule ridacchiò. «Stavo iniziando davvero a preoccuparmi che potessi essere romantico.»

Atlas sorrise appena. «Però forse vorrei essere un po' egoista sotto questo aspetto... a meno che non ti veda con qualcuno-»

«Non mi vedo con nessuno da tempo. Non ho spazi nella giornata per poter cercare qualcosa di serio e ricominciare tutto. Credo di aver condiviso troppo con un sicario sociopatico.» aggrottò poi la fronte. «Strano, stai rispettando i miei sp-»

Atlas deglutì. «Comunque sia, anche se ti fossi visto con qualcuno non era un gran problema eliminarlo per me.»

«ATLAS!»

«Non per forza ucciderlo.» Roteò gli occhi al cielo. «Per chi mi hai preso?» Ridacchiò appena. «Avrei potuto anche richiuderlo o rinchiuderla in uno sgabuzzino. Sequestrarlo e farlo partire per destinazioni ignote.» Hercule lo guardava con un'espressione mista tra la confusione e lo shock. «Ci sono tante possibilità-»
Scrollò le spalle. «Stavo dicendo-» Si tirò in piedi, mentre Hercule si ripuliva le mani sotto l'acqua calda. «-che forse vorrei approfittare del fatto che tu mi abbia dato anche cinque anni di tempo aspettando in un certo senso. E forse vorrei arrivare prima che tu incontri la tua anima gemella-» Hercule fece per ribattere, alzando un dito, ma Atlas gli afferrò il polso. «-e non dire che io sono la tua anima gemella, perché sei un idiota a crederlo.» si prese una pausa, pensandoci su. «E sei ancora più idiota a credere che esista l'anima gemella, in effetti.»

Hercule aggrottò la fronte. «Bene questa è una minaccia o dichiarazione? Perché hai minacciato di uccidere l'eventuale persona con cui mi frequento, anche se non esiste, e mi hai dato dell'idiota...più volte.» Sorrise divertito, però. Aveva sentito la mancanza dei suoi sorrisi, quelli diversi e riservati a lui.

«Mi hai interrotto... stavo dicendo, però, che nonostante tu sia un idiota, ho capito che a me piacciono molto gli idioti.»

Hercule gettò il capo all'indietro, cercando di non ridere, e Atlas lo osservò ancora una volta, fissando le fossette agli angoli della bocca. Il medico gli si avvicinò e posò le mani sulle sue guance, tirandolo poi a sé e facendo scontrare le loro labbra. Atlas posò le mani sui suoi fianchi, costringendolo ad avvicinarsi ancora di più. Gli era mancato, anche il suo sapore e le sue labbra screpolate. Dopo una breve pausa, affannati, ripresero ad avvinghiarsi l'uno all'altro ed Hercule schiuse appena le labbra, permettendo meglio ad entrambi di assaporarsi come una volta.
Probabilmente era sul punto di perdere il controllo, soprattutto quando le mani di Hercule presero a vagare nei suoi capelli, accarezzandogli i ricci e facendogli venire la pelle d'oca. Passò a baciargli il collo, lasciandogli una leggera scia umida e lo sentì mormorare qualcosa.

«A-Atlas-»

«Mh?» Alzò lo sguardo verso di lui.

Aveva il fiato corto. Si passò una mano in volto. «Di là c'è Heaven e io tra mezz'ora ho il turno.»

Si staccò e lo osservò appena. Non era proprio quello ciò che aveva in mente, ma avrebbero rimandato. «Va bene, allora vado a casa-»

«No, puoi restare qui. Torno questa sera sul tardi. Ad Heaven farà piacere stare con te e non dalla vicina accanto, dopo così tanto tempo...» Sembrava leggermente terrorizzato dall'idea che sparisse di nuovo.

«Hai intenzione di farmi sequestrare da tua figlia?»

Hercule sorrise sornione. «Ti assicuro che sta crescendo dolce ma anche come una piccola arpia, io non la sottovaluterei...»

Atlas si passò una mano tra i capelli, aprendo la porta del bagno. «In realtà messaggiamo spesso, pensavo lo sapessi.»

Hercule si fermò nel corridoio. «Che cosa?!»

«Oh, non lo sapevi... beh l'aiuto con alcuni compiti e mi manda video stupidi spesso. È abbastanza di compagnia-»

«Ne parleremo quando torno.»

«Ti ho preso dei cioccolatini fondenti.» Sembrava un buon modo per tenerlo distratto dall'imminente rivelazione.

«Oh.» Hercule sorrise a disagio, forse non si aspettava un gesto o altro. «Allora li porterò con me.» Prese la scatola di cioccolatini dalla busta e uscì da casa, non dopo aver dato un bacio sulla fronte Heaven e averle raccomandato di comportarsi bene.

Atlas attese che se ne fosse andato, prima di sedersi sul divano, accanto alla bambina, anche se ormai aveva quasi dodici anni, ed era abbastanza più grande. I quasi adolescenti lo terrorizzavano ancora di più. Potevano essere ancora anime innocenti o bestie di satana pronte a torturarlo.
Gli sorrise, mettendo in mostra il suo sorriso luminoso. «Allora?»

«Allora cosa?»

«Siete tornati insieme o no? Perché quando te ne sei andato era sempre così triste e giù di tono.» Gli lanciò un cuscino addosso. Evidentemente era una mania di famiglia fare quegli attacchi a sorpresa.

Aggrottò la fronte e raccolse il cuscino. «Non lo so, credo di sì.» guardò le scarpe, improvvisamente più interessanti e meno imbarazzanti di quella conversazione. «Allora... hai risolto quel piccolo problema?»

Heaven annuì. «Sì, ho ascoltato il tuo consiglio. Le ho tagliato i capelli con le forbici e ha smesso di scocciarmi... anche se mi hanno messa in punizione. Cioè ad entrambe. Adesso nessuno mi dà più fastidio però, grazie.»

«Io ti avevo suggerito di metterle un topo morto nello zaino-»

«Mi sembrava un tantino eccessivo, ma grazie lo stesso.» Heaven ridacchiò. Osservò la busta della spesa e inclinò il capo. «Cos'hai lì?»

Atlas si stava distraendo a guardare il Re Leone, che se n'era quasi dimenticato. «Ah giusto. Ti ho preso due pacchi di caramelle.» Le passò la busta e il volto di Heaven si illuminò.

La ragazzina lo abbracciò e di tutta risposta si immobilizzò come un pezzo di legno. «Volevo vedere il Re Leone tre... a te piace?»

«Ehm sì.»

«Grande! Lo dico sempre che non c'è età per questo cartone.»

Dopo aver avviato il film, si accoccolò al suo fianco. Ormai doveva aver pranzato già, visto l'orario. Gli prese la busta delle caramelle e gliela passò. «Dai mangiamo insieme.»

Atlas deglutì. Forse, però, era quella l'occasione che aveva aspettato per tanto tempo, o probabilmente non voleva che Heaven ci restasse troppo male.
E tutto sommato il sapore di quelle caramelle era davvero buono, anche se in compagnia di una ragazzina quasi insopportabile.

Sentì poi qualcuno muovergli la spalla. Aprì gli occhi e la afferrò, stringendola, come d'impulso. Riconobbe poi lo sguardo di Hercule e allentò la presa.
«Scusa... ma sei pazzo dottore?» Bisbigliò appena.

Hercule si rilassò «Ero convinto mi avresti sparato.»gli sorrise. «Vi siete addormentati sul divano. Ho portato Heaven in camera. Penso tu voglia dormire più comodo rispetto a un divano.»

Atlas si massaggiò il collo e lo fece schioccare appena. Si tirò in piedi e guardò l'ora. Era mezzanotte e forse avrebbe fatto bene a riposare un po'. «Va bene. Vado in albergo, ci vediamo?»

Hercule sorrise. «Innanzitutto abbiamo chiarito di ricominciare. Secondo è tardi, resta a dormire da me, che problema c'è?»

«Mh.» Lo seguì in camera e si lasciò cadere sul materasso, esausto. Anche Hercule lo era. «Giornata stancante?»

«Non quante quelle che mi facevi passare ad Edimburgo.»

Ridacchiò e si liberò delle scarpe. Hercule gli lanciò i suoi pantaloni di una tuta e una felpa per la notte. «Comunque, vorremmo trasferirci a New York... Heaven è entrata in una scuola importante di ballo e Shayla ed io vorremmo portarcela.»

Atlas lo osservò di sbieco. «Tanto meglio, io vivo lì ora. Sto con gli altri...» Si spogliò, indossando i vestiti che Hercule gli aveva dato. Il medico lo osservava nella penombra, con un sorriso rilassato a illuminargli il volto.

Hercule si sporse e lo tirò a sedere sul letto. Gli diede un bacio sulla guancia. «E questa volta non scapperai?» Inclinò il capo.

«No, sono venuto qua apposta.» sbuffò piano. «Però sarebbe gradito che non mi aspettassi sveglio quando vado a lavoro.»

«Suppongo che mi rifornirai di nuovo tanto lavoro...» Hercule sembrava terrorizzato all'idea. Sospirò piano e sorrise ancora. «Oh... e Thelma?»

«È un bel cane. È anche molto obbediente e amichevole, il mio opposto, probabilmente si venderebbe per una polpetta. Sta a New York con Leyla ed Eyre, ora. Non volevo portarla in missione, non la porto mai in realtà.»

«Capisco...» Si grattò il collo.

«Che c'è?» Atlas si distese, osservandolo meglio.

Hercule si voltò a guardarlo e scosse il capo. «Però mi devi un appuntamento... non ne abbiamo più avuto uno e vorrei averne uno serio, prima di tutto.»

Atlas ridacchiò e annuì. «Fino a prova contraria hai rovinato tu il nostro appuntamento, non io.»

Hercule sorrise divertito, quasi soddisfatto. «Oh allora lo ammetti che era un appuntamento, idiota.»

Atlas ghignò infastidito e lo colpì con un cuscino in volto. «Bene, 'notte.»

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