𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟗: 𝐖𝐇𝐄𝐍 𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐈𝐆𝐇𝐓 𝐇𝐀𝐒 𝐂𝐎𝐌𝐄
𝘎𝘦𝘰𝘳𝘨𝘦 𝘉𝘦𝘯𝘴𝘰𝘯:
𝘕𝘰𝘵𝘩𝘪𝘯𝘨'𝘴 𝘎𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘊𝘩𝘢𝘯𝘨𝘦 𝘔𝘺 𝘓𝘰𝘷𝘦 𝘧𝘰𝘳 𝘠𝘰𝘶
Calata la notte su New York arrivò un paradiso di stelle, satelliti e luci folgoranti, ancora più abbaglianti di quelle viste a Broadway; l'isola di Manhattan era così grande da sembrare un intero cosmo; Jimin avrebbe voluto e, al contempo, desiderato ammirare quei corpi celesti lungo il manto scuro, ma sapeva che era impossibile. Era consapevole dell'inquinamento luminoso, per colpa di esso quelle strisce nere, osservate dal basso della mediocrità umana, rimanevano grosse croci vuote e prive di imperfezioni, per uno come lui.
Quindi era un cielo privo di stelle, satelliti e luci folgoranti, anche se più forti di quelle di Broadway, perché questo era l'eterno e oscuro segreto di New York. La città madre che attirava a sé, con le sue luci fittizie, milioni di falene seppur mascherando la verità che si celava lassù, oltre il cielo, con la sua finta bellezza.
Ma Park Jimin non era una comune falena, guardava in alto con la punta del naso umida dal freddo, una sigaretta appesa, verso il bordo delle labbra, retta in bocca con noia, perché sapeva che oltre quello strato di inquinamento e illusione umana c'era ben altro. Un infinito. Forse un astro pieno di tanti soli e galassie che vanno in aggiunta alla nostra concezione di universo. L'essere umano era stupido e ambizioso per elementi fin troppo superbi, così semplice da raggirare.
Quando era stanco, come quella notte lì a New York, a volte chiudeva gli occhi, fumava ancora un po', poi s'immaginava di trovarsi steso nelle valli del Sahara a guardare il cielo. Da solo e senza nessuno che parlava, che dicesse la sua o cosa dovesse fare.
Immaginava un mondo dove ballava, portando su un palco pieno di stelle, numeri mai visti e intimi, il resto scompariva come ogni volta. Mentre ora sperava, appoggiato alla sua moto nel lato ovest a Midtown — a pochi passi da Time Square, dalla 42 Street e 6th Ave — che l'uscita con Ray Morgan non sfociasse nel fallimento; come le solite falene di New York, ovvero inutile come già si aspettava.
Molto probabilmente Katherine Walls aveva qualcosa che non andava, il suo "onorevole" metodo di giudizio era imploso per obbligarlo ad andare d'accordo con la mocciosa del Wisconsin. Nella sua vita aveva già subito numerose diatribe con tanti compagni ballerini, ma questo non scalfì comunque il suo animo, o la bravura, col rischio di non portarsi a casa la parte da protagonista. Mentre ora era diviso a metà: da un lato c'era Nora Smith, una donna con cui non voleva avere niente a che fare, dall'altra vi era Ray Morgan e con quest'ultima... non riusciva nemmeno a chiamarla per nome.
Due donne con cui, per motivi ambivalenti, non riusciva a ballare.
Girò il volto di tre quarti solo quando sentì dei passi velocizzarsi e, anche se leggeri, rimanevano poco aggraziati, nel vano tentativo di scalare i gradini sotterranei della metro più in fretta — in modo sprovveduto. Poco dopo vide una testa castana spuntare tra gli ansimi affannati, girò poi a destra e sinistra finché, con quel paio di occhi da cartone animato, vide Park Jimin appoggiato alla moto.
Ray arricciò le labbra quando lo trovò: era già corrucciato e annoiato.
Lo raggiunse mentre cercava di regolarizzare il battito cardiaco a causa della corsa. «Sono in ritardo, lo so» mise le mani avanti, quando parlò spuntarono dalla bocca almeno tre nuvolette di vapore acqueo per colpa del freddo. Park Jimin, con la sua sigaretta a metà, fece un tiro per poi allontanarla con le dita in modo passivo. «Almeno questo lo sai» la beffeggiò solamente col tono della voce.
Come non detto, Ray gonfiò appena le guance ma non replicò con la sua stessa moneta. «É la metro che ha fatto tardi»
«Certo, perché ci credo» esordì ironico mentre si allacciava il casco intorno al braccio. «Allora, a parte arrivare in ritardo, hai almeno qualche idea su che cosa fare?» la guardò attento, «perché dire "andiamo a Central Park" non basta come itinerario contando che é lunga chilometri e di camminare non ne ho voglia» e imitò puro la voce sottile e stridula di Ray.
«Io non parlo così» brontolò guardandolo male.
«Invece sì» lo disse apposta, «specialmente quando ti lamenti tanto»
Ray ruotò gli occhi al cielo; voleva già tornarsene nel suo dormitorio e mandare all'aria le sacre volontà di Katherine Walls. Ma, d'altronde, come potevano seriamente andare d'accordo?
Fece il primo passo, dimostrandosi molto più matura di lui. E santo cielo, borbottò dentro la sua testa, ha quasi trent'anni ma si comporta come un deficiente a volte.
«Siamo a Midtown, vuoi fare un giro lungo Times Square?» domandò, anche se poco avvezza all'idea di passeggiare in mezzo a tutte quelle luci sul grande schermo. Jimin storse il naso, come se fosse in accordo coi suoi intimi pensieri: «Era quello che volevi?»
«Sinceramente no...» sussurrò arrossendo.
«Allora non proporlo» sbuffò, «fai proposte che ti piacciono Morgan, non devi mica farmi un piacere. Io ho già visto quasi tutto di questa città e sei tu quella che viene dalle palafitte del Wisconsin» battuta triste a parte, aveva ragione dopotutto: era lì da quasi un mese e mezzo, ancora non aveva visto un quarto di quello che forniva Manhattan, ai poveri espatriati come lei.
«Ti sto lasciando scegliere, quindi sbrigati» continuò già stufo. Ray ci pensò su, non le veniva in mente nulla di così importante su due piedi finché, dall'altro lato della strada, non vide un cartellone pubblicitario con tanti fiocchi di neve. Le si illuminarono gli occhi e annuì: «Okay, ce l'ho!»
Jimin la guardò sottecchi, aspettando che sputasse fuori il rospo: «É qualcosa di stupido?»
Allungò la mano e puntò il dito contro il cartellone pubblicitario; Jimin per adocchiarlo dovette assottigliare lo sguardo e imprecare contro la sua leggera miopia. La vista poco dopo si fece nitida e preferì non averle dato questo libero arbitrio.
«Sì, lo é» si rispose da solo, poi sospirò, mentre l'altra lo guardò già contenta all'idea di andarci, «é decisamente qualcosa di stupido» biascicò affranto.
"Bryant Park Winter Village - Vivi la Magia del Natale a New York"
Jimin conobbe New York nei suoi anni di mezza gioventù; non aveva nemmeno compiuto vent'anni quando si traferì in America come nuova matricola dell'ABT. I suoi compagni non si sforzarono minimamente di fargli conoscere la città e lui, con un carattere un po' difficile e sempre sulle sue — da bravo sud coreano —, se ne infischiò alla grande della socializzazione.
Vide ogni posto da solo, con una Canon di vecchia generazione da cento dollari appesa al collo, comprata al Walmart con il suo primo stipendio. Rivedendo quelle foto scattate qua e là, dopo il fascino e la bellezza di certi posti — come la notte sulla grande Mela o i monumenti di cui forse gli americani non davano la giusta importanza —, si sentiva infinitamente solo.
Anche se il suo orgoglio espelleva ogni traccia di fragilità, dovuta alla mancanza di socializzazione, o dall'invidia altrui dei ballerini che volevano il suo talento, il solco della solitudine lasciava graffi sulla schiena irreversibili. Ritrovandosi così, davanti a quelle foto di sola natura, notti senza stelle e palazzi, col desiderio di essere immortalato anche lui in quel ricordo. Ma per trovarsi lì, stampato in quelle foto, serviva un compagno, o un amico.
Perciò, consapevole e protetto dal suo orgoglio, si mise a testa alta con uno sguardo di ferro e scartò quelle foto senza ripensamenti, mettendoci però più del dovuto a focalizzare l'obbiettivo.
Le lacrime, anche se trattenute e non sbocciate, non facilitavano il lavoro.
«Non ci sono mai stata a Bryant Park» i pensieri tornarono al presente per Jimin; Ray camminava al suo fianco in quella rigida notte d'inverno. La guardò sottecchi, con la mente presente ancorata ai ricordi passati, poi sembrò scorgerla per la prima volta quella sera: aveva un paraorecchie completamente peloso e bianco, le cuffie spuntavano dalla sottile cascata di capelli castani ed era coperta da un bomber color panna, lungo fino alle cosce. Le gambe erano velate da calde calze nere e una gonna di jeans, con un paio di cuoricini ricamati sul fianco.
Quel bomber era talmente ampio da farla sembrare una caramella gigante, o un soffice marshmallow. Quell'immagine lo fece stranamente ridere e lei se n'è accorse: «Che c'è?» domandò confusa, quasi arrivati all'entrata di Winter Village. Il moro scosse la testa e fece un sorrisino sghembo: «Sembri un fottuto marshmallow gigante»
Lei si immobilizzò: «Io? Eh- eh perché!?» balbettò tra l'imbarazzo e lo sgomento. Lui semplicemente alzò le spalle, senza un reale motivo: «Sei goffa e vestita con quel coso—»
«É un bomber» lo interruppe immediatamente risentita.
Sospirò. «Dicevo: quel coso ti sta così grande da sembrare una caramella gommosa. L'hai preso nel reparto da uomo?» chiese per prenderla in giro. Lei si morse le labbra e incrociò le braccia sul seno: «Era in sconto»
«Quindi é un sì?»
«E tiene caldo!» precisò, «Molto caldo. Molto più degli altri!» non ebbe il coraggio di specificare quel "altri" con un "é vero, fa parte del reparto uomo", ne andava del suo minuscolo e inesistente orgoglio. La dignità, purtroppo per lei, non la considerava nemmeno più. «Rasenti l'ovvio più totale Morgan, santo cielo, é grosso come me. É normale che tu senta caldo fino alle caviglie»
«Vogliamo seriamente passare tutta la serata a insultare il mio cappotto?»
«É un pneumatico, non un cappotto. Uguale a Michelin Man» precisò portandola all'esasperazione. Lei finì col sospirare molto, ma molto, pesantemente. Tant'è che la gente in fila per l'entrata di Winter Village si girò, disturbata per il rumore del sospiro.
«Park Jimin» lo chiamò per intero, come faceva sua madre quando combinava qualcosa di grosso. «Non sto scherzando. Non ho voglia di farmi prendere in giro così... per tutta la sera», appena esordì quella frase, Jimin si mise le mani nelle tasche dei blue jeans. «Non volevo nemmeno uscirci con te» le disse sparando un colpo fin troppo diretto.
Okay, erano stati obbligati entrambi dalla Walls a uscire e fare qualcosa insieme, per non perdere altro tempo avevano programmato un'uscita quella sera stessa ma, le cose... non stavano andando bene. Erano su due pianeti diversi e per quanto Ray provasse a fare il primo passo, Jimin ne faceva due di salti indietro.
«Questo l'ho capito» non si fece vedere fragile, «ma dobbiamo farlo. Quindi, per favore...» lo pregò quasi supplicando, «cerchiamo di andare d'accordo, almeno per questa sera»
Arrivò il loro momento di acquistare il biglietto per Winter Village; Jimin si limitò ad annuire seccamente e fece andare prima Ray, abituato alla galanteria millenaria della Corea del Sud. Il bigliettaio, affiancato da un poliziotto in servizio con un walkie-talkie vicino alle labbra, guardò entrambi.
Squadrò un po' troppo Ray, non capendo bene l'età, mentre Jimin, con i suoi tratti orientali e la mascella priva di peluria, lo mandò ancora più in confusione. «Due adulti?» tentò il bigliettaio, Jimin inarcò un sopracciglio aspramente.
«Certo. Ho trent'anni» rispose irritato: l'aveva scambiato per un tredicenne accanto a una bambina dell'elementari? «e anche lei» la indicò con un cenno, «ormai é sulla soglia dei quaranta»
Ray lo guardò scioccato mentre la pelle bianca diventava rossa. Il bigliettaio non sapeva se prenderlo sul serio o meno, tant'è che rilasciò una risatina isterica. La ballerina tirò fuori il suo documento all'istante, mandando al diavolo Jimin con lo sguardo: «Non lo stia a sentire, per favore. Ne ho ventidue, guardi! Quindi due biglietti interi» enunciò sbattendo quel torturo pezzo di plastica davanti alla sua faccia.
Il signore, dopo un'occhiata scettica e aver guardato l'anno di nascita, annuì: «Okay, cosa avevate in programma di fare?»
«Oh... giri per la fiera e pattinaggio sul ghiaccio» rispose senza consultare minimamente quel bisbetico di Jimin, di fatti quest'ultimo la fulminò immediatamente.
«Io non pattino»
«Due biglietti per il pattinaggio sul ghiaccio» sorrise al bigliettaio, ignorando di proposito Jimin.
«Morgan non ignorarmi» commentò innervosito.
Il bigliettaio scrisse qualcosa sul computer: «Sono ventisette dollari a persona» e lì, la mascella di Ray si spalancò del tutto. «Vent-Ventisette dollari?» chiese, allo stesso tempo contò mentalmente gli spicci nel suo portafoglio e forse non arrivava a ventitré dollari e venticinque cent. Mentre la carta?: lasciata malamente a casa
Il tizio alzò le spalle, da bravo menefreghista: «Siamo sotto alta stagione ragazzina. I prezzi sono questi, o paga o mi deve liberare la fila» e non usò un tono particolarmente gentile per dirglielo. Con le mani tremanti cercò la borsetta, già consapevole di non arrivarci, ma tentò lo stesso per non fare la figura della poveraccia, finché una carta non spezzò la realtà in due con un gesto secco.
Con la carta di credito, stretta tra l'indice e il medio, Jimin fece un passo in avanti per porgerla al bigliettaio. Seccato pronunciò: «Pago per entrambi»Ray cercò di fermarlo. «Jimin assolutamente no—»
«Non chiudi mai il becco tu?» la guardò un'ultima volta prima di riafferrare la carta e ritirare i biglietti, «E lei, so che il suo lavoro le fa cagare» parlò verso il bigliettaio, «ma si sforzi di trattare bene chi non le da dei veri problemi, se la prenda con uno come me, al posto di una ragazzina» lo incenerì prima di avanzare verso l'entrata senza aspettare nessuno. Nemmeno Ray.
L'uomo si vergognò immediatamente, qualche ragazzino più indietro si mise a ridere per la figura appena fatta. Ma quell'atto spavaldo e cavalleresco — molto, ma molto carente — da parte dell'etoile, le sembrò un miracolo. L'aveva difesa sia da quell'uomo burbero e dalla sua mancanza di denaro: aveva pagato per lei, per qualcosa che tra l'altro nemmeno voleva fare.
«Jimin!» lo chiamò mentre continuava a camminare in mezzo alla gente. Doveva essere scottato e impaurito da se stesso per aver fatto quel gesto caritatevole; eppure non si fermava, stringeva quei biglietti con nervoso. Perciò velocizzò il passo, continuando a chiamarlo, finché lui non esplose del tutto. «Dannazione, Morgan, finiscila!» alzò la voce guardandola sfinito, «Smettila di urlare. Non dire niente! Non fare niente e non voglio quei soldi indietro, intesi!?»
La castana schiuse le labbra infreddolite, anche un po' inaspettata dinanzi a quegli occhi che cercavano una via di fuga e che, al contempo, non volevo nulla da lei.
«Grazie» esclamò in mezzo a Winter Village, coi bambini che urlavano, il freddo che attecchiva sulle statue americane e la musica assopita in un sottofondo. «Volevo solo ringraziarti» anche se si sentiva un po' patetica a farlo, lo fece lo stesso, «per essere qui con me, nonostante l'odio che provi nei miei confronti e per il tuo prezioso tempo perso, sappi che... é la prima volta che esco dal quartiere della compagnia» si guardò intorno con la punta del naso congelata e un sorriso sbarazzino, appena comparso e increspato dal gelo, «e sono felice. Sono a New York! E non da sola finalmente. Quindi... grazie. Ti ringrazio per la tua compagnia»
Ti ringrazio perché potresti essere colui che reggerà la macchina fotografica per immortalare foto in cui io sarò presente. E, se vorrai, farò lo stesso con te.
«E ti ringrazio per avermi fatto felice»
No. Park Jimin non avrebbe mai potuto odiarla, non davvero. A parole era bravo e sapeva come rigirare la situazione a proprio favore ma mai, dopo aver visto in quegli occhi lucidi, un ringraziamento per un paio di pattini usati in uno stupido festival di Natale, l'avrebbe odiata.
«Io non ti odio Morgan» esordì sincero, per niente abituato alla misera contentezza di una cosa così futile, eppure, quell'affermazione ebbe la capacità di riscaldargli il cuore. L'altra negò col capo: «Ma puoi farlo. Non devi dire il contrario per farmi un piacere»
Jimin puntò gli occhi verso terra, ai rimasugli della leggera brina sciatta contro i marciapiedi imbanditi di bianco. «Fidati» schioccò la lingua al palato per non concedergli altro di lui, «vorrei farlo, con tutto me stesso. Vorrei saperti odiare» ammise lasciandola di stucco, «detestarti e ignorarti, ma non ci riesco»
Non voglio.
Non posso farlo.
«Perché vorresti farlo allora?»
Deglutì. «Perché rispecchi tutto ciò che non sono e questo... » destabilizza, «non mi piace,» mi terrorizza, «non trovo nessun punto d'incontro per intrattenermi con te, ma non ti odio» si leccò le labbra, face spallucce davanti ai suoi occhi vividi, «al massimo mi infastidisci»
Incerta se credergli o meno, Ray si avvicinò per stargli vicino. Poi si diede della stupida: Jimin odiava i bugiardi, anche se a volte scappava pur di non ammettere la verità, comportandosi da vero imbecille, rimaneva sincero. Forse davvero non la odiava.
«Anche tu» storse il nasino e con un velo d'imbarazzo a bagnarle le guance, «mi infastidisci. Sei molto ruvido» L'altro scoppiò a ridere e si passò una mano sul viso: «Che ragazzina del cazzo, ti ho appena pagato l'entrata per il tuo stupido pattinaggio. Sai dove te lo puoi ficcare il ruvido?» sfoggiò tutta la sua volgarità.
Ma Ray non si offese. Fece un sorriso sghembo perché ormai aveva capito che l'ironia sporca e il sarcasmo piccato facevano parte della sua persona, oltre a essere un gran permaloso.
«Hai detto tu che non vuoi i soldi indietro!»
«Infatti non ho detto che li voglio»
«Ma continui a rompere, se non vuoi non andiamo. Almeno non rompi più»
«Assolutamente no. Se ho pagato é solamente per vederti schiantare sul ghiaccio e perdere tutti i denti davanti» la prese in giro. Ray si mise a braccia conserte, guardando con poca attenzione le bancarelle: «Guarda che me la cavo» sussurrò a bassa voce.
«Certo, come no» le lanciò un'occhiata storta e sarcastica. «So già che torneremo a casa su un'ambulanza»
«La pianti!?»
«Solamente quando avrò appurato che ho ragione, come sempre»
«E se tu dovessi avere torto?»
«Questo non succederà mai» esclamò sicuro, «se pattini come balli quando sei con me, duri due secondi sul ghiaccio»
Ray stette in silenzio e lo lasciò finire. Decise semplicemente di ascoltare la musica del parco e di viversi quella notte come aveva ripetuto la signora Walls, senza avere l'ultima parola. Perciò lasciò i pensieri ottusi di Jimin al suo proprietario e, con un slancio, si prodigò a muoversi verso la casetta di legno che affiancava l'enorme pista di pattinaggio; una delle più famose e grandi di New York.
Le misere foglie di verdura che aveva spiluccato per cena, condite con olio e colorate con del triste petto di pollo senza antibiotici — per la gioia degli allevamenti intensivi —, si stavano ribellando a causa della solitudine. Il ballerino si era volutamente perso dopo qualche bancarella di Natale, limitandosi a guardare per evitare tutto quel consumismo ansioso; era una campanello d'allarme che suggeriva di evitare pupazzi di neve, calzamaglie orrende e finte barbe di babbo natale perché appunto, secondo lui, l'America amava anticipare anche le più piccole cose: poteva sopportare la neve finta, ma gli addobbi di Natale a inizio Novembre gli facevano volare le palle come due flipper.
Come se non bastasse, tornando alle sue verdure irrigidite sul suo fottuto stomaco, l'odore di fritto, unto e di "vero cibo" lo rendevano molto più nervoso del normale. Era una persona rigorosa e disciplinato nei confronti delle sue diete, ma quella notte avrebbe svuotato persino le liquirizie appese sui ganci per i buchi della fame.
Aveva lasciato che Ray girasse a vuoto da sola, per conto suo, dopo la seconda volta che si era fermò a guardare altri orrendi peluche giganti dagli occhi deformi, quasi il quadruplo del loro corpo. La cosa andò avanti finché poi lei non si appioppò dentro la lunga fila per il pattinaggio; lui, con la scusa di dover pisciare, si scavò immediatamente dai piedi.
Aveva deciso di tornare giusto il tempo per vedere il sangue sulla pista, denti rotti e lacrime, dopo i suoi probabili fallimenti sul pavimenti scivoloso e invernale. Ma non tenne conto del tempo e dell'aria pungente che veleggiava intorno alla misteriosa vita di Ray Morgan; un'incognita così vasta e di poca importanza per lui, da non accorgersi di niente — nemmeno di quanto si fosse sbagliato in realtà.
Black Well, oltre a essere verde e decorata da pilastri di legno dei coloni inglesi; col suo piccolo Diner coi poster di Elvis Presley e Bob Dylan sui muri, aveva una mediocre sala giochi che fungeva come centro commerciale e ritrovo degli studenti del liceo. Il tempo, lì, sembrava non essere mai scaduto. Mai passato. Così la commessa del Fantasy, rimasta con lo spirito negli anni 80', arrivò a dirigere la sala giochi. — lo stesso plesso che conteneva quel circo di negozi. Mentre la notte acconciava i suoi finti capelli biondo platino con orribili bigodini, al giorno apriva le serrande ai giovani.
Tra la marmaglia di ormoni e ragazzi che avevano marinato la scuola, quando non ballava, c'era Ray Morgan nel mezzo. C'era una pista per pattinaggio a rotelle; quei roller puzzavano di sudore, di usato e ruote bruciate dall'attrito, perciò veniva coi suoi, portati da casa e decorati con piccoli stikers arcobaleno. Imparò da sola come salirci e come slittare sopra il pavimento di finta gomma, finché la commessa del Fantasy, la quasi sessantenne Gwenda Brooks, non le fece vedere i video di Tonya Harding dandole qualche dritta.
Perciò, Park Jimin, con il suo caffè lungo e amaro, fumante nel cartone, tornò per vedere i risultati della sconfitta che odorava di Wisconsin. Si appollaiò sulla sbarra alla ricerca del sangue, o di un'imbranata che poco prima stava per cadere da in piedi, però non trovò nulla. C'era tanta gente, costatò con lo sguardo attento, non abbastanza per definirsi alta stagione come a Dicembre, ma di lei non vi era neanche l'ombra.
Che avesse già rinunciato? Ridacchiò da solo finché la noiosa playlist commerciale non cambiò con una canzone dai tratti lenti; un vecchio al suo fianco si mise a fissare un punto ben preciso, commentando con un uomo più giovane al suo fianco (probabilmente il figlio) quanto fosse brava una trottola vagante in mezzo alla gente. Lì guardò un secondo, poi fece caso a quell'informazione e cercò con gli occhi la "trottola".
Un bomber bianco. Capelli raccolti in due codini. Un paraorecchie peloso e una gonna svolazzante; tratti, segni indistinguibile, tracce di una sola persona e questa, con gli occhi chiusi, pattinava come se fosse un'esperta.
«Hanno tirato fuori un fossile» gracchiò invece un giovane al suo fianco, di pelle scura e con lunghi capelli legati in treccine, ironizzando sulla scelta del pezzo musicale, mentre un suo compare rilasciò una risata assai fastidiosa. Quasi nasale e rattrappita di nullafacenza. «C'è ancora chi ascolta questa musica?» sputò per terra prima di farsi un sorso della sua birra. «Dio!» ridisse il primo del gruppo, disgustato, «Seriamente? Mi cascano le palle a sentire queste puttanate»
Jimin ruotò gli occhi al cielo dinanzi a quella volgarità, troppo anche per il suo vocabolario contando i bambini che trafficavano lì intorno. Poi scoppiò un'altra risata. «A quanto pare c'è a chi piace questo diabete. Ma vedendo il tipo non mi meraviglio per niente: é uscita dal regno degli unicorni?» Al che, Jimin, ancora più confuso, smise di guardare il gruppo per cogliere l'interessato preso di mira.
«Cazzo ma sono cuoricini quelli stampati sul culo secco di quella lì?» la donna del gruppo, con uno accento latino, si mise una mano sulla bocca: «Ha cinque anni?»
Qualcosa sfrecciò davanti a lui, tant'è che milioni di cristalli ghiacciati vennero spruzzati contro il recinto bianco della pista; la famosa "trottola" se ne stava a incrociare i piedi, passo dopo passo, con bravura; i muscoli delle gambe sottili, ma atletiche, reggevano il peso e il suo perfetto equilibrio. Aggraziata, alzò le braccia ai lati in un port de bras fluido; non era pattinaggio artistico. Stava assolutamente ballando.
Libera, con gli occhi chiusi e un timido sorriso rilassato, apprezzava "Nothing's Gonna Change My Love For You" — 1987, di George Benson — meglio di chiunque altro. A Ray Morgan piaceva, le ricordava i tempi in cui sua madre conobbe suo padre in Corea, in un viaggio di gioventù. Le piaceva così tanto quella canzone che lo si capiva da come si fermò al centro, creando così un cerchio di naturale di bellezza e spazio, impavida nel mostrarsi così disinvolta nel ballo davanti a tanti sconosciuti. Nonostante — per occhi altrui — le sue stranezze.
Jimin si era sbagliato. Errato nel modo più funesto ed evidente. Ray Morgan sembrava conoscere quel posto meglio di casa sua; meglio del Wisconsin; ancora meglio dell'ABT. Di fatti, Ray prese una seconda rincorsa capace di tagliare di netto il tempo, le persone potevano solo guardarla, immersa nelle parole d'amore. Lui stesso, come tutti gli altri, poteva guardarla solamente come uno spettatore su una poltrona, al di là del recinto bianco, e al di là di ogni convinzione con cui l'aveva schedata come una mina vangante e prova di disciplina.
Gli sembrò di rivedere il famoso cigno nero che ballava di nascosto, con le ali dolenti e il cuore in subbuglio, ma ora sembrava diversa: bianca e in salute. Era un mondo privo di Odette e Odile, distinte dal bene e dal male, ma pieno di sfumature di grigio.
Hold me now, touch me now.
Si abbracciò girando su se stessa, creando una serie di piroette sul ghiaccio, divagò sul piano liscio con un lungo arabesque e alzò la gamba fino al cielo, pattinando all'indietro.
I don't want to live without you.
Era felice. Era spensierata.
Nothing's gonna change my love for you.
Saltò ed eseguì un doppio axel perfetto e dondolò sul pavimento ancora e ancora, danzando senza limiti e ombre. Non aveva paura di chiudere gli occhi e trovarsi di nuovo quell'ombra sovrana che si cibava di paura e angoscia; quest'ultima non poteva più nutristi così, perché Ray immaginava un mondo dov'era innamorata. Immaginava di provare l'amore; il vento tra i capelli a Black Well, in mezzo ai campi di grano, o una persona con la quale fidarsi senza nascondere profonde ferite da battaglia.
Ray sognava l'amicizia, quella vera.
You oughta know by now how much I love you
One thing you can be sure of
I'll never ask for more than your love.
Ray sognava mani gentili che la sollevassero in alto, su nel cielo, mentre lo guardava sapeva di poterci arrivare un giorno, senza morirci; sognava anche il bruciore timido della chimica, un bacio sulla pelle del collo o un braccio avvinghiato ai fianchi. Era bello immaginare, niente di tutto ciò faceva male quando gli occhi rimanevano chiusi.
Nothing's gonna change my love for you.
Dio! E Dio! Quanto sembrava bello l'amore.
Like a guiding star
I'll be there for you if you should need me.
E quanto sembrava bella la fiducia, bella quasi come New York di notte e sotto un manto di vere stelle.
You don't have to change a thing
I love you just the way you are.
E quanto, dopo un lungo pianto, sembravano belle le certezze?
So come with me and share the view
I'll help you see forever too.
Un cammino in due e una stretta di mano dopo un'infinita salita, questo immaginava, perché sembrava un sogno. E il sorriso tremò appena, quel sogno stava svanendo così come la canzone; scivolò un'altra volta al centro e si mise a girare, riproducendo la piroetta dell'angelo, terminando con le mani verso l'alto per spingere via tutto ciò che non faceva parte del mondo, oltre gli occhi chiusi.
Sua sorella, in una domenica lontana, durante la sua ultima estate a Black Well, le disse di dover nutrire maggiore paura quando gli occhi venivano privati della luce, dove paure e ombre si manifestavano con l'arrivo del buio — la classica nictofobia. Ray, coi capelli sparsi qua e là sul manto di spighe d'orato, insieme alla lettera d'ammissione all'ABT ancora dentro la borsa, le chiese come dovesse vivere la vita quando lei, le paure e le ombre, le vedeva solo quando teneva gli occhi aperti.
One thing you can be sure of
I'll never ask for more than your love.
Reese Morgan, se avesse potuto, le avrebbe dato i suoi stessi occhi per poterle permettere di vivere. Se avesse potuto, le avrebbe sussurrato convinta, senza paura, senza rabbia e senza rimpianti, di cercare la luce quando se si fosse persa nell'oscurità. Avrebbe ucciso — si sarebbe sporcata le mani — per vedere sua sorella tenere gli occhi aperti ogni volta che respirava, o che ballava.
The world may change my whole life through.
Oltre quel ricordo, la canzone raggiunse lentamente la fine: così come le sue pirouette; il sogno dell'amore; la brezza dell'amicizia e la speranza di poter vivere, un giorno, in un mondo senza ombre.
Un mondo fatto della sua sola piccola e fragile felicità, timida quasi come una pioggia leggera che penetrava tra i raggi di sole. Lei, in quel mondo, era un piccolo raggio di sole, sbucato dalle tenebre di un temporale per fare luce negli abissi.
Perciò si fermò e, ansimando dalla fatica e col fiatone rilasciato in piccole nuvole di condensa, strinse le mani lungo i fianchi mentre il volto rimaneva piegato verso il basso.
But nothing's gonna change my love for you
Aprì gli occhi, staccandosi da quella profonda illusione, giusto in tempo per vedere Winter Village e alcuni bambini che la indicarono eccitati. Sorrise imbarazzata, realizzò poco dopo che si era lasciata andare un po' troppo. Eppure era orgogliosa di se stessa: ci sapeva ancora fare sui pattini.
Poi si girò un po' intorno e sentì qualcuno ridere — forse ridevano di lei —, era un gruppetto con un sacco di facce storte e cappellini da baseball in testa. Cercarono di sminuirla con qualche esternazione volgare, di fatti il suo sguardo si palesò con sensazioni di disagio e avvertì l'insicurezza a farle visita.
Le ombre spuntarono dagli angoli dei suoi occhi per farla atterrare, appena le scorse si immobilizzò con la gola secca. Si sentì un'altra volta inutile e inesistente.
Finché Jimin, ancora sconvolto dopo quel ballo delicato, non uscì dal suo stato taciturno per fulminarli con gli occhi. Come se avesse aperto gli occhi per la prima volta davanti a Ray e l'avesse vista per com'era realmente, riconoscendo un talento innegabile. E, con quelle guance rosse e gli occhi lucidi, la trovò bellissima tanto da fargli girare la testa. Perciò si appoggiò il gomito sul recinto bianco e, contro ogni sua aspettativa, contro ogni morale e ogni tipo di orgoglio che gli dilaniava il cuore, si schiarì la voce.
«Non starli a sentire!» prese più coraggio, nel mentre lei lo guardò senza parole, «Sono dei coglioni menomati, che non capiscono un cazzo e con dei pessimi gusti musicali» li insultò e non si preoccupò nemmeno di attirare su di sé una probabile rissa. Lo
«Jimin...» a malapena riuscì a dire il suo nome da quanto rimase sbalordita.
Allungò una mano verso di lei: «Mi duole ammetterlo Morgan, ma ci sai fare» fece un mezzo sorriso, sghembo e insolito, «e sei stata l'unica cosa bella in questo schifo di posto. Perciò, forza, scendi da quei cosi. Andiamocene via»
Ray, nonostante tutto, vide le ombre sparire.
Non era un'illusione? Era... reale?
Gli occhi... non erano più chiusi?
No. Non lo erano. Davanti a lei c'era colui che l'aveva screditata fin dall'inizio, le tendeva la mano e sorrideva con sincerità.
Eccolo, piccola Ray, il tuo primo e vero piccolo raggio di sole.
Nothing's gonna change my love for you.
𝘎𝘦𝘰𝘳𝘨𝘦 𝘉𝘦𝘯𝘴𝘰𝘯:
𝘕𝘰𝘵𝘩𝘪𝘯𝘨'𝘴 𝘎𝘰𝘯𝘯𝘢 𝘊𝘩𝘢𝘯𝘨𝘦 𝘔𝘺 𝘓𝘰𝘷𝘦 𝘧𝘰𝘳 𝘠𝘰𝘶
[Dovrebbe esserci un GIF o un video qui. Aggiorna l'app ora per scoprirlo.]
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SALVE❤️
Eccomi qui, dopo circa un mese, con una testa che funziona un po' di più. Sto attraversando una parte importante della mia vita è ho avuto giorni di grosso sconforto, non riuscivo nemmeno ad aprire Wattpad 💔
Ma oggi sono torna e spero di avervi soddisfatto con questa PRIMA parte della notte di Ray e Jimin, perche si ci sarà la seconda parte ❤️🩹
Non c'è molto da dire:
- Jimin coglie New York in un modo totalmente opposto a come la vedono tutti gli altri, oltre le illusioni fittizie per questo spera che Ray non sia falsa come tutte le altre ballerine con cui ha avuto a che fare.
- Ray, nonostante tutto, lo ringrazia perché gli sta permettendo di viversi una notte diversa e in compagnia di qualcuno che non sia la solitudine. Lui paga per lei e questo é un grande gesto, senza farla passare come un'approfittatrice.
- JIMIN NON LA ODIA. Jimin... ancora non capisce che cosa sente quando é con lei, chissà 👀
- Durante la scena del pattinaggio sul ghiaccio... dico tanto e non dico niente eheheh. Ho il cuore spezzato per Ray, trova la pace solamente quando balla con gli occhi chiusi e si sente persa quando lo fa tenendoli aperti. Abbiamo un ricordo con Reese e lei darebbe la vita per sua sorella, sporcandosi addirittura le mani... e parla che arriverebbe a uccidere 👀 dettaglio strano, ma importante.
- Ray... sogna l'amore, ma l'amore che fa bene, perché ha ricevuto solo quello doloroso ❤️🩹 Sogna l'amicizia vera e una vita di risate.
- Jimin... l'ha trovata vera. E l'ha vista bellissima❤️
Alla prossima
❤️❤️
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