𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟖: 𝐒𝐄𝐗 𝐀𝐍𝐃 𝐅𝐄𝐄𝐋𝐈𝐍𝐆𝐒
𝘚𝘪𝘯𝘧𝘰𝘯𝘪𝘢 𝘯. 5 𝘪𝘯 𝘥𝘰 𝘮𝘪𝘯𝘰𝘳𝘦 𝘖𝘱. 67:
𝘓𝘶𝘥𝘸𝘪𝘨 𝘷𝘢𝘯 𝘉𝘦𝘦𝘵𝘩𝘰𝘷𝘦𝘯
Era una casa enorme, imbandita di luci, muri bianchi color meringa e una moltitudine di scale in legno di mogano. Una volta entrati vi erano due persone alla porta che aspettavano, con infinta pazienza, di afferrare borse e cappotti di chiunque varcasse le soglie della reggia. Ma quel lusso, per chi viveva nel quartiere di Tribeca, era la normalità, l'ennesimo elemento quotidiano di ricchezza che abbelliva, senza importanza, lo status sociale.
La famiglia Smith, col suo impero, non guardava in faccia nessuno e proseguiva a testa alta noncuranti o interessati di trovarsi davanti un altro ricco ereditiere o il barbone ambulante che si sbronzava fuori dal supermercato. Erano importanti e lo sapevano.
Lo sapevano e ostentavano.
Una berlina nera arrivò giusto in tempo per fermarsi davanti alla porta, nella zona completamente privata solo per gli Smith, fermandosi in modo che l'autista potesse scendere dall'auto. Questo uomo, col completo e una faccia di chi non dormiva da più di ventiquattro ore, corse ad aprire lo sportello posteriore.
Una gamba affusolata e coperta un pantalone nero firmato capitolò sulla strada di Tribeca; si sollevò e afferrò la borsa, masticando l'aria d'inverno.
«Roger, quante volte devo dirtelo che non serve aprirmi la portiera?» non era un ammonimento. Nora Smith sorrise leggermente, «posso farlo da sola»
Ma Roger Bells — o il signor Roger, per lei — sospirò a bassa voce lanciando un'occhiata nei dintorni della strada. Non era solo il suo autista quando le serviva, ma anche una sottospecie guardia del corpo in modo da evitare imbecilli o teppisti che si intrufolavano in quei quartieri per furti e rapine.
«Sono gli ordini, signorina. Mi dispiace ma non posso fare altrimenti»
Il sorriso leggero di Nora si spense appena, ricordando ogni parola e vincolo del suo contratto di lavoro; regole che accumunavano ogni inserviente presente in casa sua: "é severamente vietato trasgredire le regole scritte come da contratto. In caso di mancato rispetto, eludendo le regole, il contratto verrà immediatamente sciolto con un licenziamento immediato."
E come dimenticare, in mezzo a quella montagna di inutili e ridicole regole, la firma di completa riservatezza nei confronti della famiglia Smith con il rischio di una penale.
E non chiamarmi signorina — avrebbe voluto dirgli come quando era piccola — Nora può bastare, ma se lo tenne per sé come ogni volta con amarezza. Non l'avrebbe mai chiamata così.
«Hai ragione» si limitò a dirgli con un sospiro sfinito. Roger le andò davanti e aprì la porta di casa con attenzione: «I suoi genitori la stanno già aspettando, signorina. Forse é il caso che non li faccia attendere»
Certo. Roger non aveva paura di una persona normale e silenziosa come Nora: i mostri per i quali avere timori erano ben altri. Nora roteò gli occhi al cielo e annuì fredda. Entrò, diede borsa e cappotto alle inservienti senza nemmeno guardarle — perché era un'abitudine impostata obbligatoriamente da sua madre — e andò direttamente nella sala da pranzo.
Si udivano voci. Schiocchi di calici di cristallo e una leggera musica bassa, un jazz, suonato da un giradischi autentico della seconda guerra mondiale. La tavola era pronta e intorno a essa, già seduti, vi era Aaron Smith, il padre di Nora, le zie Olive e Cassidy e, infine, Beverly Richardson-Smith.
Sua madre.
Una donna di mezza età vestita in un completo di Chanel corto fino al ginocchio, capelli raccolti e piegati dal parrucchiere, e fra le mani reggeva un vassoio con qualche stupido stuzzichino da cento dollari al chilo. Beverly alzò gli occhi dal piatto d'argento, facendo ondulare alcune ciocche della sua acconciatura castana, finché non puntò i suoi fari azzurri e penetranti come il ghiaccio sulla figlia appena arrivata.
«Nora» appoggiò il vassoio al tavolo, «tesoro, finalmente sei arrivata» Nora Smith cacciò fuori un sorriso di sollievo, nonostante ci fossero con loro anche le zie che a malapena sopportava, forse la serata sarebbe andata bene.
«Sono passata a prendere delle nuove scarpette da ballo» commentò senza salutare nessuno, tranne suo padre, l'unico che le lanciò un leggero sorriso prima di tornare a leggere le notizie sul business nel tablet. Beverly la guardò attentamente e si spalmò un sorriso sulla faccia, dall'esterno sembrava così doloroso.
«Le hai già portate dalla sarta per ammorbidirle?»
Si immobilizzò, con la mano ancorata al bordo dello schienale della sedia, per guardarla esitante: «Non c'è ne bisogno, posso farlo anche io»
«Non se ne parla» le rispose mantenendo quel rigido sorriso addosso, «paghiamo la sarta apposta, portale da lei. É il suo lavoro» quella risposta non piacque per niente a Nora: perché non poteva farlo lei ma la loro sarta che cuciva solamente per il nome della sua famiglia?
«Lo fanno tutte in compagnia» ci riprovò, insistendo sul fatto che fosse una cosa normale, «basta usare ago e filo e ammorbidire le punte» in realtà era molto più complesso e macchinoso di come ne parlava. Lo sapeva bene: bruciavano le estremità dei lacci per non farli sfilacciare o, per non arrivare a compiere azioni così drastiche, si usava uno smalto trasparente.
Mentre per ammorbidire le scarpette, mascherina e solette, andavano piegate con le mani (c'era chi le sbatteva a terra con frustrazione) affinché diventino entrambe abbastanza morbide per provare in mezza punta. Ma chi viveva il ballo solamente dall'esterno non sapeva dell'angusta preparazione che vi era dietro, usando addirittura solidi martelli da falegname per smollare le punte.
«É semplice!» spiegò provando a convincere sua madre in primis ma questa, con un lampo oscuro che attraversava i suoi occhi inquietanti e azzurri, si irrigidì indispettita.
«Nora» la richiamò, smettendo di sorridere, «siediti» ordinò lei facendo lo stesso e prendendo posto, «ti ho già detto che lo farà la sarta, la questione finisce qua. Intensi!?» le sue sorelle ridacchiarono davanti all'espressione acuta di Nora.
Olive Richardson, gemella di Cassidy, aveva faticato nella vita giusto l'atto per scoparsi l'uomo a cui fregare il portafogli, riuscendoci alla grande; un idiota di Brooklyn, proprietario di una qualche catena commerciale, ed era caduto nella trappola di Olive fatta di sesso e gambe depilate ogni volta che lui ne avesse voglia. Ovviamente si era fatta mettere incinta apposta per avere una parte della sua ricchezza assicurata, senza nessun contratto prematrimoniale.
Mentre Cassidy era la gemella che collezionava mariti, il suo doveva essere il suo quarto o forse quinto matrimonio. Per sua fortuna si era limitata a sfornare due figli terribili come lei dal primo matrimonio, poi si era fatta chiudere le tube immediatamente e ora si godeva la pazza gioia a Saint-Tropez, con dei toy boy come amanti. Mentre il suo attuale marito era il proprietario di ben tre casinò sparsi per l'isola di Manhattan.
Quindi, in sostanza, nessuna delle due sapeva che cosa significasse fare qualcosa di semplice. O fare qualcosa di altro nella vita oltre a spendere soldi e aprire le gambe.
«"Lo fanno tutte in compagnia"» scimmiottò Olive prendendo in giro sua nipote, «e quindi, tesorino? Anche tu ti presenti lì con una berlina e accompagnata da un'autista, mentre le "altre" della compagnia se la fanno in metro. Vuoi eguagliarti con chi raccatta le scarpette nella spazzatura?»
Ecco qual era il vero problema nel smollare le scarpette con le proprie mani; non vi era una solida motivazione, sua madre non aveva nulla in contrario a modificare quegli strumenti, il problema si presentava nel farlo nella stessa e identica maniera dei comuni mortali. Abbassarsi al livello della semplicità, di afferrare un martello e un accendino per compiere un'azione che facevano tutti quanti.
Lei, insieme a persone come Judite Dixon, erano due delle poche privilegiate che potevano permettersi il meglio; di non bruciarsi le dita come un umile e artigiana; di non incurvarsi verso il basso; né di spendere del tempo prezioso se qualcuno poteva essere pagato, profumatamente, per farlo al posto loro.
Persino Park Jimin, ora con un titolo sulle spalle e un cachet giornaliero da capogiro sommato alle numerose pubblicità, sponsor e interviste, non si faceva problemi a smollarsi le scarpette da solo come da vecchia abitudine. Era il suo conto corrente a essersi arricchito e di conseguenza cambiato, ma non il suo essere: non era nato nell'oro, quel che aveva se l'era sudato e tuttora continuava a farlo.
Ma era il sadico principio degli Smith; Beverly non voleva perché era semplice e comune: lei doveva essere la migliore anche in questo.
Perciò annuì mentre si vide arrivare la prima portata calda della cena davanti agli occhi, la governante appoggiò il piatto con delicatezza e fece la stessa cosa con tutti gli altri. Iniziò a mangiare il suo piatto con lentezza, era l'unico tra tutti a essere diverso e composto da proteine magre e fibre, mentre quel fastidioso silenziò incominciò a dare molta noia a Beverly.
Sul marito non poteva minimamente contare, era troppo concentrato a farsi gli affari suoi sui conti online, perciò ripose l'attenzione sulla figlia.
«Come procedono le cose in compagnia?» chiese mescolando la sua zuppa saporita. Nora alzò gli occhi dal suo piatto dietetico e capì che sua madre le stava parlando: «Mmh? Oh bene... abbiamo incontrato Alexander Janssens proprio come mi avevi detto tu»
«E finalmente aggiungerei» si mostrò affaticata, «ho sentito dai Dixon che Albert Fries ha pagato un sacco di saldi per farlo venire qui» dopo quella frase il marito la guardò sottecchi: «Dimentichi che abbiamo contribuito anche noi»
«Giusto» ruotò gli occhi al cielo fingendosi smemorata, sottolineando indirettamente come i soldi fossero principalmente del capo famiglia degli Smith; ma Aaron non aveva la vena per quegli affari illeciti come lei, perciò non si faceva problemi a farsi rubare il portafogli e ostentare il patrimonio di famiglia.
«E comunque,» cercò di cambiare discorso la figlia, «te l'ho detto che anche Rachel é riuscita a entrare quest'anno?» certo che glielo aveva detto, forse una ventina di volte ma sua madre non l'ascoltava mai, quindi usava la solita scusa per cercare di salvarsi da una probabile sfuriata.
Di fatti, Beverly, senza aver ascoltato una singola parola della figlia sulla sua amicizia con Rachel Hall, alzò la voce per chiamare la governante. Altro vino, ordinò senza specificare un bel niente.
Ma la governante ormai sapeva a memoria i gusti della signora Smith, perciò, con finta spigliatezza, si dileguò verso la cantina.
«Scusami tesoro» quella donna non si scusava mai per davvero, «stavi dicendo? Ah sì: Janssens» schioccò le labbra, «ho avuto ragione sul Lago dei Cigni?» domandò gongolante. Ma Nora dovette stingere le mani sui pantaloni e negare: «No mamma, non hanno preso in considerazione l'idea. Balleremo Carmen»
La faccia di sua madre diventò di gesso. Le gemelle ridacchiarono attraverso i flûte di vino appena riempiti: «La zingara?» scoppiò Olive guardando Cassidy faceva spallucce: «La senza tetto di Parigi?»
A Nora cascarono le braccia: «Zia Cass, quella é Esmeralda... in Notre Dame de Paris. Carmen detiene il famoso assolo dell'Habanera, la storia é ambientata a Siviglia» ci provò, ma parlare con loro era impossibile: erano ignoranti e mentalmente chiuse.
Cassidy posò il bicchiere: «E cosa cambierebbe dal Portogallo a Parigi?» domandò in una finta domanda alla quale, in realtà, a lei non fregava nulla delle cittadine europee, figuriamoci.
Olive ruotò gli occhi al cielo: «Cassidy, svegliati. Siviglia é in Spagna» lei però era ancora meno sveglia, dal punto di vista malizioso, della gemella e cascava ogni volta sul puntualizzare anche i puntini delle "i". Credendosi più intelligente tanto da permettersi di beffeggiarli dietro al suo bicchiere di cristallo, quando in verità erano due teste vuote che non riuscivano a compensarsi.
Cassidy alzò gli occhi al cielo: «Quante chiacchiere, cambia il posto ma la zingara rimane la stessa»
Nora cercò di intervenire e salvaguardare quel pezzo artistico come meglio poteva; Carmen non la faceva impazzire come opera ma non potevano permettersi di screditare dei repertori, famosi in tutto il mondo, con queste blasfemie.
«Non parla di questo zia, ma dell'anticonformismo di una donna che...»
All'improvviso sua madre si alzò dal tavolo con una faccia colorita e contenta; non esponeva mai quel sorriso quando si trattava di lei, di Nora, non sprecava così tante energie per la seconda scelta. Quella felicità e soddisfazione veniva riservata solamente per una persona soltanto e questo, dal canto suo, e sospirando, voleva dire che Victoria era arrivata.
«Tesoro!» gli occhi le luccicavano dalla contentezza e comparì, sotto il rumore di tacchi contenuti da un trentotto, una silhouette abbagliante e aggraziata. Beverly continuò: «Sei riuscita a venire!»
Una cascata mora e fulva come quella di Nora, si palesò davanti ai suoi occhi: «Non ho detto niente a papà perché volevo farti una sorpresa» esordì con una voce colante come il miele, schioccò un bacio sulla guancia al padre e abbracciò Beverly.
Che famigliola felice, peccato che di vero non vi era nulla.
«Sciocca! Non sei occupata col lavoro?» domandò preoccupata e Nora alzò un sopracciglio: lei era stata obbligata a venire quella sera, altrettanto occupata dal lavoro, ma Victoria aveva avuto scelta?
La guardò bene, trovandola ancora più magra ma con gambe forti, il volto più ossuto e Nora notò quel piccolo ghigno che nasceva sulle labbra della donna: era finzione. Si era appena comprata sua madre con del finto senso di protezione famigliare e lei non era furba fino a questo punto; lo era coi soldi, con gli affari e i successi, non col sentimentalismo.
«Ho fatto uno strappo alla regola solo per venire qui!» si girò verso il tavolo, guardando tutti quanti con i suoi glaciali occhi azzurri, identici a Beverly. «E per fortuna aggiungerei, vi vedo molto mosci» lo sguardo cascò su Nora e, con nonchalance, continuò: «Sorellina stai dritta con la schiena. O continuerai a fare gli stessi cambré di quando avevi undici anni»
Victoria Smith, sua sorella maggiore, primogenita del nuovo cambio generazionale della famiglia, se ne stava davanti a lei, in piedi e ben vestita, come se fosse intoccabile da quanta perfezione sprigionasse.
E se non fosse stato per la sua chioma corvina sarebbe stata l'esatta e identica copia di Beverly Richardson-Smith alle soglie dei trent'anni, mentre Nora aveva ereditato i caldi e affascinanti tratti di suo padre. Forse anche la pacatezza e quella leggera attitudine che si diramava nell'essere uno smidollato. Parlare della sua mancanza di carattere la rendeva sempre infelice, lei stessa sapeva di non avere una personalità forte e spigliata come quella di sua sorella, ma non per questo sentiva di valere meno.
Ma per sua madre a quanto pare il sentimentalismo d'uguaglianza non esisteva. Essere una scalatrice sociale era difficile e, a volte, aprire le gambe a un miliardario qualsiasi non bastava nemmeno. Bisognava sapere riconoscere quello giusto e impiantarsi nella sua vita come un dannato parassita.
Un po' come Victoria nella sua, pensò mentre abbassava lo sguardo. Avrebbe voluto una vita diversa, la presenza di sua sorella maggiore era una costante tossica e viva fin dentro alle ossa.
E ai suoi insuccessi.
«Ringrazia tua sorella, Nora» la fulminò mantenendo un sorriso falso, «ci sono persone che pagano per i suoi consigli. Per te sono gratis»
Che se li tenesse pure.
«Grazie» si limitò a dire drizzando la schiena che urlava dolore a ogni vertebra che schioccava, poi la vide sistemarsi davanti a lei, accanto a sua madre: perfetto, pensò, le ho entrambe davanti a me.
Victoria ridacchiò dopo che salutò fintamente le sue zie e queste, a differenza con la nipote più giovane, iniziarono immediatamente a farle il filo. «Victoria, ti trovo in splendida forma!» l'adularono quando videro il suo braccio magro afferrare un calice.
La governante non tornò solamente con il vino richiesto ma anche con un altro piatto, identico a quello di Nora. Victoria abbassò gli occhi e fece una smorfia: «Oh non c'è bisogno!» sventolò una mano, bevendo solamente champagne, «sono piena, ho già mangiato»
Nora, con lo sguardo basso, cacciò fuori un sorriso amaro e di senza speranza. Ormai la conosceva bene come le sue tasche.
«Quando?» domandò dal nulla cogliendola impreparata.
Tutti quanti si zittirono; Aaron Smith alzò gli occhi dal suo aggeggiò elettronico per guardare sua figlia minore, chiedendosi che cosa avesse in mente. Di fatti Victoria, rimasta immobile e con le labbra appiccicate al flûte, si staccò dal bordo di cristallo per emettere una risata gracchiante.
«Appena ho staccato dalle prove» si sbrigò a dire mantenendosi calma.
«Mmh, quindi sei tornata a casa, hai mangiato e poi dei tornata qui? Consapevole di avere una cena di famiglia? Non potevi aspettare e mangiare con noi?» la interrogò.
«No» si pulì le labbra col tovagliolo, «un contrattempo mi ha bloccato in un aperitivo di lavoro col mio manager. Quindi ora sono sazia»
Nora spinse la lingua contro la guancia e la guardò negli occhi: «Stai mentendo. A te non piace alimentarti con quella roba» cosa altrettanto vera; seguiva una dieta identica alla sua, anzi, a volte più rigida. Non sgarrerebbe mai ore di lavoro e sacrifici con stupidi salatini e pizzette.
Victoria si irrigidì: «Qual é il tuo problema sorellina?» socchiuse gli occhi felini e azzurri, guardandola dritta in faccia, «ti senti in colpa per aver sforato la dieta mentre io dimostro di tenerci alla linea?»
Nora fece cadere il cucchiaio nel piatto e iniziò a fissarla come stava facendo lei: «Non essere ridicola. Sei troppo intelligente per cadere così in basso»
Victoria la disintegrò con un'occhiata ma sua madre fece un lungo sospiro senza entrare nel dettaglio: se fosse stata una vera e amorevole madre non avrebbe mai permesso alle sue figlie di affrontare questa tipologia di discorsi. Ma Beverly era un'arrivista con il collo decorato di gemme e diamanti, il resto non contava.
«Ragazze» continuò a occhi chiusi, «siete entrambe in splendida forma e Nora,» la richiamò aprendo gli occhi, «tua sorella é grande abbastanza per decidere cosa é meglio per la sua carriera. Dopotutto c'è un motivo se é diventata...»
Nora alzò gli occhi al cielo. «... Prima ballerina» finì la madre e la mora, a bassa voce, ripeté la stessa frase che sentiva ormai da anni. Si morse le labbra mentre incrociò le braccia sopra al seno quasi piatto e lo sterno ossuto.
«Ma non temere, quest'anno avrai alte probabilità di diventarlo anche tu» sentenziò la madre inconsapevole del disastro che stava accadendo all'ABT. Victoria si illuminò con enorme interesse, si stava dimenticando di tastare la concorrenza:«Giusto! Ho sentito che Janssens proporrà come opera La Carmen, é vero?» la stava evidentemente beffeggiando, con l'aria di chi aveva il culo ossuto parato e accasato nella parte di Clara, nello Schiaccianoci.
Nora sbuffò, mascherandolo in un mezzo sospiro: «Non ti sbagli»
«Interessante!» la guardò leggermente divertita, «e come procedono le audizioni? Ti hanno già dato la parte?» e ne parlò quasi come se per lei fosse completamente normale e facile avere qualsiasi parte, a discapito della meritocrazia. Strinse i tendini del collo e scosse la testa: «No, le audizioni saranno a breve», la sorella maggiore annuì per finta circostanza e fece spallucce.
«Siete un po' in ritardo» costatò mascherando la contentezza.
«Lo so» ribatté, «ma le questioni burocratiche non dipendono dai ballerini. O almeno non sempre» le lanciò una finissima e sottile frecciata che poté cogliere solamente lei. Glielo concesse: era stato un bel colpo, quindi sogghignò: «Sono contenta di vederti stare bene sorellina. Mi sembri meno...» finse di cercare la parola giusta, «smidollata del solito»
Che fosse più nervosa del normale non poteva darle torto. Solitamente non si azzardava nemmeno a parlare, ma aveva così tanta pressione addosso che rischiava di esplodere da un momento all'altro.
La madre si mise in mezzo: «Credo che dipenda tutto dal suo futuro partner. Non so se lo hai saputo tesoro ma Park Jimin é tornato» la guardò attenta, scrutando entrambe. Victoria spalancò gli occhi ed emise una risata stridula: «Che cosa!? Santo cielo, non ne sapevo nulla!»
«Forse perché lui, a differenza di altri, evita di esporsi così tanto durante i suoi tour» e si ritrovò in qualche modo — e stranamente aggiungerei — a difenderlo in maniera abbastanza imparziale. Era un tipo chiuso ed enigmatico, con lui non ricavavi un ragno dal buco, quindi non era propriamente una bugia.
Victoria la osservò con sarcasmo: «E l'hanno mandato da voi per salvarvi dal fallimento?» eppure dal tono si avvertiva una nota leggermente piccata e meno sicura di prima. Nora alzò le spalle, incredula che avere Park Jimin come informazione fosse per lei un sottile aiuto, anche se misero. «A quanto pare sì» e l'affrontò, «e sembra avere successo»
Le prevendite stavano già spopolando tra l'alta società e gli sponsor si erano fiondati immediatamente sul sud coreano per eventuali collaborazioni. E nemmeno questa era una bugia.
La maggiore storse il naso ma non si fece mostrare abbattuta. Anzi, un lampo di genio tornò a rinvigorire il suo animo rocambolesco: «E tu dovrai ballare Carmen insieme a lui?» scoppiò a ridere, «sorellina, sicura di essere abbastanza donna per un Don José del genere?» e lo sguardo esitante di sua sorella minore fu la conferma dei suoi dubbi.
A quanto pare le cose non stavano andando bene.
«Oh...» abbassò un braccio sul tavolo e si finse dispiaciuta, «devo aver toccato un tasto dolente»
Beverly tornò nel mondo dei vivi con irruenza: «Cosa farnetichi! Nora sta facendo un buon lavoro e Janssens la vorrebbe per quella parte!» alzò la voce guardando entrambe. Ma Victoria ridacchiò tornando a visionare Nora: «Non metto in dubbio le parole di Janssens mamma, ma perché non glielo chiediamo alla diretta interessata?» fece spallucce, facendo un altro sorso, «anzi, a Katherine Walls»
Nora si sentì male. Sua sorella era arrivata dove voleva arrivare fin dall'inizio, al nido più grosso e complicato delle sue insicurezze. Gli occhi di Beverly, accecati dal fastidio per un probabile insuccesso, annientarono la sua debole corazza costruita dalle sue misere energie.
Non aveva il coraggio di mentire.
«Come stanno andando le prove per le audizioni, Nora?» emise quella frase con un gelido sospiro da farle accapponare la pelle.
E non aveva nemmeno il fegato di affrontarla.
«Non bene» fu costretta ad ammettere mentre Victoria tornava a farsi più alta e lontana da lei. Depositata su un piedistallo anni luce distante e irraggiungibile. «Carmen non é un ruolo che rientra nella mia personalità e mi é difficile, al momento, creare una sintonia col mio partner»
Aaron chiuse il tablet e guardò prima la figlia e poi la moglie; sarebbe arrivata una tempesta con tanto di maremoto e lui, da bravo smidollato, avrebbe fatto meglio ad alzarsi e fumarsi un sigaro in giardino. Infatti fu quello che fece dopo aver ignorato quel covo di donne impazzite.
Olive Richardson cercò di fare una delle sue solite battute: «Perché non provi a portartelo a letto?» esordì dal nulla. «I ballerini dovrebbero essere bravi a farlo»
Quella frase fece irrigidire tutti quanti, persino Victoria inarcò un sopracciglio per guardare la sua insopportabile zia.
Ma Beverly non aveva voglia di scherzare: «Chiudi quella bocca Olive» la rimise al posto. Non doveva più trattenersi ora che suo marito si era levato dai piedi. «Ti conviene spigarti meglio, Nora»
L'altra esitò. Ma cos'altro poteva fare davanti a quella giunonica donna, piena di potere e mentalmente avara?
«Io e Park Jimin stiamo avendo delle difficoltà collaborative» abbassò lo sguardo mentre sul viso di Victoria si creò un leggero ghigno. Beverly iniziò a mangiarsi il fegato; le narici si allargarono così tanto da sembrare due fori di proiettile. Poi Nora continuò: «Katherine sta cercando la Carmen perfetta ma non sta ottenendo i risultati sperati. Ci trova finte e prive di personalità»
Victoria canticchiò, contando qualche bollicina all'interno del flûte quasi vuoto: «Carmen. Carmen. Carmen... ora rammento» esordì fissandola glaciale, con occhi privi di sentimento, mentre lo sguardo stoico prendeva a pugni quel sorriso laccato di rosso, arcuato fino alle orecchie come una pazza, «Carmen, quanti ricordi...» spinse la lingua contro la guancia, «chissà perché mai Janssens é caduto così in basso questa volta da permettere all'ABT di riproporre una storia così mediocre» tutto questo puzzava di passato travagliato.
«Victoria... ti prego» sua madre cercò di contenere per sé lo sdegno generale che provava per questa scoperta. Non aveva la forza di mettere a tacere sua figlia maggiore. «Non ora» continuò reggendosi con una mano sulla tempia.
«Tranquilla mamma, non é da me recarti altri dispiaceri» si finse dispiaciuta, sfidando sottecchi la minore, «ci ha già pensato Nora a farlo. Che fai sorellina, non chiedi scusa alla mamma?»
Nora voleva solamente andare via da quel posto. Non le interessava in quale città scappare o che autobus della stazione prendere, uno qualsiasi, purché la portasse via da quel posto. E dentro di lei lo sentiva benissimo quanto la sua famiglia facesse schifo; quanto suo padre fosse un codardo; sua madre il diavolo; e sua sorella il risultato perfetto di tanti progetti di una vita. Lei non era niente, era un progetto andato a male, ma quel dolore non riusciva a imprimerselo nella pelle fino a far scatenare la voglia di scappare via.
Quindi se ne restava lì a sedere, con il piatto freddo, le sue zie ricche e alcolizzate, una madre glaciale e sua sorella maggiore seduta di fronte. Non ce la faceva, non riusciva a mettere al primo posto se stessa e lasciare quell'inferno.
Anche perché il suo cognome era una garanzia. Piangeva in camera ma dopo qualche minuto le tappavano la bocca con qualche peluche o scarpe di Saint Laurent da tremila dollari. E nel suo mediocre mondo vuoto, grigio e privo di amore, quelle futili attenzioni andavano bene: alla fine rimanevano comunque gesti d'affetto, giusto?
«Scusami mamma» chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio.
Erano gesti d'affetto?
«Non ti scusare. Non me ne faccio niente» afferrò una sigaretta dalla borsa e l'accese, fregandosene della puzza o dell'allarme antincendio — tanto quest'ultimo non c'era in sala da pranzo —, «convinci Janssens a farti dare quella parte. Hai dei piedi perfetti...» sentì la rabbia smontarle nelle viscere, «allora usali, cazzo!»
Erano gesti d'affetto, giusto?
«Sì mamma» non versò una lacrima. Piangere sarebbe stato solo più difficile e inutile. Piangere avrebbe aumentando la rabbia di sua madre. Piangere dimostrava di essere debole e incapace.
Giusto?
Beverly era pensosa: voleva che entrambe le figlie raggiungessero un livello di agonismo massimo nel mondo della danza, quello che non aveva potuto avere lei, creando allo stesso tempo un impero come stava facendo Victoria. Voleva tagliarsi le labbra a morsi dal nervoso; avrebbe allungato altri soldi ad Albert Frey per la parte di Carmen se avesse potuto, ma c'erano già troppe voci malevoli sul percorso di Victoria e col suo immediatamente matrimonio erano aumentate. Se avesse creato un clima ostile anche sulle spalle di Nora nessuno avrebbe più voluto collaborare con lei.
Però... Nora ha detto che Katherine sta avendo difficoltà con le altre ballerine, quindi non ha nessuna in mente per ora. Potrebbe fare più pressione a Janssens con i finanziamenti e chiacchierare con la vecchia la Katherine Walls come ai vecchi tempi.
«Katherine sta brancolando nel buio» disse Beverly, tornando a guardare Nora, «le tue colleghe sono valide?»
Nora non si aspettava questo interessamento da parte di sua madre, si limitava ad altro; lì per lì pensò a Judite Dixon, poi le venne in mente Rachel, altre colleghe anonime e poi... senza motivo, pensò a Ray. Strinse le mani sulle cosce.
«Judite Dixon rimane come sempre un buon partito» sia di ballo, sia di cognome e Beverly era abbastanza matura da concedere il rispetto adeguato per quella ragazza d'alto rango. I figli d'élite si notavano immediatamente in mezzo a un folla di comuni mortali, sapevano come arrivare al successo in poco tempo e Judite aveva da sempre mostrato notevoli doti.
«La tua più grande nemesi» costatò Victoria lisciandosi i capelli con una mano, «non mi sorprende»
«Già...» mormorò Nora. «Altre?» chiese Beverly per studiarsi la situazione, «altre candidate? O nuove arrivate?»
Nora temporeggiò: «Dipende. Siamo tutte sullo stesso piano. Poi é arrivata da poco una ragazza, dal Wisconsin» ammise, non sapendo se fosse un'informazione importante o no. Ma nel frattempo Victoria drizzò le orecchie curiosa: «É brava?»
La minore esitò, questa volta non sapeva cosa dire o quali informazioni fornire: «Io... non lo so. Arriva in ritardo e non si mostra mai in prima fila, ma giusto qualche giorno fa Janssens l'ha voluta come mia sostituta nelle prese con Park Jimin»
Victoria rivolse al tavolo uno sguardo di freddezza mentre Beverly incrociò le braccia al seno. Cercò di ingoiare la parola "sostituzione" analoga alla figlia e andò avanti: «E l'esito di quella prova?»
Fu costretta a dire la verità: «Buona»
«Meglio della tua?»
Si morse la labbra: «Sì»
«Di quanto?»
«... Di molto»
Beverly e Victoria si guardarono con un'occhiata. La madre fece un'ultima domanda: «Questa ragazza del Wisconsin, i piedi come li ha?»
«I... piedi?»
«Sì. Ti ho insegnato a guardare i piedi, come sono?»
Ecco cosa voleva sapere. Con un macigno sul petto guardò in basso e annuì con l'amaro in bocca. «Buoni anche quelli» erano perfetti, strinse gli occhi, li aveva visti dal primo giorno che aveva indossato le punte in sala da ballo.
Beverly la guardò attentamente: «Meglio o peggio dei tuoi?»
Quanto faceva male ammetterlo ad alta voce?
«Meglio»
A Victoria si mozzò il respiro quando sentì quella risposta. Pregava affinché quella ragazza del Wisconsin fosse così fessa e stupida da farsi cacciare da sola per problemi di disciplina, o avrebbe potuto dare grossi problemi a Nora. Conosceva Katherine Walls e aveva un debole per i piedi perfetti e Nora, per quanto fosse acerba, aveva delle ottime linee. Ma se la ragazza del Wisconsin la superava nonostante le condizioni ottimali di Nora, forse l'avrebbero dovuta temere.
«Sta' lontana da quella ragazza Nora» l'avvertì duramente sua madre, «fai buon viso a cattivo gioco. Scopri i suoi difetti ma non farti annientare da una sempliciotta del genere. Sei sempre stata la migliore, perciò continua a esserlo» e questa decisione la lasciò sconvolta e sorpresa.
Avrebbe dovuto fingere con Ray?
«Mi sono spiegata?» la fulminò non sentendo alcuna risposta e Nora annuì flebile.
«Sarà fatto» dichiarò con un senso di nausea addosso.
Beverly una mano per interromperla: «Voglio vedere il tuo nome in cima a quella lista. Non sprecare questa opportunità»
«Sì mamma» ripeté mentre gli occhi color nocciola di Nora si spegnevano come quando entrava in sala da ballo ogni mattina. Era tornata a essere il perfetto automa della famiglia Smith.
«Nora?» la chiamò Victoria, diede l'ultimo sorso al bicchiere prima di finirlo con lo stomaco vuoto. «Non lo finisci quello?» indicò il piatto ancora pieno della sorella minore e, quest'ultima, lo fissò assente.
«No» dischiarò, guardando un punto a caso della sala senza emozione, «Non ne ho bisogno» e si alzò dal tavolo, «per dimostrare di essere la migliore... non ne ho bisogno» senza salutare nessuno, andò su per le scale come faceva dall'età di cinque anni dopo una discussione.
Si chiudeva in camera mentre le chiacchiere e le risate da donne ricche proseguivano fino a tarda notte e lei, coperta dal suo guscio di coperte rosa e stesa su un letto da principessa, si concedeva un piccolo pianto silenzioso.
Ripeto. Dopotutto...
erano gesti d'affetto, giusto?
Ancora.
Aveva praticato anni di belletto singolo. Usato punte, gambe e braccia per evolvere i movimenti in stili aggraziati e degni di sorpassare le sue compagne stronze di Madison in un soffio — in un soffio almeno dall'esterno. Ma aveva sempre ballato da sola, seppur con qualche eccezione quando l'accademia del Wisconsin non era in carestia di ballerini maschi, però non aveva praticato prese e saggi troppo importanti per creare un'adeguata chimica in un duetto.
Ora doveva fare più di un semplice e mediocre saggio di una vecchia compagnia retrograda, fatto in uno Stato di terre, laghi e foreste; avrebbe dovuto ricreare un passo a due, passionale, bruciante e travolgente, con un uomo che non sopportava. E lui non sopportava lei.
«Ancora!»
Era un po' triste, secondo Ray, che quella macchinosa macchina di montaggio la obbligava a essere protetta da braccia forti e calde che però non la volevano; altrettanto triste era la sintonia mentalmente sfuggente e difforme a quella fisica, dannazione, i loro corpi si cercavano per natura, ma le menti rimbalzavano come poli uguali. Ancora più infinitamente triste, erano i loro occhi dopo che un tango improvvisato, scarno di regole ma pieno di passione, aveva scosso animi appassiti da anni.
«Ancora!» era la terza volta che lo ripeteva, Jimin muoveva il braccio destro per darsi voglia e ringhiava quando non vedeva il risultato sperato, «forza un'altra volta» sbottò, mentre Ray, sentendolo innervosirsi, sentì un moto di stanchezza appesantirle le gambe.
«Jimin...» lo chiamò ormai intrisa di sudore, col body attaccato al petto e un paio di culotte strette sopra ai fianchi piccoli e rotondi, «stiamo provando da due ore»
Il diretto interessato si era defilato verso il cellulare e impostare per l'ennesima volta la sinfonia dall'inizio. «E quindi?» le dava le spalle, aveva una maglietta aderente addosso e più bagnata del Mississippi, ma si rifiutava di esporsi e denudarsi un'altra volta davanti a lei. Era evidentemente distante anche con il contatto fisico. «Possiamo starcene qui anche per un'altra ora, a me non cambia»
A me sì, piagnucolò Ray con una faccia sfinita mentre reggeva le mani sui fianchi disperata.
Park Jimin questa volta non era scappato, nemmeno nell'allenamento precedente, ma era così impenetrabile e freddo, con lei, da essere irraggiungibile. Non stava effettivamente scappando, ma la evitava in maniera fastidiosa e lei non se ne capacitava.
Sostenere che nemmeno lei avesse provato o avvertito una connessione — che a parer suo aveva del fantascientifico — con lui, durante il tango, significava ammettere il falso. Perché anche lei si era sentita trasportare in un mondo che non aveva mai avuto il privilegio di sentire, toccare e né vivere.
«Se restiamo un'altra ora a provare lo stesso pezzo rischiamo di lasciarci i piedi» gli fece presente per farlo girare verso di lei, ma lui continuava a starsene per i fatti suoi, ricurvo a cercare la playlist. Però Jimin emise una risata di scherno: «I tuoi piedi sanguinano Morgan?»
Ray si accigliò e guardò le punte dolenti; sicuramente qualche vescica si era aperta ma aveva il salvapunte, preferiva tutelare le unghie dell'alluce invece di rischiare una mal cicatrizzazione com'era già accaduto in passato. Sospirò: «No» rispose un po' seccata.
«Allora significa che ancora puoi ballare, perciò chiudi la bocca e proviamo» e si girò per andarle incontro. Ray si mordicchiò leggermente il labbro inferiore mentre manteneva lo sguardo abbassato; era frustrata, sembrava avercela con lei più del solito.
«É quello che sto facendo» brontolò offesa, con gli occhi sul pavimento e le guance paonazze. Jimin la guardò con freddezza: «Ma non abbastanza»
Si sentì punta, dritto al suo piccolo orgoglio un po' tremolante. «Mi sembra che il risultato sia comunque accettabile»
Ecco, quella parola, a Jimin dava sui nervi, come qualsiasi sinonimo del termine "sufficiente", lui aspirava alla perfezione e non avrebbe mai appoggiato il suo culo sui finti allori. «Solo perché al momento questa partnership sembra essere migliore di quella portata avanti con Nora, non significa che sia abbastanza» strinse i pugni lungo i fianchi, era così tanto nervoso per questa stagione da perdere il lume della ragione, «e non significa che anche tu debba farti bastare questo risultato... mediocre» continuò.
Ray incrociò le braccia sopra al petto e si sentì un'altra volta di malumore. La musica era partita e Jimin, immedesimato in un Don José pregno di carica sessuale e ossessione per Carmen, si mise con le gambe divaricate sopra una sedia, con lo schienale contro il petto e le braccia appoggiate sul bordo. Se ne stava lì nell'angolo ad aspettare l'entrata di Carmen con l'aria di chi doveva far impazzire la sua donna.
Ray entrò con gli occhi non propriamente alti ma con passi ben decisi. Tirò le guance in un sorriso poco veritiero e cercò di atteggiarsi in un lungo tendu in quarta fino al centro; doveva guardare Don José con desiderio ma non riusciva a non arrossire davanti agli occhi ammaliatori di Jimin, gli stessi del tango, quelli che dopo quel giorno non era riuscita più a replicare e né decantare la vittoria.
«Sicura!» l'ammonì dopo pochi secondi. Ray strizzò gli occhi: doveva aspettarselo. «Mento in alto» continuò mentre lui ballava le pause, Ray gli arrivò davanti, accarezzò il volto del "suo uomo" prima di allontanarsi appositamente verso l'angolo opposto. Si fermò con la gamba tesa in en dehors e il braccio alzato aspettando che Jimin venisse da lei per afferrarla.
Così fece e lei cercò di essere sfuggente, tramite glisses e arabesque seducenti ma Ray non si sentiva abbastanza in forma per affrontare un'altra volta quel travagliante legame non voluto, né voleva sorbirsi quello sguardo gelido addosso.
Quindi si irrigidì ancora, sbagliando l'angolazione dei piedi e Jimin sbuffò: «Hai le anche troppo in alto» ringhiò appositamente contro il suo orecchio, in modo che recepisse attentamente il messaggio, «e continui a essere troppo indecisa, riesco ad anticipare le tue mosse» serrò le mani sui suoi fianchi per trattenerla. Quel contatto scottò.
Ray sentì il nervoso smontarle l'aplomb e tentennò per colpa del fiato caldo che bruciò la zona del collo: «E tu sei troppo distante» riuscì ad ammettere e questo lo destabilizzò immediatamente, «per questo non riesco a seguirti»
Jimin sciolse la posizione e irrigidì le spalle, mandando all'aria la coreografia: «Distante? Non venirmi a dire come fare bene il mio lavoro Morgan» la sovrastò da molto vicino e lei, seppur mangiata dal timore, deglutì puntando gli occhi sul collo irrigidito e tornito di muscoli.
«Non ti sto dicendo come fare il tuo lavoro»
«Davvero?» la voce si accartocciò nel sarcasmo, «perché a me sembra di sì. Se non sai prendere le correzioni con maturità non é un problema mio. Ma se fai l'arrogante con me il problema diventa di entrambi»
«Non ho detto nulla di male...» sussurrò a bassa voce. Era quasi impossibile che potesse sentirla e questo gli fece salire il sangue alla testa. «Voce! Alza quella cazzo di voce e te l'ho detto, Ray!» l'aveva chiamata per nome, per la prima volta, mentre la mangiava con gli occhi in modo rabbioso, «Mille volte. Te l'ho detto mille volte di affrontarmi e guardarmi in faccia»
«E come?» sentì la voce tremare, alzò gli occhi mostrando un turbinio di insicurezze, «come pretendi che lo faccia se tu alzi un muro tra me e te!?»
Lo sguardo sicuro di Jimin vacillò, sentì l'ennesimo guizzo appuntito che puntellava il suo petto, ovvero il cuore di ghiaccio, come un promemoria. Succedeva ogni volta che incontrava le sue tristi iridi vivide e castane, liquide da ricordare il miele e i boschi del Wisconsin. Ma lui non aveva mai visto il Wisconsin, eppure sentiva di percepire, attraverso quegli specchi, i boschi di aghifoglie verdi; l'odore dei laghi; le notti buie in mezzo ai campi di grano a guardare un infinito di stelle; le fiere del raccolto; fino a vedere una bambina di Black Well che voleva ballare nonostante il mondo le remasse contro.
Quella bambina era Ray Morgan. Quella era la città natale di Ray Morgan. E lui si era immaginato tutto questo da un solo sguardo?
Si spaventò così tanto, dentro di lui, da fare un passo indietro: «Impara a saper lavorare con quello che hai. Io ho da offrirti questo, quindi fattelo bastare» deglutì, col respiro appesantito.
«Tu scappi. Stai scappando, ti tieni lontano da me e se lo fai non mi rendi le cose facili, sappi che lavorare con Park Jimin non é facile» ammise andandogli incontro come aveva fatto lui poco prima. Jimin indurì lo sguardo: «Io non scappo. Sto spendendo il mio tempo qui con te a eseguire un compito che nemmeno mi piace» cercò di attaccarla, «e quella che si sta lamentando per qualsiasi cosa sei tu»
Ray sbarrò gli occhi: «Assolutamente no! Non mi sto lamentando!»
«Hai detto che lavorare con "Park Jimin" non facile» uscì la sua parte permalosa, «ah si!? Allora fatti un tour nella mia vecchia accademia coreana e poi torna qui a dirmi cosa non é veramente facile. Cresci un po' Morgan, hai visto dove poggiano le tue punte?» puntò lo sguardo a terra insieme a quello confuso di lei, «qui hanno ballato facoltosi ballerini come Alessandra Ferri, Lucia Chase, Roberto Bolle, Michel Fokine e altri, che solo a pronunciare il nome mi si accappona la pelle, é un suolo dove solo pochi eletti in questo fottuto mondo possono ammirare da lontano e tu ci stai addirittura lavorando»
Ray fu costretta a deglutire; era di nuovo riuscito a rigirare il ricorso e farla cadere nel torto. Jimin aveva un evidente problema con lei, ben diverso da quello con Nora Smith, la teneva distante e non cercava nemmeno di creare un rapporto pacifico. Eppure, ora era lei quella che passava per ingrata e lamentosa.
«Mi correggo: lamentando. Come fai da quando sei arrivata qui»
«Smettila...» chiuse gli occhi con la testa che le girava, «non mi sono mai lamentata di niente»
«Lo fanno i tuoi occhi. Lo dice anche il tuo corpo. E balli, a volte, come se qualcuno ti abbia presa, portata qui e costretto a farlo. Se non sei abituata alla cose difficili non é il tuo posto» é un pensiero che ha da sempre avuto in testa. «Perché c'è qualcun altro là fuori, in posti sperduti da Dio, che si allena giorno e notte per toccare questo suolo e lavorare con gente difficile come me»
Ray cercò di respirare e affrontare, parola per parola, quella grossa valanga di giudizio colata a picco fin sotto il mento. Si artigliò le braccia con le unghie, in un finto abbraccio, mostrandosi affranta.
«Lavorare con te...» sussurrò con la voce leggermente rotta, «non é difficile Jimin» si sentiva scoperta, rivestita da una secchiata d'acqua gelida, «mi dispiace se ho offeso il tuo onore da ballerino» cercò di non mostrargli gli occhi lucidi per quanto fosse possibile. Con lo sguardo abbassato riusciva a vedere solamente le punte di Jimin, «e mi dispiace altrettanto se il mio atteggiamento non corre a pari passo con le mie intenzioni. Mi dispiace se sembro così lamentosa quando l'unica cosa a cui penso in realtà é a come...»
Jimin sussultò. Si era calmato e la guardava in attesa, cercando di ignorare il fastidio sul petto.
«Come?...»
Tirò su col naso, vergognandosi come non mai: «A come non deludere gli altri. I miei colleghi. I miei maestri. La mia famiglia. La danza...» una lacrima scivolò giù nonostante tutti i suoi sforzi di trattenere ogni goccia per sé, «e me stessa. Io non voglio deludere nessuno e cerco di fare il massimo» ma qualcosa ti trattiene, perché sai fare molto meglio — Jimin pensò immediatamente, perché ha visto passione durante la riproduzione del cigno nero, come l'ha vista durante il tango.
Ma era tutto il resto che faceva fare marcia indietro alla ragazza del Wisconsin, portando l'etoile a perdere le speranze con una spia a intermittenza come Ray Morgan. Aveva un talento inaffidabile e se si trovava a elogiarla per un allegro fatto bene, i giorni dopo molto probabilmente avrebbe sbagliato tutto ancora una volta.
Poi, tutto a un tratto, le guance della giovane divennero calde e rosate come un timido tramonto d'inverno, di quelli che amavano nascondersi dietro alle giornate corte e alle nuvole gonfie di neve in alta quota.
«Anche tu...» emise febbrile. Si morse le labbra, spazzandosi via quella singola lacrima col pollice, «fai parte di quelli che non voglio deludere»
Jimin si ritrovò a schiudere la bocca senza più capire niente. La testa si fece leggera e un leggero tremolio intercostale si palesò al suo interno, dallo stomaco al petto, con una risonanza calda e sconvolgente. Era una sensazione quasi gradevole e, sorprendentemente, piacevole.
«Morgan...» iniziò, facendo un paio di passi verso di lei e senza staccare gli occhi dai suoi. Non capiva che cosa stava accadendo, gli stava piacendo e dando sollievo al cuore. Ma non fosse altro dopo il suo nome perché venne interrotto da un finto applauso che rimbombò in modo secco dalla porta.
Entrambi si girarono allarmati, videro la magra silhouette di Katherine Walls, in piedi, sotto lo stipite della porta e con un mezzo sorriso sul viso.
«Commovente...» si tolse gli occhiali per pulirsi le lenti con un fazzoletto, «se Don José e Carmen fossero stati due semplici innamorati e non degli idioti psicopatici, problematici e interpretati in un musical, il posto l'avrei assegnato immediatamente a voi due. Ma ahimè si tratta di un balletto drammatico» rimise il fazzoletto in tasca e posizionò gli occhiali sul ponte del naso leggermente ad aquilino, «e per quello non siete ancora pronti»
I due si divisero immediatamente — anche se non si stavano minimamente toccando — mettendo tra di loro altri metri di distanza. «Maestra...» sussurrò sconvolta Ray, imbarazzata e senza parole, «da quanto é lì?»
«Signora Walls» Jimin la salutò con un leggero inchino col capo, com'era solito a fare, ma la maître ruotò gli occhi al cielo davanti alle troppe lusinghe. «Santo cielo, Jimin, queste carinerie lasciale per le povere sventurate alle quali spezzi i cuori lungo il tuo cammino, una vecchia come me non se ne fa niente» esordisce ironica, nascondendo un sorrisino ricordando le sue povere allieve dell'Accademia che morivano ogni volta che l'etoile veniva a trovarla.
Ma lui, a parte un sorriso educato, non degnava altro.
Jimin scosse la testa sconsolato: «A quale piacere devo la sua visita?» mise le mani sui fianchi sospirando. La maître camminò verso di loro e si guardò intorno, dedicando occhiate qua e là per scrutare il loro "campo da battaglia".
«Che domande...» brontolò afferrando la sedia usata da Don José per sedersi lentamente, «per vedere come procedono i lavori e...» sospirò affranta, «da quel che ho visto poco fa, non siete minimamente credibili» e scorse immediatamente l'occhiata delusa di Ray Morgan dal suo angolino seminascosto.
«Signorina Morgan, sta facendo come le ho detto?» domandò a un tratto e lei, dopo che guardò sconsolata Park Jimin, annuì angosciata. «Ci stiamo lavorando...»
«É così?» questa volta si rivolse al suo figlio prediletto che, con le braccia incrociate al petto e una faccia imbronciata, tentennò. «Katherine...»
«Oh no! Non ci provare...» lo maledisse a bassa voce, «quando mi chiami per nome mi porti solo cattive notizie. Qual é il problema Jimin?»
Park Jimin deglutì e lanciò una breve occhiata a Ray: quello che avrebbe detto a breve non le sarebbe piaciuto per niente, ma era inevitabile. «Non siamo compatibili. Non siamo pronti e...» si morse le labbra frustrato, «Morgan é ancora troppo insicura per affrontare Carmen» Ray ci restò inevitabilmente male; tirò fuori un'espressione sorpresa e sconvolta da lasciarla senza parole: credeva di aver fatto almeno progressi per essere migliore.
Per essere la migliore e avere una possibile opportunità per interpretare Carmen. Ma poi, pensandoci ora, in quella stanza e nascosti da Janssens, si chiedeva se veramente ne valesse la pena subire tutto questo.
Katherine si limitò in primo luogo ad ascoltare, si grattò il mento guardando un punto fisso verso il basso. «E dimmi un po', gli esercizi per abituare Ray alla sensualità del personaggio sono gli stessi che stavate usando ora per il pass de duex? No, ancora meglio, per le vostre discussioni?» chiese e guardò Jimin con uno strano guizzo ironico, «perché, in tal caso, avrei da ridire su molte cose»
Park Jimin esalò un lungo respiro per stare calmo; pensò a cose che gli davano pace, ben lontane dalla sua maître e i suoi disaccordi a proposito del metodo di lavoro affrontato con Ray.
«Ci stiamo lavorando, proprio come ha detto Morgan poco fa» allargò le braccia con fare disperato, «a questo punto mi dica lei dove sto sbagliando. Cosa vede che io non riesco a cogliere?» chiese con una nota abbastanza arrabbiata.
Ma Katherine stupì entrambi, prima con un leggero risolino, mentre accavallava le gambe sulla sedia, poi con quello che aveva da dire: «Vuoi sapere cosa vedo? Cosa ho visto e che ti sfugge?»
«Sì» rispose seccato e stufo di perdere tempo.
«Quello che voi due sprigionate quando siete assieme é tanto e voluttuoso sesso» disse scioltamente, facendoli interdire, «un pò timido e tiepido, ma c'è un'interessante chimica sessuale e questo, che a voi due piaccia o no...» lo mise alle strette, «é inconfutabile»
Ray sentì le gambe tremare appena sentì quell'appunto, costretta addirittura a guardare per terra e nascondere le guance viola dai quattro occhi viaggianti per la stanza. Poi non aveva il coraggio di guardare Jimin negli occhi dopo un commento del genere: il sesso, come l'intesa sessuale, era un tabù intimo e sporco per lei. Non riusciva a comprendere certi lati a causa del suo inconscio complicato.
Mentre Jimin cercò di non pensare minimamente al sesso, né a loro due appiccati come nel tango o a rotolarsi in un letto a caso. Troppo tardi — avrebbe voluto schiaffeggiarsi — pensare di scoparsi una come Ray Morgan voleva dire farsi un peluche con la paura della sua stessa ombra, ragazze del genere non le guardava nemmeno: com'era possibile che Katherine Walls vedesse quelle cose tra di loro?
«Katherine...» Jimin cercò di sforzare un sorriso, anche se sembrava uno psicopatico con quelle finte fossette, «senza mancarle di rispetto o screditare i suoi storici metodi di giudizio, ma credo che abbia ben frainteso la strana tensione che vede tra me e Morgan, quando balliamo, con il nulla» indicò entrambi, «perché se fosse come dice lei, a quest'ora dovremmo essere già sulla lista di Jansens con i nomi appesi sull'atrio»
Questa volta la maître scoppio a ridere, così forte da portare la testa all'indietro. Questo portò Ray ad alzare lo sguardo e cogliere Katherine a intercettala: «E lei, signorina Morgan?»
«Io- Io cosa?»
«Anche lei pensa questo?» raddrizzò gli occhiali, «é d'accordo con Jimin?»
Tutti guardarono lei. Non aveva osservato ma ascoltato sì, anche molto attentamente. «Non credo che io abbia molta voce in capitolo» disse timida ed educata, «anche se pensassi il contrario, non sarebbe importante» meditò su, dopo l'intensa conversazione avuta poco prima con Jimin, «io sono qui per lavorare... e fare del mio meglio» e quella risposta, seppur l'ennesimo scarica barile, fece arricciare le labbra dell'etoile in un piccolo sorriso.
Persino Katheirne assottigliò lo sguardo con un sorriso ironico sulla faccia. «Non la facevo così stacanovista» e Ray colse quella frase come una battuta. Arrossì e balbettò: «Cerco solo di non lamentarmi troppo...» non era permalosa come Park Jimin, ma anche lei aveva un bel potenziale.
L'altro, di fatto, ruotò gli occhi al cielo cogliendo benissimo la frecciatina. Ma qui, colei che reggeva arco e frecce era solo una, ed era seduta su quella benedetta sedia.
«Quindi non contesti, come non ti mostri in accordo, sul fatto che tra di voi ci sia una profonda connessione fisica. Ti astieni» si alzò, mise le mani dietro la schiena e iniziò a girare, lentamente, intorno a Ray per osservarla bene. Quest'ultima annuì esitando. «E...» nascose un sorriso sotto i baffi, «non contesterai ugualmente, medesima cosa in accordo, se mai dovessi sostenere che tra di voi, il problema più grosso, non é la chimica. Né il feeling fisico» questa volta ebbe l'attenzione anche di Park Jimin, «ma si tratta delle vostre controversie mentali»
Il loro problema era una semplice antipatia?
Jimin si fece scappare una risata derisoria e si passò una mano tra i capelli incredulo: questa era una stronzata bella e buona, grossa quanto il suo nervosismo. Katherine lo fulminò appena: «La cosa non ti convince?»
«Mi dispiace ma no: mi sta dicendo che ciò che ci limita nella nostra partnership é l'incompatibilità mentale, quando l'unica cosa che conta é come usare i piedi, il tempo e la tecnica» sbottò facendole vedere il suo punto di vista, «ho ballato con tante ballerine e ballerini avendo problemi ben peggiori di un'antipatia quindi no, non sono d'accordo con lei»
Katherine corrucciò le sopracciglia e lo guardò dritto negli occhi in silenzio. Riprese poco dopo: «Sei un grande ballerino Jimin, quasi sicuramente verrai ricordato nella storia della danza classica, a differenza mia. Ma, se mi permetti, lascia che i miei quasi trent'anni di carriera come maître abbiano una base così solida da riuscire a cogliere i problemi dei miei ragazzi in un batter d'occhio. Voi due avete tutto: forza, bellezza, passione e la tecnica può essere migliorata, ma siete privi di intesa» lo rimise a posto immediatamente.
Continuò poi: «Cinque minuti qua dentro e mi sono bastati per vedere che non solo non andate d'accordo, ma vi evitate in un modo e chi nell'altro, perdendo tempo prezioso a gettare il dito su chi
fa peggio» si pressò due dita ai lati del naso, massaggiandosi il ponte, «insieme siete comunque meglio della partnership con Nora, avete un potenziale che neanche immaginate ma così non andiamo avanti» e, indirettamente, si ritrovò a dare ragione su quello che aveva detto Ray a proposito della distanza di Jimin.
Stava inalzando un muro, aggiungeva un mattone ogni volta che lavorava con lei e non rendeva le cose facili.
«Mi sta dicendo che devo sforzarmi di fare gossip e chiacchiere con la mia collega?» ribatté sarcastico e ancora più incredulo: la sua maître era fuori di testa.
Katherine ruotò gli occhi al cielo: era proprio un osso duro. «No» brontolò terminando di camminare proprio davanti a lui, si mise composta e lo fronteggiò, «dico solo che come la signorina Morgan si stia impegnando per essere una ballerina migliore e di adoprarsi con i suoi limiti sulla sensualità, anche tu dovresti cercare di andargli incontro»
Jimin si irrigidì come un pezzo di marmo. Strinse la mascella e indurì lo sguardo. «Ho accettato di aiutarla e così facendo lei fa la stessa cosa con il pass de duex. Se pensa che questo, per me, non sia già uno sforzo immane si sbaglia di grosso perché non concedo il mio tempo a nessuno»
La più anziana colse il suo sdegno, mischiato a un nervosismo molto accentuato e, probabilmente, il giovane si sentiva così perché pensava che lo stessero additando come un ingrato. O peggio, un fannullone quando in realtà aveva accettato di fare una cosa che andava contro se stesso.
Di sua spontanea volontà non avrebbe mai proposto di aiutare una mina vagante come Ray Morgan, forse per nessuno se non per un vero amico come Igor Kuznetsov.
«Non discuto questo» lo guardò con serietà, anche con un pizzico di maternità, «Sei uno che lavora tanto e lo hai sempre fatto, Jimin. Quello che voglio dire é... provaci. Non ti allontanare e non avere paura di costruire un rapporto che va oltre alla danza, ma che sia qualcosa di umano» guardò entrambi volutamente, «In voi vedo l'unica speranza che ha l'ABT per salvarsi da un'altra pessima stagione. Se Janssens si ritroverà costretto a nominare Nora Smith come solista principale... falliremo, non avremo più finanziamenti da nessuno e forse saremo costretti a regredire di grado o...» sussurrò, «a chiudere i battenti»
A Ray vennero i brividi: «Ma non é impossibile? Voglio dire... ci sono ballerini famosi qui dentro» e Jimin era uno di questi.
«I ballerini si spostano Ray» si permise di chiamarla per nome arrivati a questa confidenza, «terminato un contratto non sono legati a nessuno e sarebbero stupidi a rimanere qui se le cose precipitano. Per uno come Jimin non sarebbe un problema, ha precedenti rapporti con la Royal e l'Opera di Parigi, potrebbe tornare da loro così come i veterani» e cercò, seppur a tentoni e rammaricata, di fare un sorriso, «mentre ballerine come te saranno costrette a tornarsene a casa. Anche noi maître probabilmente...» sussurrò alla fine.
Ma cercò di darsi un contegno, senza mostrarsi debole o preoccupata per il suo posto di lavoro: «Per questo ringrazio Jimin che è qui con noi, seppur consapevole di tutti i problemi in atto, significa che la sua morale va oltre ai soldi»
Hai voluto darci una mano — gli disse con gli occhi, e non potevi farci un regalo più grande di questo.
Jimin lo colse e fece un inchino col capo. «Ho fatto ciò che ritenevo giusto, tutto qui» e persino Ray lo guardò con occhi diversi, da un lato lo ammirava quando non faceva lo stronzo e si mostrava per com'era davvero.
«E qua dentro lo sanno tutti e ti sono debitori» spiegò ancora, «abbiamo bisogno di te. Di questa possibile partnership con l'unica che forse é in grado di risaltare una Carmen mai vista prima di allora. Janssens ha grandissimi progetti, ma voi due...» si morse le labbra frustrata, «dovete andare d'accordo»
Jimin guardò Ray, lei fece altrettanto, sentendo sulle spalle di entrambi un peso ancora più cupo e tornito; per Ray era la prima volta che qualcuno le dicesse le cose come stavano realmente. Jimin, a differenza sua, non si mostrò sorpreso e le diede modo di confermare una delle sue tante teorie.
Lui sapeva già tutto, ed era ancora lì con loro. Chi altro lo avrebbe fatto, arrivato al suo evidente successo?
Park Jimin si arrese, rilasciò un lunghissimo e rumoroso sospiro mentre puntava la lingua contro la guancia. «Cosa vuole che facciamo?»
Katherine Walls, senza troppi fronzoli e giri di parole, arrivò al dunque.
«Uscite insieme» sparò come un colpo di un proiettile, «credo che una bella boccata d'aria, insieme, vi possa fare bene» e, nella sua compostezza mentre si godeva le facce orrendamente sbalordite di entrambi, ghignò.
«Anzi, perché non una cena?»
𝘚𝘪𝘯𝘧𝘰𝘯𝘪𝘢 𝘯. 5 𝘪𝘯 𝘥𝘰 𝘮𝘪𝘯𝘰𝘳𝘦 𝘖𝘱. 67:
𝘓𝘶𝘥𝘸𝘪𝘨 𝘷𝘢𝘯 𝘉𝘦𝘦𝘵𝘩𝘰𝘷𝘦𝘯
—————
Hello❤️
Dopo tanto tempo, tra festività e l'influenza con febbre a 40 sono riuscita a portarvi questa chicca.
- Iniziamo immediatamente con la famiglia Smith: uno peggio dell'altro. Il marito è colui che ha i soldi ma è Beverly che li muove, e finalmente abbiamo conosciuto un altro personaggio importantissimo, ovvero Victoria Smith.
- Non dirò molto su di lei, per evitare di farci troppi indizi ma i vostri pareri a riguardo?
- Mentre Nora è tutto suo padre, soffre per la mancanza di carattere e per quanto lei si lagni della sua pessima vita, dall'altra se la fa andare bene perché essere una Smith può essere vantaggioso oltre all'inferno stesso. Io rimango imparziale, quindi lascio a voi i commenti.
- Ho lascato molti indizi in questa conversazione di famiglia, chissà chi li coglierà 👀
-Passiamo alla seconda parte: Ray e Jimin. Vi ho lasciato con un tango focoso e li ritroviamo nervosi e distanti. ATTENZIONE, Jimin prende le prime distanze da lei e non le rende le cose facile. Il perché si allontana ve lo devo spiegare o si intuisce dal suo cuore che si sta sgelando?👀
- Katherine, mia madre, mia nonna, mia zia, mia padre. Lei boh, con i contro coglioni. Quando fa il discorso a Jimin sulla compatibilità mentale non è una stronzata, come lo è anche il fatto che una coppia non deve per forza andare d'accordo. Ma tra di loro, oltre alla chimica sessuale, il feeling mentale è importante perché Katherine ha già intravisto delle emozioni. È normale che alcuni ballerini non si sopportino, ma c'è una grossa volontà d'importanza tra Jimin e Ray.
Si cercano e si respingono senza il loro controllo.
- E secondo voi, usciranno davvero?👀
Fatemi sapere e alla prossima❤️❤️
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