𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟒: 𝐋𝐀𝐃𝐈𝐄𝐒 𝐀𝐍𝐃 𝐆𝐄𝐍𝐓𝐋𝐄𝐌𝐄𝐍, 𝐖𝐄'𝐕𝐄 𝐃𝐎𝐍𝐄 𝐈𝐓!
𝘑𝘰𝘩𝘢𝘯𝘯 𝘚𝘦𝘣𝘢𝘴𝘵𝘪𝘢𝘯 𝘉𝘢𝘤𝘩:
𝘐𝘯𝘷𝘦𝘯𝘵𝘪𝘰𝘯 𝘕𝘰. 4 𝘐𝘯 𝘋 𝘔𝘪𝘯𝘰𝘳, 𝘉𝘸𝘷 775
L'aria notturna non si fece scrupoli nel graffiare le gote color porpora della ragazza del Wisconsin; doveva essere abituata a quel tipo di clima, il freddo dell'autunno mischiato all'arrivo dell'inverno, sembrava identico a quello della contea di Forest. Nonostante i grattacieli, le luminarie appena agghindate con anticipo per il Natale — perché sì, gli americani dovevano essere i primi in tutto —, le strade a sei corsie e le grandi vetrine riposte in ogni angolo della grande mela, il freddo gli ricordava lo stesso casa sua.
Mancava il verde foresta di Blackwell ritagliato dalla finestra di camera sua; gli alberi rigogliosi, l'odore di grano sparso e perduto dalle mietritrebbie, i bambini in bicicletta nei quartieri a senso unico e le serate nell'unico diner presente della cittadina. Un punto d'incontro tipico del sabato sera e per le nuove conquiste della squadra di football del liceo; Ray non poteva di certo dimenticarsi dello storico posto che l'aveva accompagnata nell'unico sgarro settimanale per più di quattro anni.
Con gli occhi gocciolanti ed emozionati e immune ai più deleteri sensi di colpa, dove la sua mente cercava di astenerla dai grassi e dalle calorie, si gustava la sua cena in tranquillità. Erano le calde serate d'inverno che creavano la condensa sul vetro del diner a farla felice, ben consapevole che la sua alimentazione fosse sbagliata per il suo lavoro. Ma era sabato sera. Mangiava sano sette giorni su sette da quando sua madre l'aveva portata all'accademia di Madison: le uniche proteine che riconosceva erano quelle di carne bianca, servite con contorni di verdure miste.
Era sabato sera e, anche se era sola in quel diner la maggior parte delle volte, andava bene.
Era sabato sera, il resto rimaneva un flusso ordinario.
La danza, assieme ai suoi lati di luce e ombra, non esisteva il sabato sera. Perciò la vergogna si assopiva mentre si gustava la sua deep chocolate cake a tre strati, con tanta panna sopra e un frappé alla ciliegia accanto al piatto. Nonostante la solitudine, nulla al mondo avrebbe cancellato quella routine.
Quello era un posto sicuro e unico a Blackwell, ma dannazione New York aveva un diner del genere a un'ogni street e avenue dell'isola, perciò sentiva che la magia non sarebbe stata la stessa di quella avvertita nel Wisconsin. Fanculo — era tutta psicologia del cazzo, era sola come allora quindi che cosa cambiava?
Forse l'idea del nuovo, o di trovarsi ancora più sola in una metropoli che neanche aveva premura di conoscere con la volontà di viverci in pace. O addirittura pensava che il cibo lì fosse troppo unto e continentale per colpa del gran turismo. Ma erano solo altre stronzate le sue: la verità era che si sentiva di nuovo sola mentre aveva ormai bypassato la paura della solitudine durante la sua adolescenza a Blackwell.
Perché era tornata a vivere con certi pensieri? E perché stava rinunciando alla sua cena nel diner, con la sensazione che sarebbe scoppiata a piangere davanti allo sguardo apatico della cameriera con in mano dei pancakes?
Credi che una cameriera abbia voglia giudicarti? — domandò a se stessa, in realtà non gliene frega un cazzo, vorrebbe solamente che ti ficcassi un pancake in gola per farle finire alla svelta il turno e tornare a casa.
Quello che dovrebbe fare lei: ovvero tornare al suo dormitorio condiviso e passare il sabato sera a dormire, davanti a qualche serie tv del 2005 su Netflix. Al massimo avrebbe ordinato un cheeseburger e patatine d'asporto, l'importante era fomentare quella giornata e le parole assassine e crude di Jimin.
Park Jimin, da quel poco che aveva visto al di fuori dei soliti tabloid, sembrava indistruttibile, più di tutti gli stronzi e le stronze che aveva conosciuto nell'arduo percorso della danza: come si poteva abbattere o respingere uno dei massimali di perfezione artistica? La sua forza mentale era stata così opprimente, poco fa, da non averle concesso nemmeno un margine di salvezza.
Sospirò e, con il mento nascosto in una delle sue tante sciarpe colorate intorno al collo, aprì la porta del dormitorio con eccessiva stanchezza. Alzò gli occhi e sentì le numerose risate di Rachel Hall mentre se ne stava mezza nuda davanti allo specchio; dal vestitino che cercava di immaginarsi addosso spuntava un ginocchio e girò a destra e a sinistra con una smorfia.
«Mi fa il culo grosso!» sbraitò contro Nora; la mora si era già vestita con un pantalone bianco aderente e un top senza spalline. Ascoltò Rachel annoiata: «Hai detto la stessa cosa anche di quello prima. Di quello prima ancora. E via dicendo!»
«Allora é proprio un dato di fatto!» si toccò le chiappe facendo cadere il vestito per terra, «É grosso!»
«Rachel! Per l'amore di Dio—» si interruppe quando sentì la porta chiudersi per poi spuntare Ray coperta da un giaccone più grosso di lei, «Oh, ciao Ray!» la salutò.
«Ray!» Rachel le si avvicinò preoccupata, «Stai bene!? Sei stanca? E pensi anche tu che io abbia il culo sformato?» domandò girandosi e mostrando il lato B stretto in uno slip nero.
«Ehi! Che diavolo vuol dire "anche tu"!? Io non ho mai detto che hai il culo sformato!» esordì Nora alzandosi per fronteggiarla. «La tua bocca no! Ma i tuoi occhi parlano tanto Smith e stanno giudicando le polpette che mi sono mangiata di nascosto a mensa» mise le palpebre in due fessure per sfidarla dal basso.
«Se lo sai allora perché te le sei mangiate lo stesso, sapendo che non potevi!? Vedi!? Dopo ti lamenti!»
Ray emise un risolino e si tolse la sciarpa. «Sto meglio. Avevo bisogno di starmene un po' per conto mio» rispose alla prima domanda con l'intento di rilassare gli animi. Le due smisero di azzuffarsi con gli sguardi e tornarono a guardarla per capire se stesse dicendo la verità.
Okay che si erano appena conosciute e il loro lavoro urlava competizione e sabotaggio dal primo giorno in cui si metteva piede in compagnia, ma erano pur sempre umane — più di Judite Dixon di sicuro — e si sentirono obbligate a chiederle come stesse dopo una giornata del genere.
«Lo capisco. Lavorare con Jimin non é facile» tentò di rassicurala Nora, «ma questa era solamente una giornata no, non preoccuparti» Ray cercò di sforzarsi a fare un sorriso di rassicurazione ma fallì già al primo tentativo. «No, cioè... Non ce l'ho così tanto con lui in realtà, dopotutto so che ha ragione»
Rachel si mise le mani sui fianchi e cacciò un'espressione accigliata: «Eh? Stai dicendo che ha avuto ragione a trattarti in malo modo davanti a tutta la classe, suggerendoti tra l'altro di andartene?» sussultò continuando, «stai scherzando vero?»
Ray si stese sul letto e chiuse brevemente gli occhi per distogliere lo sguardo dal soffitto imbiancato. Sospirò: «Ha avuto ragione su altre cose. Deve aver capito che mentivo quando gli ho detto che il mio meglio si limitava a quella stupida diagonale. Prima di lui, quella arrabbiata di più con se stessa, ero io»
Nora la fissò attenta e si fece un po' confusa: «Come pensi che l'abbia capito? Mi sembrava troppo innervosito per essere lucido» Anche Rachel Hall annuì in accordo dopo essersi fatta la stessa domanda. «Si é limitato a dirti di andartene e a prenderti per il culo tirando in mezzo Judite Dixon, quindi quando l'avrebbe fatto?»
Ray spalancò gli occhi e realizzò di aver detto fin troppo; quei fouettés nascosti erano un ricongiungimento privato col suo passato, per quanto potesse essere assurdo volerselo tenere per sé — come se ci fosse qualcosa di male —, era un lato che doveva rimanere sconosciuto. Così come i suoi pensieri e le insicurezze insinuate nel suo cervello.
E come avrebbe spiegato a loro due quella conversazione fantascientifica avvenuta tra lei e Jimin?
«Io... l'ho intenso così» mentì, «ho pensato che fosse troppo crudele per dirmi quelle cose senza avere alcun rimorso. Prima di essere il galoppino della maître rimane un nostro compagno» nemmeno Ray ci credeva troppo a quello che aveva appena fatto uscire dalla bocca.
Di fatti, Nora, non la pensava esattamente così dal momento in cui le sue labbra lucide di arricciarono senza controllo.
«Non vorrei che ti facessi un'idea sbagliata su chi é Park Jimin nella vita reale. É un ballerino straordinario che ha fatto carriera molto velocemente, ma é perfetto fuori tanto quanto é imperfetto all'interno. Non fatevi ingannare dalla luce che sprigiona quando balla» disse severa, rivolgendosi a entrambe, «perché in realtà non ha emozioni. É un grosso guscio vuoto al quale non importa recidere la carriera di un ballerino col suo fare saccente e non si fa scrupoli a urlarti, con tranquillità, quanto tu faccia schifo. Anche senza farti parlare. Jimin vive solo per se stesso da quando—» si interruppe.
Non si era accorta di essere priva di fiato e arrabbiata con il nulla. Le altre due si erano immobilizzate e sedute con una strana sensazione di mistero addosso: la curiosità uccideva così tanto e Nora Smith sembrava conoscere quell'etoile fin troppo bene.
«Da quando?» chiese Rachel chiedendole di continuare. Ma Nora scosse la testa e fece un paio di respiri per tranquillizzarsi. «Lasciate perdere, é una vecchia storia di cui non mi va di parlare» chiuse il discorso così, alzandosi. «Vado a finire di truccarmi in bagno» sviò per sua volontà, «perché Ray non vieni con noi questa sera?»
Ray schiuse la bocca e sussultò inaspettata. Nora le fece un occhiolino prima di sparire in bagno mentre Rachel, persa per in fatti suoi, annuì distratta.
«Giusto. Esci con noi»
Ray si morsicò le labbra: «Non vorrei darvi noia o farmi gli affari vostri. Posso stare anche qui da sola, per me non é un problema» disse sincera.
Rachel raccolse il vestito da terra e lo indossò. «Non te l'avrei nemmeno chiesto se fossi stata un tipo da darmi noia, fidati. É sabato sera Ray, non esiste che stai chiusa qua dentro quando per noi ballerine il tempo libero é prezioso, non devi dimenticarlo» le ricordò con un sorriso malizioso dopo che la sua testa sbucò dal tessuto, «E poi é un'uscita segreta tra ballerini»
La mora coi codini fece incontrare le sopracciglia in una linea retta, pronunciata dalla confusione: «In che senso?»
«Significa che ci saranno anche le altre con noi e non solo» si morse le labbra eccitata guardandosi allo specchio, «ma anche alcuni ragazzi della compagnia, così finalmente avrai l'opportunità di conoscere un po' di testosterone» a quella scoperta Ray si immobilizzò e si oppose immediatamente.
«Assolutamente no! Io—»
«Little Ray, rilassati! So già cosa stai pensando e no, Park Jimin non ci sarà e nemmeno la sua cerchia d'élite, quindi goditi la serata e fatti un drink. Anche io li conosco da poco ma molti sono alla mano, per quanto egocentrici siano di base i ballerini nella danza» e questa volta Ray sembrò pensarci un po', soffermandosi su che cosa avrebbe fatto sua sorella al posto suo. O consigliato.
Ci stai pensando davvero? — le avrebbe risposto.
«Non lo so, non vorrei passare tutta la domenica a dormire ed essere uno straccio il lunedì» mormorò preoccupata ma Rachel si premurò immediatamente di rassicurarla. «Ti do la mia parola che non faremo tardi. Tu dimmi quando vuoi andartene e ti riporterò a casa»
«Anche se questo significa rovinarti la serata?» la interrogò dubbiosa. Rachel annuì con nonchalance: «Certo, perché so già che ti divertirai al punto da non voler andartene» rispose con un ghigno.
Questa volta Ray capì dove voleva arrivare la riccia e non poté che ridacchiare per la presunzione. «Come potrei divertirmi quando tutta la nostra classe mi deride alle spalle?» domandò lecita e testarda.
«Non prenderla così tanto sul personale, quando gli altri gioiscono per le disgrazie altrui confermano solamente le loro profonde insicurezze. Tendi a sminuire il tuo valore e questo, per chi é insicuro, piace. Quindi ti chiedo di uscire con noi e mandare al diavolo quelle stronze, per favore» allungò un sorriso tirato fino agli occhi per cercare di convincerla e Ray annuì titubante.
«Okay. Ci sto» adocchiò il costoso e delicato vestito di Rachel con forte dubbio, «Non ho vestiti come quello e il mio genere é un po' strano, c'è un dress code?»
Rachel schioccò la lingua al palato, si mise le braccia sul seno e le incrociò: «Ragazza del Wisconsin per chi mi hai presa? Certo, siamo New York, ma non in una puntata di Gossip Girl quindi abbattiamo questi ripetitivi stereotipi» le lanciò un occhiolino e continuò prendendo una pinza per capelli. «Puoi venire anche in tuta. Basta che vieni»
Se da un lato fu contenta nel sapere che sarebbe potuta andare con i suoi soliti vestiti, eliminando ogni traccia di stupidi dress code, dall'altro accettò di uscire quasi a malincuore: dentro di lei sapeva che quel sabato sera non sarebbe stato uguale a quelli consumati a Blackwell nel suo diner preferito. Ma in un pub qualunque, con ballerine che avrebbero giudicato gli zuccheri del suo cibo o commentato, avidamente alle spalle, quanto fosse impedita nel suo lavoro.
Quindi, con finto coraggio e poca voglia, aprì il suo armadio e temporeggiò con la mente in cerca di qualche vestito quasi normale. Nel spostare qualche gruccia a Ray tornò in mente la conversazione di poco fa, a proposito di Nora e Park Jimin.
Girò le spalle e con un sussurrò la chiamò: «Ehi, Rachel»
«Sì?» mormorò lei con le labbra schiuse e le ciglia arricciate dal mascara mentre si guardava allo specchio.
«Tu...» si morse il labbro inferiore titubante, «Non ti sembra un po' strana la situazione tra Nora e Park Jimin?» domandò liberandosi di un peso. Rachel si fermò con il pennello sotto gli occhi, posò uno sguardo incerto sul suo riflesso e rifletté. «Sì. Lo é decisamente»
«E immagino che nemmeno tu sappia qualcosa a riguardo, o il perché sembra esserci tanto...»
«Astio?» completò al posto suo. Ray annuì lentamente, consapevole del terreno di guerra nel quale si stava inoltrando in modo ficcanaso.
Rachel sospirò togliendosi di dosso lo specchietto per ficcarlo in borsa: «Non so che dirti» abbassò la voce non appena sentì Nora canticchiare nel bagno, «Siamo amiche da anni ma non mi ha mai voluto raccontare niente a proposito di lui. O di quello che é successo in passato. So che si conoscevano ma nient'altro» disse con voce leggermente afflitta. Il fatto che Nora Smith si tenesse tutto per sé doveva in qualche modo pesarle molto.
«Capisco» mormorò la nuova arrivata abbassando gli occhi verso il basso, «Pensavo che fossero ex fidanzati o una cosa del genere»
Rachel la guardò con un sogghigno amaro: «Mentirei se ti dicessi che non l'ho pensato anche io. Quando si tratta dei fatti suoi Nora non é mai molto loquace e continuo a chiedermelo spesso, ma poi capisco che é una sua scelta. Questo tipo di vita, più l'ambiente appariscente nel quale é nata, l'hanno portata saggiamente a tenersi dettagli importanti per sé» e Ray capì subito il perché di quella scelta.
Perché anche il minimo scandalo poteva incriminare il percorso artistico di una giovane ballerina nascente.
«Perciò fino a quando lei non sputerà il rospo, la verità non verrà mai a galla»
Fece una pausa e puntò l'attenzione all'oscurità, bagnata di luce di New York, incorniciata dalla finestra dell'appartamento.
«A meno che la verità non venga fuori prima da qualcun altro»
Ray risucchiò l'aria tra le guance e alzò le palpebre leggermente stupita da quel cambio di tono. Era tutto fin troppo misterioso.
«Qualcuno tipo chi?» prese coraggio.
E Rachel, senza emozione in voce e con molto rammarico, rispose:
«Qualcuno che potrebbe mettere in seri guai l'intero equilibrio dell'ABT. Attenta a sceglierti le persone di cui fidarti Ray: in questo mondo nessuno si farebbe scrupoli a tagliarti le gambe a cinque minuti prima di entrare in scena» le disse tagliente, senza rabbia ma severa.
Era un consiglio o un avvertimento?
Il Gallery non era sicuramente rinomato come il McSorley's Old Ale House o il St. James Gate, ma era abbastanza carino da invogliare un gruppo di ballerini a bere qualche drink — ed era sicuramente il più comodo a soli due isolati dalla zona da Damrosch Park. La spesa per un taxi, spartita per tre persone, sembrava una barzelletta per quanto economica si presentasse. Dunque, circondate dei profumi e outfit accalappia sguardi, procedettero con tranquillità fino all'entrata del famoso pub che avrebbe sostituto il diner newyorkese di Ray Morgan.
I capelli castani, tenuti sciolti sulla schiena, svolazzarono non appena aprirono la porta a causa del contrasto termico. L'autunno era così presente da farla stringere in un bomber di mezza stagione nero e lucido, secondo il parere di Rachel quel giubbotto sembrava una caramella gommosa pronta a esplodere al minimo acciacco. Ma quel taglio dal tessuto sbarazzino e molto anni 90' era perfetto per la soft-girl. Anche se, quella sera, sembrava essere stata travolta da un'ondata di Bratz vibes.
Tolse via qualche capello appicciato al gloss glitterato, steso sulle labbra carnose con generosità, e cercò di socchiudere le palpebre a causa della rustica luce soffusa — lo stile industry di cui era fornito il locale — per adocchiare quanta gente ci fosse.
Era pieno e vi era giusto qualche sedia libera in mezzo alla calca impegnata: che cosa si aspettava? Non poteva continuare a vedere il mondo con la mentalità di una ballerina.
Si sentì trascinare dopo che una mano le strinse il polso per guidarla al tavolo prenotato, già imbandito di facce nuove e conosciute. Alzò lo sguardo e vide la coda morbida e riccia di Rachel spazzolare via le ombre dalla schiena, mentre cercava di non disperdere Ray in mezzo alla musica commerciale. Nora camminò dietro di lei e le tre, in un modo o nell'altro, attirarono sguardi strani e incuriositi.
Ray non sapeva se dipendesse dall'altezza raffinata di Nora e il suo paio di gambe strette nel jeans bianco aderente o per Rachel, agghindata con un vestito in finta pelle nera, giacca a quadri lunga fino alle cosce e tacchi alti. Dopotutto lei era circondata da quel bomber nero che sembrava sempre di più un copertone di un autobus.
L'equilibrio, a un tratto, venne a mancarle sotto le platform alte fino alla caviglia e per l'improvvisa frenata di Rachel. Di fatti la riccia si era fermata all'improvviso, a un metro dal tavolo con un ringhio soffocato dalla musica.
«Che c'è!?» chiese Nora urlando da dietro le spalle di Ray. Rachel si girò velocemente verso le due e borbottò: «Chi cazzo gliel'ha detto!?»
«Detto cosa?» Ray sussurrò ignara ma Nora, guardando il tavolo, capì all'istante il malumore della sua migliore amica. «Dannazione...» schioccò le labbra.
Ray allungò il collo e tra le tante teste nuove ne riconobbe una che di certo non passava in osservata.
«Ma é...» mormorò Ray disorientata.
«Chi cazzo ha invitato quella stronza?» ripeté Rachel con i nervi già a fior di pelle. «Credo che sia stata Danielle» rispose Nora mentre collegava i punti, «non sa tenersi la bocca chiusa, ve l'avevo detto io...» continuò sbuffando e, svogliata, superò le due per raggiungere il tavolo.
Rachel e Ray si lanciarono uno sguardo incerto: «Ti posso giurare che...» iniziò a giustificarsi, «non sapevo ci fosse anche Judite»
Ray tornò a guardare Judite Dixon, seduta in mezzo al tavolo, con preoccupazione. La ricca bionda non aveva detto o fatto niente di nuovo dalle altre stronze di Madison e Blackwell — non aveva paura di lei. Ne aveva di più per il suo stato psicologico estremamente debole e per il fatto che Judite appartenesse quasi alla cerchia d'élite dalla quale cercava di tenersi alla larga. Perciò ampliò il raggio visivo alla ricerca di Park Jimin ma, tra lo stupore, o forse non così tanto, non lo vide lì quel sabato sera.
«Non preoccuparti» mormorò Ray con un lungo sospiro e finse un sorriso, «Non ho paura di lei, avrei solo preferito stare più tranquilla senza sentire i suoi commenti anche fuori dall'ABT. Ma immagino che i piani siano cambiati»
«Ray... io» mormorò Rachel sentendosi in colpa.
«Va tutto bene. Doveva andare così...» dopo che disse ciò, iniziò a camminare fino al tavolo per raggiungere il resto delle sue colleghe.
Alcune di loro furono sorprese di vederla ancora lì con loro: c'era chi aveva pensato che si fosse ritirata immediatamente dopo quello che era successo con Park Jimin, altre, invece, la immaginavano a piangere sul divano a guardare Oprah Winfrey.
Perciò ghignarono compiaciute e la salutarono eccitate; Judite Dixon vide un punto nero fermarsi davanti a lei e alzò lo sguardo, pronta a mandare al diavolo lo stronzo che aveva appena oscurato il centro della sua attenzione, fino a trovarsi la piccola Ray Morgan lì davanti.
Tirò le labbra laccate di rosso sangue in una smorfia e uno sbuffo di incredulità uscì dal petto.
«Ma guarda un po' chi c'è» la squadrò dal basso verso l'alto, chiedendosi il perché una compagnia come la sua avesse assunto un avanzo del genere, «Sono stupita di vederti qui»
«Judite» la richiamò Nora mostrandole uno sguardo incazzato, «Non ora» e per tutta la conversazione Ray sentì di avere la bocca asciutta e il mal di stomaco ancora prima di aver bevuto un drink.
«Che c'è Nora, non posso mostrarmi incredula nel vedere la... piccola Morgan ancora qui con noi?» c'era così tanto sarcasmo in quella frase, «Sai Ray, ti immaginavo già su un autobus in viaggio per il Wyoming»
Ray la guardò dritta negli occhi per vedere quel mare di sadismo e competitività che sguazzava da sotto le palpebre.
«É Wisconsin»
Judite la guardò confusa e scosse la testa: «Che cosa?»
«Lo stato da dove vengo é Wisconsin. Il Wyoming é da tutt'altra parte» le rispose tranquilla e con le guance leggermente arrossate per via di tutti quegli occhi addosso.
Judite sentì una risata trattenuta dal lato sinistro e qualche occhiatina divertita da parte delle sue colleghe. Strinse i denti e la guardò con un sorriso falso: «Fa differenza?»
«Beh sì, sono due posti diversi. Il Wyoming é da tutt'altra parte a...»
«So da sola dov'è quello stato del cazzo, Morgan» la interruppe innervosita. Ray sobbalzò appena ma si fece scappare comunque l'ultima parola.
«Volevo solo spiegarti la differenza tra uno e l'altro»
Una risata sarcastica uscì dalle labbra rosse della bionda e le lanciò uno sguardo di derisione: «Che cosa? La differenza? Che differenza c'è tra due stati di merda e sperduti da Dio?» si avvicinò col busto, «Ehi, ragazza in ritardo, non me ne frega niente della stalla dalla quale provieni, mi hai capita?»
«Credo che abbiamo iniziato col piede sbagliato, Judite. Non voglio essere tua nemica» la castana tentò di alleggerire la situazione mostrandosi sincera.
Ma pensava seriamente di essere considerata così da tanto da Judite Dixon al aprì di una nemica? Le scappò una smorfia inorridita: quel posto era riservato a una spina nel fianco come Nora Smith.
Ray Morgan era il nulla fatto in persona.
«Ma quale nemica, a malapena ti considero intorno a me Morgan. Speravo che salissi su quell'autobus per il ripristino del mio benessere mentale, perché mi disturbi. Ogni cosa di te mi disturba, anche solo guardandoti adesso» spuntò con cattiveria, permettendole di bagnarle il corpo di derisione.
Ray si sentì in difficoltà questa volta; voleva la tranquillità, senza mostrarsi obbediente e falsamente misericordiosa nei suoi confronti come faceva la maggior parte di loro, giusto per leccare il culo alla figlia di papà che finanziava tutta quella merda. Lei cercava solamente di costruire un collegamento educato che circoscriveva una sopravvivenza pacifica, almeno al di fuori del lavoro.
Ma a quanto pare Judite Dixon era abituata a questa vita acida fino al midollo.
«Ci sono stato nel Wisconsin, nel lago Michigan»
Ray sbarrò gli occhi. Girò appena il viso verso l'origine di quella voce — questa era furba e bassa di qualche ottava — in modo che potesse vedere l'eroe che si era permesso di infiltrarsi negli affari di Judite Dixon. Lo sguardo arrivò fino a incontrare due occhi grigi e fumosi, ombrati da una fronte scoperta e addobbata da ciuffi biondo cenere lasciati sul davanti. Un viso privo di barba e rughe, giovane, fresco e affascinante, il sorriso leggermente carnoso era semi aperto a causa di una smorfia sprezzante.
«In kayak, lungo la penisola di Door County» risaltò il suo sorriso al contrario e, con le pieghe degli angoli all'ingiù, continuò a parlare sotto gli occhi attenti di tutti, «é stata un'esperienza interessante. In realtà Judite non é così male come credi» disse poi rivolgendosi a lei.
Judite di girò verso il fenomeno da baraccone e, appena lo scorse a sfoggiare quel sorriso irritante, alzò gli occhi al cielo. «Oh mio Dio, sei patetico» soffiò.
Il biondo avvicinò le labbra alla cannuccia del suo drink prima di fissarla dal basso, lanciandole un'occhiata di chi sapeva esattamente come portarsi a casa la vittoria.
«Patetico?»
«Sì» allungò il braccio verso lo schienale della sedia per affrontarlo apertamente, «stai dando ragione a una come lei. Ricordarti chi sei e qual é il tuo posto Fisher» gli disse, «Mentre lei deve imparare ancora il suo»
Il biondo — soprannominato per gli estranei Fisher — staccò le labbra dalla plastica nera della cannuccia e ridacchiò criptico. «Va bene, principessa» mise giù il bicchiere e sogghignò mentre la vide corrucciare lo sguardo al solo nomignolo, «Cercherò di essere meno patetico...»
«Vedo che hai capito il concetto»
«... Solo se tu aprirai un libro di geografia la prossima volta» l'intero tavolo scoppiò a ridere.
Judite divenne rossa e furibonda, pronta a mettere le mani addosso a quel bastardo che si era permesso a darle dell'ignorante. «Brutto figlio di put—»
«Ehi Morgan, giusto?» il biondo interruppe sfrontatamente Judite e, facendolo apposta per irritarla ancora di più, chiamò Ray di proposito.
La castana annuì imbarazzata e si mise sull'attenti.
Lui le fece cenno di avvicinarsi. «Siediti qui, c'è un posto libero se vuoi»
Rachel per poco non la sollevò per buttarla tra le braccia del biondo seduto a capotavola. «Sbrigati!» le strillò a bassa voce all'orecchio, «Non hai idea di chi ti ha messo gli occhi addosso» e la spinse leggermente per farla avanzare.
Ray finalmente arrivò alla sedia e armeggiò, per temporeggiare in modo da far scemare le guance color fuoco, con la zip del bomber. L'abbassò, sfilò il giacchetto mostrando un top corto a bretelle rosa e una gonna cargo a vita alta di jeans.
A differenza del solito regime della danza, i capelli erano sciolti lungo la schiena, tranne per due minuscoli pom pom ai lati della testa. Il viso tondo e delicato della nuova arrivata era tinteggiato di porpora sopra le gote ma gli occhi nocciola, vividi, lucidi e puri, furono la prima scusa che trattenne Fisher a guardarla fino ai limiti del palese. E quello sguardo addosso pesava e bruciava sulla pelle candida di Ray.
«Grazie...» mormorò educata verso il biondo mentre un cameriere portò, nel frattempo, l'ennesimo giro di Gin Tonic e salatini al centro del tavolo. Allungò la mano e lo prese titubante.
L'arto esitò e quel dettaglio fece nascere un sorriso divertito sul volto del biondo.
«Ero serio prima» cercò l'attenzione di Ray, «quando parlavo del Wisconsin, il lago Mitchigan» lì per lì la castana si ritrovò a schiudere la bocca senza collegare la prima frase. Poi ci arrivò e cacciò fuori un sorriso delicato.
«Un po' scontato e banale come posto, vero?» le chiese sornione e Ray annuì esitante: «Giusto un pochino» mormorò, «ma te lo concedo perché la contea di Door vale tutta la fatica fatta in kayak» gli disse e, contro le sue aspettative, ridacchiò abbastanza amichevolmente.
«Mmh, allora quali altri posti mi consiglieresti se mai dovessi volare fino al Wisconsin?»
La ragazza ripensò immediatamente a tutte le attrazioni e mete turistiche di cui la sua terra natale forniva, ma strinse le labbra in una smorfia: «In realtà non é un luogo così appariscente... C'è molta natura, paludi bonificate e laghi con nomi strani, chiamati così solo per invogliare la gente per venire a vederli» gli disse con una strana nostalgia negli occhi, «semplicemente, é un posto da cui non ti aspetteresti niente»
Un po' come me.
«Ma, se mai volessi tornare e vedere qualcosa di bello...» riprese a parlare dandosi fiducia, «fatti qualche chilometro in più per le cascate di Big Manitou. Sono splendide tanto quanto Door County»
«Le cascate di Big Manitou dici? Interessante, é la prima volta che le sento nominare» esordì studiandola con un luccichio sfarzoso nello sguardo mentre Ray, sotto la giudiziosa attenzione di quel ballerino sconosciuto, iniziò a sentirsi un po' persa.
Ancora non sapeva chi fosse ma da come si presentava col suo completo scuro, la camicia sbottonata sulle clavicole sporgenti e quel taglio sbarazzino color cenere, erano dettagli che le fecero presumere un particolare ceto eccelso. Era indubbiamente bello e sapeva di esserlo.
Sembrava il fratello segreto di Judite Dixon, noncurante di mischiarsi tra i mortali e questo era un tratto che lo distingueva dalla stronza ricca di New York.
Il biondo allungò una mano verso di lei e si presentò: «Comunque sono Oliver Fisher, lieto di fare la tua conoscenza... e tu sei Ray, giusto?» Ray guardò la mano spessa e venosa dalle lunghe dita affilate e la strinse: «Sì, anche se qui dentro tutti preferiscono chiamarmi Morgan» dichiarò con un piccolo sbuffo, «É così difficile chiamarmi col mio nome?»
«Niente affatto» le rispose sincero e alzò le spalle, «ma é il mondo della danza, Ray. Quando siamo scomodi é un modo un po' implicito per fartelo capire. Iniziano così» esordì con un sogghigno, «se aspetti che la principessa ti chiami per nome, un giorno, ci saranno più probabilità che un'asteroide colpisca la Terra in questo momento» disse riferendosi alla discutibilissima educazione di Judite Dixon.
«Oh... Grazie per la... dritta?» doveva ringraziarlo per averle detto che lì dentro la disprezzavano tutti quanti? «Se lei non si fa problemi a trattarmi come spazzatura non m'immagino la cerchia d'élite» e rabbrividì impercettibilmente pensando a Park Jimin.
«Cerchia d'élite?» domandò curioso. Era la prima volta che sentiva quel gergo sarcastico; Oliver Fisher passò una mano tra i capelli biondi e finse di aggiustarli come se avesse un pettine: «Parli dei solisti e dei primi ballerini?»
«E chi sennò?» sussurrò con amaro sarcasmo e abbassò lo sguardo.
«Forse non tutti sono così male come credi» asserì dicendole la sua.
«Se sono come Pa—» Ray si fermò mordendosi immediatamente la lingua. Cosa diavolo stava facendo? Stava per lamentarsi di Jimin con un altro ballerino della compagnia? Oltre il danno, pure la beffa: non lo conosceva nemmeno.
Oliver socchiuse gli occhi ancora più confuso, ma anche incuriosito, perciò si allungò verso di lei: «Se sono come chi? Chi hai conosciuto di così terribile?» insistette.
Ray cercò al volo una scusa e si arrampicò sugli specchi: «Nessuno. In realtà non ho avuto modo di lavorare con nessuno di loro se non per qualche lezione di punte. Le mie sono solo supposizioni»
Oliver sorrise e appoggiò il mento sulla mano.
«Anche io sono un solista»
Ray sentì il sangue ghiacciarsi all'istante. Ogni parametro vitale era cessato dall'esatto momento in cui Oliver Fisher — a quanto pare presunto solita dell'ABT — aveva aperto bocca, spifferando quel dettaglio di sé con troppa leggerezza.
«Tu... Tu sei—» si diede dell'idiota e si vergognò come non mai, «mi dispiace, non volevo offenderti o—»
«Va tutto bene!» ridacchiò facendo vibrare la cassa armonica sotto il petto e seriamente divertito, «Non scusarti, alla fine é vero: siamo stronzi. Dei grossissimi stronzi» enfatizzò per tranquillizzarla.
«Davvero non volevo sminuire i valori dei solisti. Dicevo così perché in passato ho avuto delle esperienze un po' drammatiche con alcuni di loro. Però, magari, con voi é tutto il contrario» cercò di spiegarsi meglio e Oliver si raddrizzò incuriosito.
«Ah sì? Vieni dalla Wisconsin Ballet se non erro»
«Non ti sbagli» Ray sentì lo stomaco attorcigliarsi.
«E prima di arrivare qui non eri una solista?» domandò senza peli sulla lingua.
Quello era un particolare interessante: che cos'era Ray Morgan nella sua vecchia vita a Madison? Prima di inoltrarsi per New York e facendosi trattare come una dilettante?
Ray deglutì. Perse il sorriso e si ritrovò a scorgere attimi e scene del suo passato in pochi secondi.
«Sì» ammise, per la prima volta da quando era a New York, ad alta voce e un po' assente, «lo ero diventata da poco» appena il tempo di fare uno spettacolo — chiuse gli occhi addolorata.
Oliver fischiò complimentandosi: «E perché hai lasciato se avevi una posizione più che rispettabile in compagnia? Ambire all'ABT é un sogno, lo so, ma ricominciare dall'inizio e doversi assicurare un posto, con così tanta concorrenza,» allungò le mani per indicare tutta la fascia di ottimi ballerini intorno a loro, «può essere infernale»
Judite smise di fare l'ascoltatrice passiva — cosa che aveva fatto per tutta la conversazione — e si mise in mezzo con tutto il suo essere fastidiosa.
«Lo é solamente se non sei come Park Jimin, Oliver»
Quella donna non riusciva a tenere la bocca chiusa nemmeno con un bonifico da sei zeri in scambio. Ray la guardò sbigottita e al contempo irritata: possibile che Park Jimin doveva essere tirato in ballo anche in situazioni esterne alla danza?
«Anche se é tornato da poco é palese che scelgano lui ai provini per lo spettacolo principale» e chissà perché Judite Dixon si risparmiò dal discriminare anche la bravura di Oliver questa volta. Anche se, a guardarla, aveva nello sguardo un velo di derisione nei confronti nel parter maschile.
Olive strinse la mano in un pugno ma la nascose prontamente sotto il tavolo, sopra alle cosce, per affrontarla senza darle troppa importanza:«Strano che tu abbia il suo nome sempre in bocca, principessa, cerchi di tappare in qualche modo la mancanza di altro tra le labbra?»
Tutti gli altri scoppiarono a ridere dopo aver visto la faccia sbigottita, livida di imbarazzo e rabbia, di Judite. Oliver aveva toccato un bel nervo scoperto: come se non fosse ormai palese la cotta lasciva di Judite nei confronti dell'etoile.
Ray colse il doppio senso qualche secondo dopo e sentì una strana vergogna bagnarle la schiena. Che Park Jimin fosse indiscutibilmente sexy e bello, sia nel mondo artistico e nella vita di tutti i giorni, era una constatazione puramente oggettiva. Ma oltre i muscoli e la bellezza delle sue linee, Ray non si era mai inoltrata fin lì con la mente. Era decisamente troppo per lei. Come se non fosse...
Professionale?
«E chi ti dice che io abbia delle mancanze?» lo sfidò Judite. Era un bluff il suo? O stava dicendo che, tra le righe, si stava portando a letto Park Jimin?
Nora Smith, così come le altre della corte no-toxic, boccheggiarono stravolte. Gli altri uomini del tavolo la guardarono sottecchi e maliziosi.
Oliver fece scemare il sogghigno e la guardò impassibile: «Sei scesa così in basso?»
«Vaffanculo, Fisher! Hai paura che Jimin sia meglio di te anche a scopare?»
Rachel si attaccò al gin tonic completamente spaparanzava sulla sedia e, identica a lei, Cameron e Lucinda fecero la stessa cosa appuntandosi quella guerra di gossip in live. Ray si sarebbe aspettata di tutto tranne che un'escalation del genere e rivelazioni di questo calibro.
Quindi Oliver Fisher e Judite Dixon sono...
«Come puoi affermarlo se non ti lascia neanche avvicinare a lui?»
«E tu che cazzo ne sai? Eh? Mi spii?»
«Assolutamente no. Cercavo solamente di salvaguardare le tua nobile immagine, principessa, dal creare altri scandali spiacevoli con la tua famiglia» e come se non bastasse rincarò la dose, «com'è già successo più volte in passato»
Arrivata a quel punto Judite si alzò dal tavolo e strisciò la sedia sul pavimento: «Questo é un fottuto colpo basso, Oliver! Predichi, fai la morale come un dannato reverendo del cazzo sull'essere buoni quando ti pare a te mentre, alla prima occasione, spali una valangata di merda? Come se niente fosse!?»
Un briciolo di senso di colpa pizzicò il petto di Oliver ma all'esterno rimase stoico e senza rimorsi. Anzi, mostrò la fisionomia del viso completamente contratta, incazzato con quel turbinio biondo e chi gli puntava il dito addosso.
«Rivediti lo scambio di colpi bassi, Dixon» la fermò con la voce completamente oscura, «Fai un passo indietro quando sei la prima a scagliare la pietra più grossa contro di me» si alzò anche lui, stufo di quella serata e di come la situazione si fosse conclusa nel peggiore dei modi, «e abbi il coraggio, insieme alla consapevolezza, di stare zitta se vuoi ferire gli altri senza essere pronta a sentirti addosso quello che abbiamo da dire su di te» lanciò un paio di banconote sul tavolo e le passò a fianco, sbattendole di proposito la spalla, per uscire dal Gallery.
Tutti finirono col guardare Judite mentre era ancora in piedi e assorta in un connubio di pensieri abbastanza comprensibili dall'esterno. Danielle, dapprima seduta al suo fianco, si sollevò per posarle una mano sulla spalla ma Judite si scostò immediatamente.
«Judite stai bene?—»
«Non toccarmi» disse con disprezzo e guardò tutti loro con un altro sguardo, più grave, arrabbiato e privo di fragilità, «E non guardatemi cazzo! Non valete neanche la metà di quello che mostrate» ringhiò tra i denti prima di levarsi da lì come aveva fatto Oliver.
Si alzò un enorme brusio generale. «Ma che diavolo é successo?» chiese urlando Rachel, indecisa se essere euforica o sconvolta.
Gli altri borbottarono e ridacchiarono alludendo su chissà cosa, mettendoci nel mezzo una possibile relazione con Park Jimin o i misteri della famiglia Dixon. Mentre Nora, in tutto ciò, si limitò a fissare Oliver e Judite fuori dal locale impegnati a discutere. I toni erano alti. Sicuramente a causa dei gesticolamenti involontari e sembravano dei mimi esausti: forse stanchi dei segreti, assieme ai dettagli che solo loro due potevano sapere.
O almeno credevano che fosse così; Ray intercettò il volto girato di Nora verso la vetrina e fu l'unica, di tutti loro, a non dare fiato alla bocca con teorie assurde. Anzi, restò lì a guardarli con interesse mentre tamponava le dita sul tavolo.
Un dito dopo l'altro.
E se Nora Smith fosse, in realtà, una delle poche a sapere la verità? — s'interrogò Ray.
E le dita, così come il rimbombo dei polpastrelli attutiti sul legno, smisero di muoversi una volta per tutte.
Quel sabato sera passò velocemente e, tra segreti e nuove conoscenze, vennero fuori anche nuovi lati da parte di persone che non aveva avuto modo di conoscere appieno. Scoprì come Cameron e Lucinda si conoscessero da tempi immemori, nate addirittura nello stesso quartiere di New York e che, stranamente, erano simpatiche al punto da introdurre Ray in un sacco di discorsi.
La conoscenza maschile fu un po' più tragica; oltre al carisma criptico di Oliver Fisher gli altri membri della compagnia risultarono, ai suoi occhi, come classici elementi poco risoluti e avversi alla socializzazione sensibile. Ovvero: eri okay se viaggiavi sulla stessa lunghezza d'onda del miserabile ego artistico. Sennò valevi meno di zero o di una qualunque sprovveduta da scopare con sufficienza.
E gli uomini ne avevano così tanto addosso di ego — forse più delle ballerine — che non parlarne sarebbe stato deleterio ai loro occhi, dovendo per forza sottintendere quanto fosse difficile sopravvivere in una lotta contro la mascolinità sociale.
Ray aveva da sempre nutrito un grande rispetto per gli uomini che incontrava lungo la strada accademica e artistica. Erano pochi quelli che riuscivano ad abolire tutte le qualità maschili stereotipate, affinché il concetto di emozione non venisse più ostracizzato e deriso. I ragazzi che sceglievano il balletto — qualsiasi danza costituita da nudità e calze a maglia — erano consapevoli di dover lottare contro una discriminazione così radicata, dunque vengono spinti dall'amore incondizionata per la propria arte.
Ed é quella spinta, solida e costruita dalla forza d'animo dell'intima religione, che viene a disperdersi quando il successo si mostra nelle occasioni anche meno importanti. E l'uomo distrutto dalla mascolinità sociale e rigoglioso di sensibilità d'animo? Qual é la sua fine? Dopo una vita passata a lottare?
La fine é solo l'inizio dell'ego e del vanto, sia fisico e mentale, addossato come un vestito per nascondere, sopprimendo, ogni insicurezza. Mai mostrarsi debole.
Perché un ballerino é forza e presa, perciò si mostra importante anche se é rotto all'interno: deve essere all'altezza.
Una ballerina é emozione e versatilità, ma si concede la sgradevole falsità per seppellire la velenosa cecità di dipendenza, vulnerabilità e sottomissione con cui cercano di additarle dai tempi di Adamo ed Eva.
Il mondo é così strano. Così ingiusto.
In parole povere, quella sera Ray Morgan dovette assistere al chirurgico narcisismo maschile e grosse facce da poker, le tipiche maschere utilizzate per nascondere l'immediata competizione.
Ma Ray non riusciva a seguire il modus operandi dei suoi colleghi nei confronti della sopravvivenza, anche a costo di giocarsi il ruolo da solista. Era cordiale, disponibile e priva di ego, come se fosse nata nel corpo giusto ma con una mentalità completamente estranea.
Ma quel buonismo in eccesso era il suo più grande ostacolo.
In qualche modo avrebbe dovuto accrescere la sua fame artistica se voleva aggiudicarsi un posto fisso lì dentro; senza farlo apposta avrebbe scoperto oggi, nel lunedì mattina, tra un mare di gente e confusione, cose significasse veramente avere fame.
Non ci furono scale ripide da scalare o chilometri a dividerla dalla sala da ballo perché, quest'ultima, era situata al primo piano con una facilità disarmante. E lì, Ray Morgan, capì che cosa volesse dire far parte della cerchia d'élite dell'American Ballet Theatre; avere una stanza riscaldata per l'inverno; stanze rifornite e ristrutturate; la mensa a pochi metri e, infine, il proprio nome riecheggiato a ogni passo.
Il gruppo di matricole entrò dentro la sala con vivida curiosità e le ragazze non poterono non sbarrare gli occhi dinanzi a quel privilegio tanto agognato. Persino per Nora e Judite, ormai non più matricole, fu un sollievo al petto rivedere quella stanza dopo un anno. Speranzose di far parte di quell'equipe artistica una volta per tutte.
Quando Ray fu in grado di vedere oltre le schiene delle sue colleghe si immobilizzò all'istante: riconobbe Igor Kuznetsov, indaffarato a parlare con un paio di ballerine professioniste, a pochi metri dalla signora Collins. Era un prodigio partito dalla Russia e capitolato a New York con tenacia, tuttora a distanza di molti tanti anni, rimaneva un etoile inimitabile. E lei era onorata di poterci lavorare.
Non riuscì a dedicare la massima attenzione anche ad altri elementi della cerchia d'élite perché dopo una pirouette lunga, complicata e perfetta al centro del parquet, Park Jimin si fermò irritato per quell'entrata poco gradita. Si stoppò ansimando davanti allo specchio e lanciò uno sguardo ai nuovi arrivati tramite il riflesso: scorse immediatamente i pom pom di Ray in mezzo alla calca e soppresse un sospiro irritato.
Piegò il collo in avanti e indietro a causa dei muscoli dolenti intorno alla schiena, allungò le braccia e ignorò gli occhi famelici e interessati di Judite Dixon con la sua combriccola di stronze. Jimin si era tolto la maglia poco prima del riscaldamento e ora se ne stava lì, con la schiena e il suo celestiale fondoschiena scolpito dai leggings neri, a mostrare ciò che aveva.
Era bellissimo. Attraente. Ma anche massiccio e fu la prima volta che Ray lo vide così spoglio, abituata a vederlo con pantaloni larghi e maglie strette sui bicipiti.
Il busto nudo, sudato e ambrato scintillò tra pietre di sudore e luci fittizie. A Ray caddero gli occhi sulla sagoma dell'etoile e si pentì immediatamente di averlo fatto: prestò attenzione ai piedi curvi in un arco, le gambe toniche e muscolose vestite di nero dal tessuto aderente, i glutei sviluppati, il cavallo del sesso compresso a stento dal sospensorio nascosto e la quantità spropositata di pelle esposta, che ricopriva il petto e gli addominali del ballerino, senza vergogna.
Arrivò a deliziare con attenzione la mascella contratta e fu lì che vide i suoi occhi scuri e furbi catturarla. Perché Jimin avvertì tutto il suo lungo e bruciante sguardo dallo specchio.
La beccò. Cogliendola in fragrante. L'attirò in quella connessione soffocante senza lasciarla andare, quando la vide esitare dal battere le palpebre decise di fermarsi. Tirò le labbra carnose in un sogghigno e la svegliò dal sogno pregno d'innocenza; Ray arrossì brutalmente fino a nascondersi dietro a Rachel con finta nonchalance. Sentiva le guance esplodere e il fiato venir meno.
Ma Jimin ormai aveva visto tutto; arricciò l'angolo della bocca ancora più su, scuotendo la testa con leggero disaccordo nei confronti di se stesso: ma quel ghigno compiaciuto non sparì così facilmente da sotto i baffi.
La musica del pianoforte si interruppe con il sorriso raggiante della signora Collins spalmato sulla faccia. L'attenzione ricadde su di lei. Chiuse le mani sotto il diaframma e raddrizzò la postura con cura: «Benvenuti nella principale stanza di ballo dell'ABT» parlò ad alta voce riferendosi anche al gruppo di uomini che entrò dopo la classe di Ray, «So che per a gran parte di voi é un ambiente nuovo, ma da adesso in poi vi riunirete qui con i senior della compagnia»
Ci fu un piccolo applauso da parte dei veterani; questi, adulti aggraziati dalle facce sconosciute, si erano rivolti verso i lati della sala, lungo le sbarre, in modo da vedere e analizzare le giovani prede con scuse cordiali.
Una bagliore ceruleo spuntò dalle pareti calde della stanza, Ray riconobbe immediatamente l'occhiata furba di Oliver Fisher in mezzo alla squadra di muscoli in calzamaglia degli uomini, ma sembrava che ancora non si fosse accorto di lei.
Guardò Judite tra le prime file: forse evitava il suo gruppo perché era ancora arrabbiata con la stronza ricca?
Infine, poi, l'attenzione venne ripresa dalla Collins dopo che Danielle aprì bocca senza essere interpellata e nessuno fu sorpreso dal connubio di sbuffi che uscirono dalle bocche degli altri.
«Signora Collins, perché siamo qui?»
Senza che nessuno lo potesse vedere, Park Jimin ruotò gli occhi al cielo maledicendo l'insopportabile bionda e la sua maleducazione. Se ne stava appoggiato alla sbarra più lontana e si sentì obbligato, nei confronti nobili della sua vecchia maître, ad avanzare verso il centro ormai gremito di marmocchi.
«Siete qui perché ho un importante annuncio da fare» iniziò guardando con serietà ogni persona intorno a sé. Allungò un braccio verso l'angolo del perimetro, tra il muro e la porta, per mostrare un uomo impegnato a ciarlare e discutere al telefono in modo animato.
Era un uomo sulla cinquantina; i capelli brizzolati dal bianco e il grigio lo rendevano un tipo affascinante. Il ponte del naso era spesso, le labbra sottili e gli zigomi alti, quest'ultimi erano scavati creando un volto dalla forma stretta. Aveva una fisionomia quasi europea secondo l'immaginazione di Ray. Girò il viso verso le giovani ballerine appena arrivate e le squadrò con uno sguardo impenetrabile, azzurro e statico.
«Ci sentiamo più tardi» chiuse la chiamata infastidito e si ridestò dopo un paio di respiri. Tirò le labbra verso l'alto — era un sorriso molto stanco — e raggiunse la signora Collins al centro.
«Madame» disse scusandosi per l'interruzione ma la Collins scosse la testa eccitata. Lo graziò: «Sei un uomo impegnato Alexander, non scusarti» la maître si voltò e si schiarì la voce, «penso che sia doveroso per me presentarvi Alexander Janssens, uno dei coreografi e produttori più importanti del momento. Creatore di spettacoli di successo»
«Troppe adulazioni» disse Janssens, attutendo il suo accento belga. «È un onore collegarmi artisticamente e spiritualmente con l'American Ballet» si inchinò leggermente mentre intorno a lui, i ballerini, producevano un applauso meritevole.
«É stato così acclamato e premiato dopo il suo ultimo lavoro a Parigi, con Giselle, che non potevamo tirarci indietro dopo una proposta del genere» continuò Miranda Collins rivolgendosi direttamente a lui, stringendogli la mano, «il direttore Fray si congratula con te, immensamente dispiaciuto per la sua assenza» disse con tono basso.
Di fatti, mancava proprio colui che mandava avanti quella catena di montaggio dall'alto ma nessuno ormai ne era stupito; da quando Joy Miles aveva ceduto il ruolo di direttore artistico ad Albert Fray, un CEO che di danza ne sapeva un bel cazzo, lì dentro si respirava solo aria pesante e indecisa.
Non si prendeva mai la briga di prendere posizioni che potevano far salire o mettere in discussione il successo dell'ABT, per questo, compagnie come la NYCB — importante nemesi dagli esordi — stavano prendendo il sopravvento con fin troppa facilità. Perché la totale assenza di scelte stava rallentando una delle catene di montaggio più famose degli Stati Uniti.
Alexander Janssens non era così stupido da essere intortato con queste scuse farlocche, conosceva quel nazionalista drogato di consumismo, Alber Fray era un direttore blando e fannullone e amava campare di sponsor comprati qua e là. Ma i primi ballerini desideravano esibirsi nel palco e non sotto i riflettori per nuove campagne di reggiseni o profumi; il successo portava anche a vendere parti di sé, certo, però il loro scopo era tutt'altro.
Per questo Jimin fu sollevato nel vedere una vecchia faccia in quei muri privi di stabilità, magari avrebbe smesso per qualche settimana di farsi fotografare in boxer sportivi. Conosceva Alexander e avevano lavorato insieme per uno spettacolo, quando ancora ballava alla Royal, nel suo ultimo periodo londinese. Era eccezionale, sapiente, innovativo e strategico: sapeva quale concept utilizzare in base ai ballerini che aveva tra le mani.
«Non si preoccupi» esordì educato, «il signor Fray avrà modo di vedere i progressi dello spettacolo quando avrà tempo» e cercò con tutto se stesso di non mostrarsi sarcastico vomitando quella frase.
«Ne sono più che sicura» sussurrò la Collins con un accenno di imbarazzo. Ma si ridestò sbattendo le mani: «In parole povere, miei cari ragazzi, si tratta di una collaborazione finanziata in suo nome»
I gridolini entusiasti delle ballerine arrivarono alle dei orecchie presenti; Rachel guardò Ray scioccata dalla felicità e, quest'ultima, avvertì il cuore scoppiarle dentro al petto.
Avrebbe ballato per uno spettacolo di Alexander Janssens?
«Mi sta dicendo che...» cinguettò Danielle con le mani strette sulle guance incredula.
«É esattamente quello che pensi, Danielle» affermò con un sorriso vittorioso addosso e gonfiò il petto ricolmo di aria, «Signori e Signore, ce l'abbiamo!»
Finalmente quella poteva essere la svolta di ogni candidato presente lì dentro; da Rachel Hall, che pregava per quel miracolo dopo aver annaspato con l'acqua alla gola da sempre a causa dei suoi piedi imperfetti. A Nora Smith che accusava su di sé la pesante responsabilità di accaparrarsi il posto come prima ballerina per staccarsi dal suo cognome.
Anche Judite Dixon stava già pensando a qualche escamotage sicuro per avere la parte sul palco.
E poi c'era Ray Morgan, colei che sperava di avere un ruolo importante per ricominciare a ballare come una volta,: senza ombre, senza più paure e completa resilienza.
«Che le preparazioni dello spettacolo d'inverno abbiano inizio da adesso. Tutti voi, dall'esatto momento in cui il vostro corpo si é sollevato sulle punte, avete stretto un patto di sangue con la danza. Perciò,» guardò tutti quanti negli occhi mentre l'aria si faceva gelida, «non dimenticate tutti gli anni di pratica e sacrifici spesi per essere qui, perché é il momento di ballare come se fosse la vostra ultima volta»
Ray avvertì un brivido tormentarle la pelle e le ossa, queste si frantumarono dopo che lo sguardo di ogni ballerino, lì dentro, cambiò per aggiudicarsi la propria sopravvivenza.
«Quest'anno, per riscaldare il torbido inverno di New York, metteremo in scena un grande classico. Famoso quanto ardente,» aprì le braccia ed enfatizzò, «iconico e graffiante. Miei preziosi talenti, preparatevi per la "Carmen" di Georges Bizet!»
Che la competizione abbia inizio.
𝘐𝘯𝘷𝘦𝘯𝘵𝘪𝘰𝘯 𝘕𝘰. 4 𝘐𝘯 𝘋 𝘔𝘪𝘯𝘰𝘳, 𝘉𝘸𝘷 775
𝘑𝘰𝘩𝘢𝘯𝘯 𝘚𝘦𝘣𝘢𝘴𝘵𝘪𝘢𝘯 𝘉𝘢𝘤𝘩
ᴀɴɢᴏʟɪɴᴏ
VÉ FINITO AOT E STO MALISSIMO
Ciao a tutti!
Questa volta sono arrivata nel fine settimana perché halloween, la preparazione per il costume del gigante femmina ecc mi hanno portato via del tempo.
Ho notato che sono imprevisti che possono accadere quindi se l'aggiornamento non arriva in settimana (parlo delle prossime volte) arriverà in quella dopo❤️
- É un capitolo molto di passaggio ma era essenziale per mostrare la comfort zone di Ray, questo diner di Blackwell che sentiva di aver bisogno, e col fatto che sta iniziando a sentirti di nuovo sola come una volta. Aveva superato questo ostacolo con lo sociologo ma per colpa di queste "ombre" tutto sta andando a rotoli.
Ricordatevi il diner, sarà importante!
- Ray mente alle ragazze a proposito della strana conversazione avvenuta con Jimin, ma questa incongruenza dei fatti fa accigliare Nora e fa uscire un pensiero molto forte e "crudo" su ciò che pensa davvero di Park Jimin. Tanta, ma tanta tensione eheheh
- Ray cerca di scoprire qualcosa da Rachel ma nemmeno lei sa qualcosa. Anzi, raccomanda a Ray di fare attenzione e di non fidarsi appieno di nessuno. Che la troppa curiosità può essere letale.
- Abbiamo visto Oliver Fisher ragazzi, un bel biondo furbetto che avrà un importante ruolo in questa storia. Legato in modo abbastanza intuibile a quella bitch di Judite Dixon heeheh, si scannano ma si sopportano🤷🏻♀️
E se fossi in voi non trascurerei come dettaglio la frecciata di Judite nei confronti di Oliver, si chi é migliore e chi no👀
- Ma questo Park Jimin mezzo nudo e sudato?
- Infine abbiamo uno spettacolo, la Carmen di Georges Bizet. Opera famosissima della quale ne parlerò nel prossimo capitolo
Spero che i capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere che cosa ne pensate e alla prossima
❤️❤️❤️
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