𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟑: 𝐑𝐄𝐋𝐈𝐆𝐈𝐎𝐍
𝘉𝘛𝘚:
𝘉𝘭𝘢𝘤𝘬 𝘚𝘸𝘢𝘯 - 𝘖𝘳𝘤𝘩𝘦𝘴𝘵𝘳𝘢𝘭 𝘝𝘦𝘳.
Quanto sei disposto a rendere schiavo il tuo corpo dal dolore?
Piegarlo, spezzarlo, riassemblarlo, un conflitto perpetuo che non abbandona il corpo di chi é degno della danza e di chi non lo é. Perché anche se sei nato per piegarti come una spiga di grano, senza spezzarti alla base della tua immortalità, le radici del corpo mondano ti ricordano che sei fatto di ossa, di arti dolenti e agilità non sempre al pari con la mente e questo porta alla devastazione.
Ti senti impotente, pensi di non riuscire a saltare oltre una sequenza di brisé volé o un grand jete in allegro e, credendo poi che anche ciò che é in realtà possibile, per chi ha cuore e tecnica, diventa impossibile.
Ma se c'era una cosa che Park Jimin aveva imparato nei meandri degli inverni tempestosi di Seoul, era che comunque andasse, qualunque cosa fosse successa, quanti grand jete ci fossero nella coreografia e quante unghie spezzate premessero dentro le punte, lo spettacolo doveva continuare: The show must go on, valeva più qualsiasi religione e fede perciò, da qualunque terra fosse l'origine del sangue del ballerino, la danza portava con sé solamente una lingua per tutti.
Una lingua che non si adattava a nessuno, bisognava leggerla, capirla, tatuarsela ben in mente nella testa e sacrificare cose che chi non leggeva la danza non poteva comprendere. I genitori di Park Jimin non avrebbero mai capito appieno la passione del figlio, insieme alla sua voglia primordiale di seguire il proprio istinto e lasciare la Corea per la danza.
Erano nati nella stessa casa, dentro di lui vi era lo stesso identico sangue che lo accumunava a suo fratello minore e parlavano una lingua asiatica con radici complesse: erano quasi biologicamente uguali, ma al contempo Jimin non lo era spiritualmente. E si era rassegnato in qualche modo, o meglio adeguato, al fatto che nessuno di loro avrebbe mai capito che cosa significasse la danza classica per lui, quanto di quel dolore che bruciava per colpa della mortalità fosse in realtà essenziale per ciò che era diventato.
Era la sua più grande benzina ed esso, quell'acre e pungente dolore, lo incentivava ad andare avanti.
La tecnica la si imparava col tempo, ma col talento si nasceva, se non si era pronti a vivere solo ed esclusivamente per la danza sarebbe stato un altro cappio al collo da portare fino alla fine. Alla caduta, quando il peso sotto un arguto arabesque avrebbe slittato lo sgabello facendolo cadere per lasciare morire l'ennesimo sprovveduto.
La danza da. La danza toglie.
I suoi insegnanti erano stati magnanimi finché gli anni dell'infanzia non cessarono andando via da Busan e i genitori, obbligati dalla bravura del figlio e della sua passione, si trasferirono a Seoul per un programma migliore.
Jimin lì conobbe l'inferno come il mondo tossico della competizione, perché di ballerino provetto poteva essercene soltanto uno tra tanti; conobbe il fumo a diciassette anni per riempire lo stomaco vuoto dalle diete; conobbe le arti mediche sul come curarsi le vesciche infettate sui piedi e non mostrare alcun sintomo di dolore all'esterno quando queste scoppiavano; conobbe amici finti e colleghi che persero la ragione per colpa della danza fino a vomitarla.
Conobbe l'ansia, l'attenzione e la cura delle linee del proprio corpo per risultare il migliore, anche quando sentiva la necessità di mollare e piangere soltanto, odiandosi davanti allo specchio dopo un elenco di soli suoi totali difetti additati con cattiveria dalla maître. Ma era stata la fede, solo quella, che era riuscita a farlo andare avanti con la testa alta, nonostante gli occhi seccati dal pianto: far ricredere la sua vecchia insegnate — radicata nelle convinzioni malsane della vecchia scuola — delle sue capacità fu il primo punto della sua riconquista, dimostrando agli altri quanto fosse ardua e infinta la sua costanza. Lodevole la sua ricerca. E magnifica la sua perfezione.
Divenendo il prodigio con le linee più belle dell'intera accademia.
Il ricordo del dolore. Dolore. Dolore e solo dolore. Vi era il dolore mentale, il quale costringeva lo sprovveduto a stringere un patto col diavolo non appena si presentarono i limiti della propria vita privata. Se gli affari escludevano qualsiasi tipo di attività con la danza classica o una preparazione per il musical di Don Chisciotte, quando aveva diciassette anni, insomma con cose non inerenti alla sua fede classica, allora era solo tempo perso.
Quelle futili cose erano perdite di tempo, lo diceva la danza.
Park Jimin era una fottuta macchina da guerra artistica, l'unico nella sua classe a essere nato con una bravura e un perfezionismo fuori dal normale: gambe lunghe, ginocchia e caviglie strette, larghezza del bacino contenuta, elasticità impressionante, assieme alla capacità di saltare e la flessibilità della schiena; il collo del piede era in allineamento tra ginocchio, malleolo e dita del piede e garantiva, in quella maniera, un aplomb perfetto dell'arto inferiore del ballerino.
Jimin si mostrò dotato del collo del piede perfetto, l'aveva allenato per bilanciare le risposte propriocettive e garantirsi una carriera, lunga e lontana da infortuni. In parole povere ogni parte di lui era stato creato a pennello per ballare.
Nonostante la serietà impartita e inculcata, come la totale obbedienza verso i direttori artistici, un cuore a malapena schiuso e dell'emozioni costruite solo per lo spettacolo, a vent'anni era cordiale.
Fuori dalla sala da ballo era dolce, paziente e comprensivo, ma erano lati di lui che non tutti potevano sapere.
Ora a quasi trent'anni e undici di carriera professionale, fuori e dentro la sala da ballo, manteneva lo stesso muro grigio di perfezione e non era mai stato un soggetto così stupido da aprire il cuore a chiunque.
O meglio, accadde solamente una volta ma per lui, l'amore, il concetto di emozioni sincere e non scaturite dalla finzione del balletto, furono la sua più grande rovina.
«E quindi sei di nuovo qui, all'ABT» una rauca voce interruppe il personale segmento di ricordi fino a riportarlo al presente. Vicino a lui, seduto su una sedia con cuscini blu incollati sopra, vi era un vecchio collega del passato.
Igor Kuznetsov, un ballerino russo nato nei confini di Mosca, a Ryazan, non si sforzò minimamente di mascherare il suo fottuto accento dell'Est per nulla al mondo. Jimin alzò le sopracciglia e lasciò il suo caffè senza zucchero — oggetto chiaramente più interessante di Igor — per obbligarsi a guardarlo senza troppa enfasi.
Quel pomeriggio il palco sarebbe stato a disposizione per le prove di alcune classi dell'Accademia di New York e Jimin, annoiato e con lo stomaco in ribolle per la mattina appena trascorsa a sgridare la tizia coi pom pom sulla testa, si era rifugiato nel teatro.
Pessima scelta — quella era ancora una mandria di quindicenni con gli ormoni a palla che a malapena reggeva quattro lezioni a settimana: chi diavolo gli aveva dato lo Schiaccianoci come saggio!?
Il maître — un coglione trasferitosi da poco — urlava continuamente e sentiva la lingua incespicarsi per colpa del pessimo francese che sbraitava senza fiato. Si era fatto due anni a Parigi durante il suo periodo nella compagnia dell'Opera Nazionale e si era dedicato a una profonda cultura su ogni fottuta terminologia francese e quella che usciva dalla bocca del maître, cazzo, sembrava solo merda masticata.
«Beh» secco e di poche parole, continuò «Se mi vedi vicino a te e non a Londra mi sembra ovvio, sennò devi diminuire gli acidi» si portò il caffè alle labbra e tornò a guardare i ragazzi.
Igor si grattò la guancia con un piccolo accenno di barba e alzò le spalle, guardando davanti a sé: «Sono pulito da anni ormai. Da dopo che sei andato via a essere precisi»
«Interessante» constatò velatamente sarcastico Jimin, sempre più impegnato a tenere sottocchio quelle piccole mine traballanti.
«E insegno ora, a quelli del secondo livello dell'Accademia mentre sono libero dai programmi della compagnia. Sono sempre un paio di dollari in più dentro le tasche» Jimin alzò gli occhi al cielo: come se Igor Kuznetsov ne avesse seriamente bisogno con tutti gli sponsor che aveva.
«Insegni a questa classe?» allungò l'indice verso il palco mentre il resto delle dita si appicciava alla carta del bicchiere. Igor annuì soddisfatto e Jimin pensò bene di smorzare le sue lodi. «É disordinata. Fuori tempo e immatura per affrontare lo Schiaccianoci. Per caso ti manca la madre patria, per avergli assegnato un saggio del genere?»
Igor sghignazzò, per niente stupito dal solito astio di quel sud coreano del cazzo: amava inzuppare ogni sua frase con del solito sarcasmo.
«Sento odore di razzismo» annusò l'aria con un lungo respiro Igor. «Allora ti consiglio di farti una doccia» bevve un altro sorso Jimin, «chiamala ennesima conferma dell'immagine stereotipata che coltivo nei tuoi confronti»
«Onorato di essere sempre tra i tuoi pensieri illustri R-Ice Man, anche se da quel che ricordo... una volta preferivi le donne» raccattò anche il suo caffè zuccherato, al contrario di quello del suo vicino, e ne beve un sorso con un angolo della bocca sollevato all'insù.
R-Ice Man era una religione per Igor. Un connubio perfetto tra razzismo e stereotipo asiatico, insieme a una cattiva cultura di Top Gun, riso bianco e pura volgarità coltivata da una mentalità campagnola boschiva, finendo col creare il leggendario soprannome di Park Jimin.
La prima volta che lo chiamò così Jimin ci mise circa un quarto d'ora per capire il gioco di parole; forse il suo cattivo inglese all'epoca giovò poco il black humor; forse non aveva mai visto Top Gun in vent'anni di vita — cosa molto più probabile visto che non sapeva chi fossero Iceman e Tom Cruise. E sempre forse; fondamentalmente a Park Jimin non gliene fregava un cazzo di Tom Cruise, Iceman o se veniva additato come il mangiatore di riso e verdure asiatico della compagnia.
Semplicemente quando scoprì il significato del soprannome non batté ciglio, riprese ad allungarsi le punte con l'elastico sotto la pianta del piede esordendo «Russo bastardo ubriaco» perché dieci anni fa non riusciva ancora ad amalgamare bene l'inglese come adesso.
Erano i botta e risposta che Igor amava di più in assoluto quelli con Jimin.
«Le preferisco ancora» gli lanciò uno sguardo con la coda dell'occhio per qualche secondo, «Anche se con chi mi intrattengo nella mia vita privata non sono affari tuoi»
«Certo, so però che Parigi é rinomata per essere... erotica. Mi chiedo quale ruolo abbia fatto un finto conservatore rigido come te» lo prese in giro, «o quali esperienze consumate. La tua sbarra riesce a essere flessibile anche al di fuori della danza?»
Le guance di Jimin si velarono in un accenno di rosso ma lo mascherò con la mano che si piantò nel lato della tempia. Non avrebbe di certo sbandierato che cosa aveva fatto nel suo periodo parigino — da quel che ricordava era più ubriaco che sobrio — o delle tipe che si era fatto.
«Spero che la tua si alzi meglio dei mediocri relevé che hai insegnato a questi cadaveri ambulanti»
Igor scoppiò a ridere: «Lo prendo come un sì. Cazzo lo sapevo che fate solo finta di essere dei verginelli, ma appena ne avete l'occasione siete peggio dei bambini col cioccolato. Mi sei mancato nanerottolo. Senza di te era un mortorio»
Jimin oltrepassò senza problemi la provocazione sul suo ennesimo stereotipo e la normale statura — Igor deteneva l'altezza più alta di tutta l'ABT con un metro e novanta cinque di verticalità. Ma era un tronco paragonato alle linee scattanti di Jimin — e sentì un leggero sollievo al centro del petto. Quello era il primo e sincero complimento che riceveva da quando era tornato sul suolo newyokese, l'unico che non riguardasse il suo ritorno solo a scopo conveniente per la sua fama, ma come un semplice vecchio membro della famiglia.
«Stento a crederci che sto per dirlo ma: anche tu mi sei mancato, tranne il tuo merdoso inglese-russo del cazzo, fottuto ubriacone» fece un ghigno e lo guardò sorridere.
«É bello averti qui R-Ice Man»
«Già... ma la tua classe continua a fare schifo»
Igor storse il naso e incrociò le braccia al petto, scivolò sulla sedia con le gambe un po' più aperte ma, a causa della sua altezza spropositata, le ginocchia si accavallarono sui sedili anteriori. «É la classe di Phillip, io tengo solo qualche corso di aggiornamento per quei marmocchi in modo da tappare i buchi sui ritardi della compagnia. Se non si sbrigano a trovare un finanziatore per lo spettacolo andrò a esibirmi da un'altra parte» gli spiegò, «Mi sono stancato di aspettare»
Jimin si toccò il mento e mormorò tra sé: «La situazione é davvero pessima da come mi ha detto la Collins via email?» Igor fece una smorfia di scherno e imprecò in russo. «Bliad!» biascicò.
Jimin ruotò gli occhi verso le travi del teatro: saranno passati comunque quasi cinque anni da quando se n'era andato, ma le parolacce spicciole in russo di Igor erano le stesse. E ormai aveva imparato a conoscere quasi tutte quelle che uscivano dalla sua bocca sporca. Mentre invece per Igor, col coreano, si era limitato a Shibal!
«Dopo tutto questo tempo provi ancora dell'astio per la nostra vecchia maître?» lo derise incredulo. «Vecchia lo era per te, faccia da culo» ribatté sfacciato, «Per me lo é stata fino a poco tempo fa. Un cazzo in un occhio avrebbe fatto meno male delle sue urla contro i timpani»
«Non sei tu quello che proveniva da una lontana scuola di danza del Ryazan dov'era usuale ficcare gli spilli nelle gambe a chi non correggeva le posizioni scorrette dopo il primo richiamo?» gli chiese sarcastico ripetendo la stessa storia con la quale Igor cercava di impressionare ogni stupido americano con un quoziente intellettivo pari a scrivania, «sentirti lamentare così, come una fighetta e per un paio di strilli, non mi sembra molto da uomo vissuto»
Igor aprì la bocca per rispondergli ma restò a secco di risposte; l'aria gli asciugò la gola e si schiarì la palla di saliva per mandarla giù nell'esofago.
«Fottuto coreano del cazzo» sibilò sfacciato, «Tornando al discorso di prima e sui problemi della compagnia: é tutto vero. Non so quanto tu abbia fatto bene a tornare qui adesso»
«Cos'è successo nel frattempo?» domandò serio e lasciò stare gli inconvenevoli del passato.
«Non lo so, vorrei dirti che la gente si è stufata del teatro fosse una riposta abbastanza esaustiva ma... Non lo so» mormorò.
«Cosa non sai?»
«É come se mancasse qualcosa. Le persone venivano per te Jimin, per R-Ice Man salterino, o per le finte enemies to friends che lanciavamo a suon di assoli, quelli cazzo erano tempi d'oro. Mentre negli ultimi anni ci sono stati solo piccoli spettacoli con solisti che non spiccavano come dovrebbero, qualche recensione medio alta su un paio di paragrafi del Times e basta» si interruppe per strofinarsi la faccia a smascellarsi la mandibola, «Ma le cose cambiano, non restano per sempre e se non sei R-Ice Man, finisci come me» si indicò con entrambe le mani.
Jimin, dopo quella risposta, sbuffò annoiato. «Quindi saresti da buttare nella spazzatura? Eravamo i due prediletti sul palco una volta, ma se mi permetti lo siamo ancora» obbiettò un po' offeso: non erano mica dei dinosauri, anzi, nonostante le nuove generazioni erano ancora i migliori.
Igor lo interruppe con una risatina fina: «Tu lo sei»disse. Jimin negò ancora: «Fottiti, scemo coglione. Sei solo diventato un pigrone di merda, spiegami infatti per quale motivo non ti ho più visto nel tour della scorsa stagione»
Era vero. I media elogiarono i successi di Park Jimin alla Royal Ballet e nel suo tour nazionale, insieme a un paio di date internazionali, ma di Igor Kuznetsov? Dove diavolo era finito il suo braccio destro, la nemesi per eccellenza, una volta lasciata l'ABT per fuggire in Europa? Erano stati i migliori, Jimin lo era ancora... ma il russo?
«Perché io stesso ho scelto di non fare provini nell'ultimo anno»
Jimin si alterò stupito: «Diavolo no! Tu sei il figlio di puttana più stupido che conosco: per che cazzo l'avresti fatto!? Dopo i sacrifici di una vita!?» gli afferrò la manica della giacca per avvicinarlo a sé e fissarlo dritto negli occhi color ghiaccio.
Era uno dei pochi, come lui, a essere stato trasferito da un paese opposto al suo, subendo un traumatico cambio culturale addosso senza nemmeno sapere la lingua inglese. Erano amici anche perché su certi aspetti avevano vissuto la stessa vita.
Igor ridacchiò, apprezzando quel complimento velato: «Ho trentacinque anni Jimin, quando sono entrato all'ABT avevo solo un paio di anni in più di quelli che hai tu adesso. Io sono un ballerino, vivo per la danza. Ho sempre vissuto per la danza. Ma sento che sono arrivato a un punto dove mi chiedo: e ora? Cosa faccio? Amo quello che sto facendo ora però non nutro la stessa fede che avevo anni fa»
«Quindi andrai via? Abbandonerai la danza?» domandò senza alcuna emozione.
«No» lo tranquillizzò mentre sentiva la mano di Jimin lasciare la presa su di lui. Lo vide grattarsi la testa e scompigliarsi capelli confuso. «Allora non ti seguo. Qual é il problema?» per Jimin era impensabile il discorso che stava facendo il suo collega: era un ballerino provetto con una carriera alle spalle, cosa voleva di più dalla vita?
Non era nemmeno così vecchio il bastardo!
«Non c'è nessun problema. Ho deciso di allentare la presa e apprezzare altro. L'altro che é al di fuori del culto della danza e della mia amata prigione nella quale mi sono rinchiuso per anni» si fermò per intercettare lo sguardo smarrito di Jimin, «Sto rivalutando semplicemente delle priorità; cambiare aria, forse compagnia o addirittura città. Forse voglio innamorarmi davvero e sposarmi. Forse voglio aprire una scuola tutta mia... insomma Jimin! Sento il bisogno di dare un senso alla mia vita»
«Non capisco: ballare per te non é abbastanza per avere un senso?»
«No. Non lo é più» disse é questo ferì leggermente Jimin, «Ma non mi aspetto di essere capito, benché meno da chi ha il talento nel sangue e non sente altra ragione di essere felice se non in una stanza da ballo. Tu, dopotutto lo sei vero?» glielo chiese incerto ma era impossibile che Jimin, il perfezionista, non lo fosse dopo il successo raggiunto.
La musica del pianista continuò indisturbata ad accompagnare i ragazzi nel ballo; i piedi scalfivano il suolo del palco con tonfi rintocchi, uguali a quelli del cuore che premeva dentro al petto dell'etoile.
Jimin si raggelò. Si immobilizzò davanti a quella domanda, forte e unica nel suo genere, una di quelle che non gli veniva fatta da quando era ancora a Busan. Circa vent'anni fa.
«Io...» esitò in difficoltà.
Esiste il concetto di vera felicità?
Non lo so. «Sì lo sono. Sono arrivato dove volevo essere» E ora? Una volta in cima cos'altro puoi ottenere? «Quindi: certo che sono felice»
Lo era davvero?
«É quello che volevo farti capire» spiegò Igor ignaro dei reali pensieri che rimbombavano nella testa di Jimin, «Te sei felice e questo ti basta, perciò non puoi capirmi. Io al momento non lo sono più e mi logora dentro» e disse, «Ma comprendo che questo discorso, per uno come te, sia difficile. La danza ti basta, non cerchi altro e non ricerchi l'amore. Tu, in primis, ti tieni lontano dall'amore» ma non appena Igor sputò l'ultima frase, preso dall'enfasi del momento sentimentale, si diede del deficiente da solo.
Socchiuse gli occhi e guardò negli occhi Jimin; trovò il coreano con lo sguardo perso e qualche ciocca sul viso. La mascella magra si contraeva verso l'alto in modo ritmico sotto il tagliuzzamento dei denti sulla lingua. Sembrava scoppiare da un momento all'altro ma non sarebbe mai accaduto.
Se l'avesse fatto avrebbe dato importanza a una cosa che non esisteva più per lui.
«Scusami» usò la sincerità e la serietà, «Parlo sempre troppo»
«No, tranquillo» la voce uscì stranamente calma. Jimin tornò a frantumarsi gli occhi sulla classe mentre stese la schiena sulla schienale. «Alla fine non hai detto niente che non rispecchi la realtà dei fatti»
«Mmh» Igor lo guardò con la cosa dell'occhio ed emise un verso basso, quasi in assenso, «Sì. Certo. Credo che tu abbia ragione. O almeno é quello che dici di volere»
«Io non voglio niente Igor» la sua voce penetrante divenne una cantilena perpetua, calda e rovente, «Io ballo e basta, del resto non me ne frega niente»
Igor fischiò a bassa voce: «Ecco perché ho visto le matricole piangere dopo le tue lezioni. Sei un maître intransigente, pignolo, esigente e altezzoso. Se una delle tue cucciole si stira un piede che cosa penserai di dirle? "Balla e basta, del resto non me ne frega niente"?» scimmiottò imitandolo.
Jimin inorridì sia per la pessima imitazione e sia per il cucciole vomitato dalla sua bocca.
«Sono grandi abbastanza per capire cosa fare da sole» spiegò il concetto abbastanza ermeticamente, «Non sono nemmeno un vero maître, do una mano alla Collins perché qua dentro sembra che nessuno abbia più voglia di lavorare»
«Cristo. Hai ventinove anni o sessantacinque?»
«Vaffanculo! Diresti la stessa cosa se vedessi il livello base della compagnia: cercano, assumono e poi? Quando arrivano qua li lasciano così da soli allo sbaraglio, come se fossero già pronti per un lavoro del genere. Ma, attenzione, perché arriva lo spoiler: non lo sono. E potrei darti mille motivi ma poi mi interrogo: come potresti mai saperlo se a malapena fai più parte della compagnia!?» ribollì sarcasticamente; insistette perché da quando era arrivato a New York aveva visto Igor, sì e no, un paio di volte di sfuggita ed erano giorni che non si allenava più con la squadra.
Anzi a questo punto di chiedeva se ne facesse più parte: i primi ballerini andavano e tornavano dopotutto, che si trattasse di girare il mondo e ballare in Russia o per Londra, era indifferente. Firmavano contratti multipli e consumavano esibizioni anche in occasioni non tributati alla danza, Park Jimin venne addirittura riconosciuto come etoile e primo ballerino contemporaneamente in più lavori artistici. Quindi Igor si trovava di per certo nella stessa barca, però il russo non aveva la bocca così larga da spifferare i suoi intrallazzi ai media.
«Eccolo che ci risiamo» disse Igor, «Ammetto di essere stato superficiale e poco professionale per non aver incontrato le nuove matricole del gruppo ma tra le mie lezioni, gli sponsor e i vostri allenamenti non riesco ancora a sdoppiarmi» esordì scherzoso e gli mise una mano sulla spalla, «E da quello che mi hanno raccontato non avete ancora iniziato a unire i nuovi con noi» noi: ovvero i senior del gruppo.
«Ancora no...» sbuffò stanco, questa cosa non piaceva neanche a lui, «Quando avremo il via libera per gli spettacoli d'inverno allora sì, noi ci uniremo a loro. Ma per il momento terranno i veterani separati a fare i fatti loro, suppongo che sia per le collaborazioni esterne» che grandissima cazzata a parer suo. Tutte queste divisioni gli davano noia.
«Che sistema del cazzo» borbottò Igor, «Odio i piani dei nuovi direttori. Da quando Joy Milles ha tirato la corda qui dentro é diventato una totale merda e ancora insistono nel far passare l'ABT come il meglio in circolazione. Invece non lo é. Ma lo é la NYCB e avrei preferito mille volte un dito in culo che ammettere questa cosa»
Al nome della compagnia in lista di concorrenza Jimin rabbrividì e chiuse senza controllo i pugni sui braccioli blu. Anche lui avrebbe preferito una qualsiasi tortura che dar credito a quella compagnia corrotta, ma i numeri e la crescite sulla carta confermavano che ora, la NYCB, l'altra prestigiosa compagnia di ballo di New York, stava già lavorando con successo per gli spettacoli d'inverno.
Mentre loro, lì dentro, perdevano tempo dietro a un direttore artistico che di pratiche burocratiche ne aveva le palle piene, tanto da strisciarle a terra, sbolognando in fine altre scartoffie al consiglio di amministrazione. In pratica dopo mesi e mesi l'ABT si ritrovava ad avere un marketing di merda e incapace.
«É difficile abbandonare la casa che ti ha cresciuto, penso che sia per questo che continuiamo ad aggrapparci a questo posto quando sappiamo che fuori c'è un'aria migliore» sussurrò Jimin con lo sguardo perso e Igor inclinò il capo, guardando per terra. «Tu sei riuscito a farlo, ma sei comunque tornato»
«Sai il motivo per cui l'ho fatto,» una malinconica serietà fuoriuscì dalle corde vocali, «del perché sono andato via» del perché sono scappato, «e se non fosse successo... quello che é successo» sentì un groppo pungergli la gola, «forse non vi avrei mai lasciato»
«Quel che é passato, Jimin, ormai é passato. Cogli il meglio dalle brutte esperienze e pensa a come hai girato il mondo e ballato come primo ballerino a Parigi e a Londra. Ti sei esibito in Italia e sei tornato a visitare il suo paese. Ricordati di questi successi quando ti guardi indietro: sei scappato, hai ragione, ma ora sei qui» sorrise cordiale, «É questo che dimostra che non sei un codardo» mise in mezzo a loro una mano e aspettò, con intrepida attesa, che Jimin sbatté la sua lì sopra.
Jimin la guardò e lo ringraziò con gli occhi; a parole non era bravo quanto a ballare ma Igor questo lo sapeva. Sapeva anche che Jimin, sotto a quegli strati di ghiaccio e muscoli, tutelava un cuore grande come una mano; sapeva che nonostante le urla saccenti lui avrebbe passato le notti intere ad aiutarlo fin quando la sequenza non fosse perfetta; sapeva del silenzio di Jimin sulle questioni personali, dipendente da un dolore psicologico che non era ancora in grado di affrontare; Igor sapeva che su Jimin avrebbe potuto contare anche se fosse stato dall'altra parte del mondo.
Igor sapeva già tutto, bastava così, il resto non era importante.
Schiantò la mano e schiaffò un cinque come ai vecchi tempi; ironizzando come i gesti americani fossero così stupidi e mediocri, eppure funzionali.
«Grazie, russo ubriaco»
«Figurati, so di essere il migliore quando si tratta di dare consigli»
«Ma non sei il migliore a insegnare» disse Jimin per smorzare la tensione e Igor ruotò gli occhi al cielo risentito. «Non mi farò dare lezioni di danza da uno che fa scappare i propri allievi»
«Questo non é mai successo»
«E invece sì R-Ice Man! Ho orecchie e occhi dappertutto e lascia che ti rinfreschi la memoria su che cosa voglia dire insegnare: sei un mentore Jimin, la loro figura spirituale e per quanto tu spacchi il cazzo sulla perfezione ecc, devi capire che non tutti sono come te» gli fece capire, «E hanno bisogno di una spinta»
«Fanculo. E questo chi cazzo l'avrebbe detto!?» sbottò Jimin offeso, era appena stato classificato come un mostro insensibile, «Sono un bastardo? Si é vero, ma lo sarei ancora di più se gli sbattessi in faccia che tutte quante loro, ora come ora, potrebbero ricoprire appena il ruolo del corpo di ballo. Dammi pure dello stronzo ma non sono un falso»
«Andiamo, lì dentro c'è del talento o i nostri direttori non avrebbe preso nessuna di loro. Judite Dixon, per quanto quella ragazza sia un dito in culo, é brava—»
«Tecnica sufficiente. Buona presenza scenica ma ben lontana per diventare prima ballerina quest'anno»
«Okay... Ma Cameron Hall—»
«Tecnica appena sufficiente. É ancora troppo instabile durante i giri e ha l'irritante abitudine di guardarsi allo specchio» grugnì robotico. «Dobbiamo continuare a fare questo gioco? Seriamente?»
La risata nasale di Igor si inceppò in gola. «D'yavol» ci pensò un po' di e mormorò attento: «Invece, Nora? L'hai vista?» Il respiro di Jimin si mozzò; si aspettava che la conversazione avrebbe preso questa piega prima o poi.
«Sì... appena sono arrivato» mormorò teso. «Mmh,» lo stette a sentire Igor, «E..?»
«E ha una buona tecnica, quasi perfetta» provò a parlare senza tradirsi per colpa del disagio che provava solamente a sentire quel nome, «Anche la presenza scenica é okay. É brava» si sarebbe meravigliato del contrario da come se la ricordava, «Manca di personalità, ma potrebbe diventare, un domani, una prima ballerina»
«Wow, sentir uscire queste parole da R-Ice Man é... agghiacciante? Non concedi mai un complimento» lo provocò. Jimin ruotò gli occhi al cielo: «Li faccio. Quando una cosa é fatta bene lo dico. Fine»
«Mmh sì?» chiese mostrandogli un sorriso un po' perso, «Immagino quale commento tu abbia fatto o detto per far frignare una matricola»
Jimin sbottò: «Ancora con questa storia!? Nessuno é uscito piangendo dalla classe, per l'amor di Dio!»
«La ragazzina di oggi mi fa capire il contrario» ridacchiò e Jimin si immobilizzò confuso. Ragazzina? «Eh? Di chi stai parlando?»
«Stavo passando davanti alla classe per andare a pranzo e, proprio in quel momento, mi passa davanti una mina vagante che frignava. Chi può essere stato se non R-Ice Man a farla piangere con i suoi complimenti azzeccati, consoni e non falsi?» domandò con finta ironia mentre Jimin, con le idee un po' più chiare e uno strano senso di colpa addosso, chiese: «Oggi? Com'era fatta?»
Igor ci pensò su: «Non l'ho mai vista. É un volto nuovo. Aveva due codini in testa e due occhi... vivi, per quel poco che ho visto era molto carina. Come si chiama?»
Ray Morgan.
«Merda»
Lo Stai bene? di Rachel tornò a ruotarle in testa tanto quanto le parole di Jimin sulla sua ultima lezione tenutasi la mattina stessa; erano ormai le sei del pomeriggio e le giornate si erano accorciate così tanto da mostrare il buio soffuso dell'autunno, attecchito sulle vetrate di New York. I palazzi, come quello dell'ABT, erano già illuminati da calde luci champagne in modo da non disturbare gli occhi a chi preferiva lavorare fino a tarda sera.
Era sabato e le lezioni erano ormai terminate anche per le matricole della compagnia; Ray Morgan però aveva preferito dondolarsi in un fastidioso lamento combattuto, oscillante tra il fatto che fosse fin troppo permalosa per prendersela in quel modo e che Jimin era stato — oggettivamente — troppo duro con lei. O che forse lei non doveva trovarsi lì e basta.
Era un corpo vuoto che non seguiva più quello che diceva la mente da troppo tempo. Quindi biasimava seriamente un etoile di successo che le intimava di andarsene prima che fosse qualcun altro a dirglielo con più cattiveria?
Si guardò allo specchio e vide due gambe magre e libere dalle calze color carne di quella mattina, scoperte da una gonnellina bianca, sottile e leggera al punto che mostrava tutte le linee del suo corpo. Era persino senza mutande a fascia — quelle dei body interi —, obbligata in quella maniera a indossare un paio di slip di cotone sotto la gonna.
Le lavatrici non erano il suo forte.
Scorse dal riflesso due occhi grossi ma assottigliati alla fine: erano la conferma delle radici del lontano oriente di sua madre. E la fronte altrettanto mascherata dalla frangia, come lo sguardo, cercò di oscurare il dolore che trasudava quest'ultimi.
Li chiuse, tentò di respirare per sentire il flusso del suo corpo e pensò a quanta fatica avesse fatto nella sua vita per essere lì ora, alle soglie della sua carriera e alle appendici di un sogno lontano.
Ricordò quando a tre anni sua madre la portò alla prima lezione di danza a Blackwell, dove in tutta la contea di Forest vi saranno state a malapena due scuole. Era un centro così misero e spoglio, legittimato a vivere per un reddito sportivo e per niente pratico a chi aveva talento, che era quasi impossibile contenere l'evidente bravura di Ray.
Per quanto fosse timida e silenziosa, per niente simile alle sue coetanee piene d'invidia, portava a casa il compito con successo. Ma il suo era un atteggiamento che non piaceva alla concorrenza: quell'essere buona e imbarazzata perennemente, il volto vergine e privo di pensieri, stonava per essere la migliore del piccolo centro di Blackwell.
Se era così brava doveva essere abbastanza stronza da non farsi mettere i piedi in testa da nessuno: perché soltanto così i migliori potevano vincere. E Ray non era una vincente, era una che si accontentava. Sorrideva per circostanza smorzando l'angolo destro delle labbra piene, la testa tra le nuvole e per il resto non esistevano stupidi vincoli tossici per inacidire il suo spirito.
A Ray non importava mai niente di tutto questo.
Quando si resero conto che aveva talento, la forza d'animo e quel briciolo di tecnica per spazzare via l'invidia della classe, sua madre decise di farsi i chilometri fino a Madison — capoluogo del Wisconsin — ogni giorno per presentarla in una scuola più prestigiosa; una fottuta accademia in mezzo al verde, ai palazzi bianchi delle vecchie colonie inglesi e la puzza di lago dopo ogni cartello di via d'uscita dalla città. A sedici anni iniziò a raggiungere l'accademia col treno, dopo la scuola, tornando all'ora di cena con grossi lividi ai piedi ma con il sorriso in volto fino a prendere il diploma.
Aveva imparato a prendersi cura del suo corpo: si era prefissata di star lontano dal fumo dopo che a sua zia Dan-He le avevano diagnosticato un cancro ai polmoni al primo stadio. E come se non bastasse persino a suo zio Jack, un vecchio campagnolo dalla classica camicia a quadri e taglia legna, linea di sangue paterna e puro americano, era bloccato in un lettino a Milwaukee sempre per un cancro ai polmoni.
A volte sentiva la necessità di calarsi qualcosa di più forte di un bottiglione di vitamine e omega3 per avere energie senza sforare la linea dritta e rigida della danza. Sapeva che il fumo dava potere. Lo vedeva da come le sue compagne passavano tutti i buchi liberi a colorarsi la gola di nero dal fumo prima di una lezione. Ma era una dipendenza troppo forte e dolosa per lei, perciò abbassava gli occhi quando qualcuno gliela offriva e rifiutava con garbo.
Fuma troppo, borbottava ogni volta sua madre quando il marito tirava fuori il discorso di suo fratello malato, e lui ci dava giù pesante Steven! É inutile che lo giustifichi! Quei dannati sigari, che Dio mi tolga dalla bocca quello che sto per dire! — Steven Morgan, marito di Oh Yunseo e padre di Ray, era obbligato a dare ragione a sua moglie. O l'avrebbe di sicuro strangolato nel sonno con le reminiscenze della vecchia scuola di Daegu.
Erano comunque dei discorsi che nascevano a tavola mentre tutti banchettavano con cibi di normo calorie e dolci dopo i pasti, in quel caso Ray preferiva allontanarsi con una scusa a causa della tentazione che la spingeva a trasgredire la sua solita dieta. O addirittura rompere la promessa e iniziare a fumare per dimenticare il dolore e la fame.
Erano sacrifici. La vita di un ballerino era costruita soltanto da continui sacrifici e ognuno di loro cercava di rincuorarsi ricordandolo, che alla fine dello spettacolo e del successo, sarebbero state spille lontane di una vita rigida che ad oggi avevano portato grossi frutti.
Ma il carattere? — Dio, con quello nessuno poteva farci niente se non imporsi di costruire una corazza per evitare i maggiori acciacchi degli insuccessi.
A volte bastavano le parole di un maître appassito dall'insoddisfazione della propria carriera artistica, o infortuni permanenti o addirittura un figlio indesiderato, a spezzare lo spirito di un ragazzo perché, dopotutto, le parole di un insegnante avevano un grande potere. E questo non accadeva soltanto nella danza, nelle accademie o nelle compagnie di ballo più prestigiose al mondo, ma nella vita di tutti i giorni.
Perché chi deteneva un potere così grosso come quello di un mentore, o una guida, non sapeva che in realtà aveva tra le mani il futuro del mondo. E persone come Ray Morgan e tanti altri, fanno parte di questo futuro tanto quanto loro fanno parte del mondo odierno.
In passato Ray, quando ballava, non mostrava segni evidenti di timidezza. Non era così insicura come lo era adesso e questa cosa, con una possibilità come l'ABT, la stava uccidendo. E anche ora, davanti al suo riflesso scarno, continuava a piangere perché non sapeva cos'altro fare. O se farlo, farlo almeno bene. Si era distrutta con le sue stesse mani e aveva annientato la sua comfort zone.
Le punte le bruciavano ed era sicura che se avesse tolto le scarpe avrebbe visto una quantità di sangue immonda uscirgli tra le dita dei piedi. Così come i capelli disordinati dai pompom ai lati della testa — fatti poco prima — e all'addome contratto per tutte le volte che portava le costole all'indentro.
Sacrifici. Sacrifici. L'ennesima religione.
Piangeva perché non riusciva più a sentire la mancanza di gravità come un tempo. Piangeva perché si odiava. Piangeva perché era arrabbiata. Piangeva perché ciò che vedeva allo specchio era il risultato di chi le aveva rovinato la vita.
L'ombra. Era sempre lì. Nella sua testa.
Dondolò stanca fino al telefono per far partire uno dei suoi pezzi preferiti: Black Swan. Il suo più grande cavallo di battaglia personale, un pezzo orchestrato e usato nella sua immaginazione come interpretazione di se stessa nelle vesti di una goffa Odette e una spaventata Odile.
Il cigno nero non poteva essere spaventato. Il fottuto cigno nero sbagliato del Il Lago dei Cigni che sentiva di essere da tutta la vita e che mai avrebbe avuto l'occasione di interpretare in uno spettacolo del gente come protagonista: perché lei non sarebbe mai stata Odette, e nemmeno Odile.
Non sarebbe mai stata perfetta. Non sarebbe mai stata il cigno bianco. Né il cigno nero. Non sarebbe mai stata Nora Smith o Judite Dixon nel perfetto ruolo delle due nemesi. Essere Odette significava mostrare una flessuosità fragile ma aggraziata, una grazia infinita e la connessione del collo alle spalle sapiente — come un paio di ali bianche e pure —, il cigno bianco doveva splendere di gloria e stupore a causa della metamorfosi della maledizione.
Se fosse dipeso dal suo carattere fragile, leggermente triste e incerto sarebbe stata perfetta per Odette, ma il suo corpo non riusciva più a incanalare quel candore splendente. E la fragilità che l'aveva da sempre accompagnata, ora si stava tramutando in rabbia e dolore represso. A rigor di logica, non era neppure sicura, veloce, seducente e accattivante per essere Odile.
Quindi che cos'era?
Ray era il cigno nero che trascendeva il concetto di fragile perfezione (nei confronti di Odette) e spiccata sicurezza e conoscenza della propria sessualità (come Odile), ed era reale al fine di modificare gli equilibri ed essere un imprevisto che cambiava in modo radicale l'esistenza altrui e la propria.
Era un fottuto casino ingarbugliato di ambivalenza.
Era caduta al punto di essere stata stregata dalla paura, paralizzandosi in modo da non reagire dinanzi ai problemi e questo non faceva parte di nessun ruolo.
Sentì la combinazione di violìni arrivarle violentemente alle orecchie; aveva il collo e la testa curvati verso il basso mentre la gamba destra puntava in en dehors per un lungo tendu aggraziato. Quando il ritmò arrivò alzò le braccia come un paio di ali senza ossa, flessibili al punto da sembrare onde del mare. In relevé si mise sulle punte con uno scatto e, senza perdere l'aplomb del corpo, iniziò a girare per colpire l'aria — come una frusta — con i fouettés en tournant.
Gli stessi che quella mattina aveva fatto a malapena con orrore e vergogna. Sentiva come l'aria nella pancia iniziasse a bruciarle dopo il quinto ma non mollava gli occhi dal punto fisso e più si diceva che faceva male, più lei cercava di spaccare il dolore per essere onnipotente. Anche se era fragile come un tulipano.
Era arrivato al decimo. Le gambe cominciarono a tremare ma lei non voleva mollare. Al dodicesimo sentì un'unghia spezzarsi più del dovuto e al quindicesimo chiuse gli occhi piangendo in silenzio mentre continuava il suo spettacolo. Era un piccolo momento privato e cercava, per se stessa, di riuscire a fare il meglio.
Ma essere Odile e saper fare trentadue fouettés en tournant senza fatica, con un sorriso di lussuria, sicura, sfrontata e soddisfatta in faccia, era tutt'altra cosa. Poteva considerarsi l'ombra del cigno nero, eppure continuò lo stesso fino a quando non finì ugualmente i trentadue fouettés en tournant con le lacrime agli occhi, ma col cuore più leggero.
Odile avrebbe pianto?
Assolutamente no.
Ondeggiò sui piedi, mostrò i suoi perfetti attitude e gli arabesque con le braccia in perenne movimento, con ports de bras sostenuti dall'alto e non dal basso. Quelle braccia non erano rami morti come pensava. Le sue anche non erano alte come vedeva. E le lacrime che scivolavano giù dalle guance non mostravano segni di infantilità e paura, ma solo tanta grazia e passione.
Era riuscita a girare senza vedere nessun'ombra addosso dopo tanto tempo.
Con le punte ruotò prima verso le spalle, pronta a guardare il cielo offuscato di New York, poi girò ancora per altri piccoli arabesque e guardò verso l'alto, come un cigno bloccato sulla terra, incapace di volare. E spettatore della vita che correva via senza di lui. Gli altri erano pronti a volare, mentre lei no. E si accasciò sui piedi, stendendo la gamba davanti per chiudersi, dopo aver allungato le ali al cielo, fino alla punta del piede.
Era il cigno che toccava il terreno e si rendeva schiavo del suo dolore.
L'interpretazione del vuoto che conservava il cigno nero era un sentimento che covava da anni, con grande pazienza e personalità si era decisa a lavorarci nel privato. Non era una coreografa e mischiare i passi di una leggenda come Il Lago dei Cigni, con una personale reinterpretazione, non la rendeva così sciocca da vantarsene come avrebbe fatto Judite Dixon. Perché a nessuno importava del lato fragile del vero cigno nero; di Odile senza i filtri, scissa dal suo lascivo ruolo dove era la cattiva lussuriosa.
Quella era una storia.
La sua era una realtà.
Ma si sbagliava di grosso se, dopo quei trenta due fouettés en tournant e quel balletto scavato dall'animo funesto di un cuore spezzato di una ballerina, pensava di essere rimasta invisibile al mondo. Perché Park Jimin aveva visto e letto tutto quanto dal remoto angolo della porta della stanza e Ray, forse per le luci appena soffuse, o sicura di essere da sola a quell'ora, o isolata dai suoi fantasmi, non si era accorta di niente.
Jimin l'aveva osservata bene questa volta; le braccia incrociate al petto e la schiena appoggiata allo stipite della porta, mostravano una sincera curiosità dal punto di vista artistico. Nonostante le imperfezioni tecniche e le gambe molli nei fouettés, era riuscita a risaltare una reale parte di lei. E aveva una personalità nettamente superiore comparato al livello dell'intera classe.
La tecnica, come detto all'inizio, si perfezionava con lo studio. Ma la personalità e il talento erano nel sangue.
Quella non sembrava la Morgan che a malapena lo guardava a lezione: non era quella la tizia che amava vestirsi da soft-girl con i suoi ridicoli pompom sulla testa, o persino gli occhi grossi truccati e lucidi come quelli di un personaggio femminile hentai.
Non era niente che si accumunava alla debolezza, lì dentro c'era un chiaro grido di aiuto.
«Morgan!» ebbe il coraggio giusto per esporsi a gran voce, tant'è che Ray, nel bel mezzo di una pirouette, perse l'aplomb e sobbalzò. Si mise una mano al petto e guardò da dove provenisse la voce.
Sbiancò non appena vide Park Jimin appeso alla porta con una grazia innata e il volto stoico, per niente smosso da nessuna apparente emozione.«Signor Park...» morì dallo spavento, «Cosa ci fa qui?»
Jimin sbuffò indeciso, forse troppo sadico per apprezzare quell'onorifico occidentale, che lo rendeva più vecchio del solito, anche al di fuori delle lezioni, perciò la interruppe: «Togli quel signore quando non sono in classe a insegnare. Se mi chiami per nome, adesso, non ti mangio mica»
Ray sbarrò gli occhi e deglutì; improvvisamente si ricordò di quella ridicola gonnellina addosso e le sue mutandine, per non dire al vento, appiccicate al culo. Non aveva le calze e le cuciture della sua biancheria erano più che evidenti: se fosse stata un'altra ballerina qualunque si sarebbe ritrovata in imbarazzo per il suo stato scomposto. Ma non per pudore.
La danza esigeva il massimo decoro e la biancheria come lacci, reggiseni e segni di mutande, non erano permessi.
Ma Ray accantonò questo dettaglio in secondo piano e sentì su di lei l'imbarazzo di essere esposta e mezza nuda davanti a quel paio di occhi troppo scuri e neri per non intimorirla. La sua era vergogna. Anzi, pudicizia nei confronti di un maschio davanti al suo corpo esposto. E Jimin, in qualche modo, sembrò accorgersi da come chiuse le gambe e dalle guance velate di porpora.
Era impensabile — nella vita di un ballerino quasi non esisteva il senso del pudore dopo spettacoli in culotte e sospensori a reggere i genitali agli uomini. Era anche impensabile il pensiero di non poter ricevere alcun contatto fisico dal proprio partner di ballo, un contesto finalizzato all'arte e alla chimica: non c'era abbastanza spazio per la vergogna.
Questo... lo sconvolse.
«Ha bisogno—» Ray si morse la lingua e approfittò di quel margine di confidenza che Jimin le aveva concesso, «Avevi bisogno di qualcosa?...» borbottò cercando di calmare il bruciore sulle gote.
Jimin ruotò gli occhi davanti a quei borbottii mal emessi: «In realtà no» sciolse le braccia dal petto e le mise ai lati delle tasche del pantaloni, «Passavo solamente da queste parti e mi stavo preparando per uscire» guardò l'ora sull'orologio nella parete, «Cosa che dovresti fare anche tu. Che ci fai chiusa qui dentro?»
«Sì, io... mi stavo allenando» cercò di divagare il discorso su che cosa avesse fatto in realtà poco fa. Abbassò lo sguardo sul parquet mentre Jimin riprese a parlare: «Questo l'ho notato» le disse, la voce divenne leggermente arricchita e interessato, «e su che cosa ti stavi allenando?» domandò furbo, come se non avesse visto niente di quello che era appena successo.
Ray, non aspettandosi quello strano interesse, ci mise un po' a razionalizzare. «Su cosa? I... I fouettés. I fouettés di oggi e altri esercizi che mi ha dato da fare la Collins» mentì per metà. Cercò in ogni modo di non incrociare gli occhi inquisitori dell'etoile.
«Mmh» Jimin fece un segno d'assenzo e si perse a guardarla per più di qualche secondo.
Vide come cercava di fuggire da lui, dal suo sguardo, nonostante la distanza e la sua fermezza. Era tornata a essere quella di sempre, la solita Ray Morgan di ogni giorno che a lezione si imponeva di imparare qualcosa restando in fondo alla classe.
Come poteva essere così idiota?
Jimin si ridestò quando un pizzicore di freddo si asciugò sul sudore bagnato della schiena di Ray; la ragazza strinse le spalle con un piccolo movimento e i brividi iniziarono a percorrere ogni centimetro del suo corpo. Dal body bianco era possibile vederle le costole chiuse e dilatate dai respiri così come i capezzoli, diventati piccoli bottoncini sulle punte del piccolo seno, pronti a strofinare il tessuto fino a renderlo quasi trasparente.
Erano particolari ai quali era preparato e quasi annoiato dopo anni e anni di ballo; se in passato sentì il disagio causato dalle sue origini conservatrici e rigide coreane sul sesso, ora bypassava il momento come se fosse un particolare quotidiano vedere i seni delle sue compagne di ballo. Aveva aiutato ad allacciare custumi di ballerine di cui neanche a ricordava il nome.
Per non parlare di cosa aveva fatto o visto nel suo periodo parigino.
Ma, comunque, il fatto che quella trasparenza fosse stata cucita addosso a Ray Morgan, una stupida e irritante ballerina che prendeva sottogamba ogni cosa, in qualche modo lo mise leggermente a disagio. Avvertì una strana morsa nello stomaco, perciò distolse lo sguardo con educazione, consapevole che lei non se ne fosse nemmeno accorta e cercò di dimenticare quel dettaglio.
«Tutto qui?» domandò. Si grattò la voce per togliersi l'immagine del seno dalla testa e si preannunciò enigmatico. Ray, al dunque, spinse la punta del piede sul pavimento in modo da scaricare la tensione, totalmente incapace di sostenere una conversazione col suo aguzzino.
«Credo di sì» sussurrò in mezzo al silenzio, «Tutto qui» e alzò di poco lo sguardo verso di lui, cogliendolo a fissarla con un'espressione illeggibile.
Come poteva una persona così bella e perfetta impersonare la costola del diavolo, pur avendo un talento del genere?
Sembrava frustrato, come se sapesse quello che c'era in quella stanza e dentro di lei, in attesa che cacciasse fuori le palle per parlare e gettarsi ai piedi quel manto di timore fastidioso. Era come se... volesse spronarla con la forza. Ma Ray pensò che fosse impossibile: doveva essere tutto dentro la sua testa, insieme ad altre paranoie, per arrivare a pensare che uno come Park Jimin sprecasse energie per gli altri al di fuori del suo spettro egoista.
«E non hai niente da dirmi?» osò chiederle Jimin.
Ray deglutì con le palpebre pesanti e mormorò: «A proposito?»
«Di stamattina, Morgan» le ricordò quasi con una cadenza crudele, «Di quello che é successo a lezione»
«E cosa dovrei dire?»
«Non lo so» alzò le labbra in un sogghigno ironico, «Quello che vuoi. Non ti biasimo se volessi urlarmi "stronzo insensibile" dopo averti detto quelle cose» le andò in contro in modo fin troppo diretto. E se prima Ray si era sbloccata sotto la sua rigida compostezza da ballerina per respirare, ora penzolava assorta nello stupore.
L'ha detto davvero? — scosse la testa deridendosi da sola e si mosse verso il telefono per staccarlo e raccattare il borsone. «Grazie» rispose cordialmente, «Ma sono apposto così»
Jimin sollevò un sopracciglio e sentì una risatina di scherno grattargli il petto, ma la ricacciò giù.
«Giusto. Sei una di quelle persone che si limitano al silenzio» dopo che lo disse la vide gelarsi sul posto mentre gli dava le spalle, «O meglio, a fare finta di niente»
Ray chiuse gli occhi, smise di guardare il muro davanti a sé e cercò di gestire i battiti del cuore ormai accelerati. Aveva ragione: lei non era una che lottava, benché meno affrontava le situazioni per risolverle. Preferiva accusare e starsene in silenzio a logorarsi per colpa dei suoi mille complessi personali.
«Ti sbagli» sussurrò piano, per non dargli la soddisfazione. Strinse la cinghia del borsone contro il suo petto e lo udì ridacchiare.
Aveva una risata bassa e roca, era una cantilena serpeggiante. «Da quello che sostieni sembra che io mi sbaglia sempre» la derise, ripensando alla stessa risposta che gli aveva dato quella mattina, poi continuò, «davvero? Non é cosi?» domandò ben consapevole del contrario ma quella finta presa di posizione lo stava stranamente divertendo, «Allora dimmi un po' Morgan come stanno le cose. Dimmi perché mi sbaglio»
Ray trattenne il respiro.
«So di aver lavorato male questa mattina. Ho semplicemente assimilato il tuo consiglio, memorizzato i miei sbagli e provato qualche passo. Punto» dalla voce si percepì una nota d'irritazione. Ray non era una persona che tendeva ad arrabbiarsi, aveva questa strana indole pacifica addosso che a volte soffocava chi le stava intorno. Persino se stessa.
Ma Jimin, davanti a tutta questa fantasia falsa e buonismo colorato come un fottuto arcobaleno della pace, aveva la nausea. Perciò storse il naso. E ripensò meccanicamente alla risposta della Morgan.
«Quale consiglio? Quello dove ti ho detto di andartene?» rimarcò come un bastardo.
Ray cercò di mantenere la rabbia e il pianto con forza. Forzò uno sguardo impassibile e tirò su la zip della felpa.
«É tardi, Jimin» se avesse potuto avrebbe eliminato quel nome dalla faccia della Terra, «Se non hai intenzione di lasciare la stanza lo farò io, così potrai stare qui tutto il tempo che vuoi. Io ho finito» finito nella preparazione e in quel dialogo controproducente.
Jimin si morse il labbro leggermente compiaciuto per averla messa in quello stato di assenza e sbattuta via dalla confort zone. Si mise una mano in tasca e afferrò lo zaino che aveva appoggiato per terra. «Non devi, non ce n'è bisogno. Ormai ho finito e qui... non ho più niente da fare. Niente che mi trattenga» le lanciò un'occhiata sarcastica e si staccò dalla porta.
«Ti auguro un buon weekend, Morgan» fece un paio di passi indietro per girarsi ma si fermò poco dopo, con chiari segni di ripensamenti.
«Ma prima che vada via lascia che ti dica una cosa» la guardò da dietro la spalla come una specie di avvertimento: «Per quanto stronzo e insensibile io possa sembrare al di fuori, apprezzo sempre la sincera verità. Non mi pongo limiti nell'evidenziare gli sbagli altrui, sono stato allenato con queste regole e con parole di natura più dure e struggenti di quelle che ti ho rivolto oggi: la sincerità é alla base del mio insegnamento da tutta la vita»
Ray l'ascoltò attenta. Eretto nella sua rigida e maestosa postura mentre le dava le dava le spalle. Il volto di novanta gradi sembrava bastargli e lei smise di respirare per l'ennesima volta, in sua presenza, dopo quella confessione.
«Cosa stai cercando di dirmi con questi discutibili flashback sul tuo percorso? Devo insultarti? O devo ringraziarti per avermi insultata? Vuoi che... mi metta a urlare e supplicare per essere più vera?» postulò innervosita e sperduta.
«Per carità, no. Assolutamente no» le disse, «Non scendere mai così in basso Morgan, non supplicare nemmeno il più becero e insulso capannone da circo per uno spettacolo. Dico solo di avere il coraggio di essere te stessa e che quando ti faccio una domanda pretendo che tu mi risponda con altrettanta sincerità» un brivido profondo strappò i peli dietro al collo di Ray e divagò con gli occhi in cerca di un riparo.
«Non so di cosa tu stia parlando. Sono sempre stata sincera, nella vita e in sala da ballo» bugiarda.
Ma questo Jimin sembrava già saperlo. Perciò strinse la bretella dello zaino contro la sua giacca di pelle nuova e alzò appena la punta delle labbra verso l'alto: era una smorfia vittoriosa, ma anche spazientita.
«Come dici tu, Morgan. Però, magari, la prossima volta porta gli stessi fouettés ed tournant che hai fatto poco fa, al mio corso» tornò a guardare davanti a sé, «Almeno saprò che non mi stai mentendo un'altra volta, perché prova solo a dirmi un'altra stronzata sulle tue capacità e su quello che puoi realmente fare, mi assicurerò io stesso a mandarti fuori da qui a calci nel culo» abbassò lo sguardo indurendolo e pieno di rabbia verso il nulla: «Odio chi spreca le occasioni. Ma più di tutto odio i bugiardi»
Con loro non voglio averci a che fare — finì dentro di sé, lasciandosi alle spalle il malanimo.
Park Jimin se ne andò poco dopo, portandosi via con sé i suoi principi, la morale e la sua perfezione.
E lasciò lì in quella stanza Ray Morgan, con più dubbi addosso, preoccupazioni e domande. Domande che però non ebbero risposta, per lo meno quel giorno, facendosi scappare nella sua totale solitudine l'ennesima velenosa curiosità.
«Su che cosa ti hanno mentito, Park Jimin, per avvertire un rifiuto del genere nei confronti dei bugiardi?»
𝘉𝘛𝘚:
𝘉𝘭𝘢𝘤𝘬 𝘚𝘸𝘢𝘯 - 𝘖𝘳𝘤𝘩𝘦𝘴𝘵𝘳𝘢𝘭 𝘝𝘦𝘳.
ᴀɴɢᴏʟɪɴᴏ
Link dell'intera coreografia (più outfit) di Ray:
https://vm.tiktok.com/ZGJKLqa9U/
Eccoci qui con l'ennesimo appuntamento di Little Ray❤️
Inizierò con dire che abbiamo avuto un assaggio del percorso artistico di Jimin e un'importante introduzione a proposito degli enormi sacrifici che un ballerino deve compiere per la danza. Dal dolore fisico (unghie spezzate, ossa doloranti, diete, e l'abuso di sostanze che verranno specificate più avanti) a quello mentale e psicologico (essere doverosi nei confronti della danza, i rinneghi dei maître, il rifiuto delle accademie, i complessi fisici e il sacrificare la propria vita)
Sottolineo che questo é un contenuto specifico per chi é un ballerino professionista a livello agonistico, con l'intenzione di esibirsi nei teatri di tutto il mondo. E viene evidenziato come Jimin abbia più volte pensato di mollare davanti ai primi grossi muri della tossicità, ma la sua religione (quella lingua comprensibile per pochissimi eletti in natura e la sua forza d'animo) ha avuto la meglio e ora é uno degli etoile più famosi al mondo.
Non sono qui per dire se sia giusto o sbagliato, é la sua vocazione e ripeto: lui ce l'ha fatta, uno tra i tanti che hanno perso la ragione e la passione per colpa della tossicità.
Abbiamo incontrato Igor, un elemento fondamentale per il passato di Jimin e, nonostante siano due persone diverse, hanno condiviso lo stesso percorso artistico e questo ha consolidato la loro amicizia.
E, facendo attenzione, Igor si lascia scappare un importante dettaglio sia sulla felicità... che sull'amore 🤝
Arriviamo al pezzo forte: Ray. Dannazione Ray, in questo frangente, ha lasciato cadere ogni maschera e merda addosso ed é riuscita a ballare come non accadeva da tempo. E abbiamo avuto anche un pezzo della sua storia, del suo percorso artistico e di come, a differenza di molte sue colleghe, non voglia dipendere dal fumo🤍
E penso che l'analisi tra Odette e Odile sia stata abbastanza sufficiente per rendere ancora più palese il suo mondo incasinato. (Per voi ballerin* abbiate pietà se ho stravolto così tanto queste sue figure saggistiche 🙏🏻, ma era indispensabile)
Passiamo alla fine:
La conversazione tra Jimin e Ray non è casuale. Lui vede qualcosa in lei, cosa che in una settimana e mezzo non ha fatto uscire fuori a lezione, combattuto tra l'altro tra l'essere piacevolmente stupido e incazzato.
Incazzato?: Jimin odia i bugiardi dopo che...🤫 Ops
CHISSÀ.
Perciò l'avvisa: mentimi ancora una volta su quello che puoi o non puoi fare e ti spedisco fuori da qui a calci in culo. Yes Boss.
E Ray viene messa a nudo con la verità sbattuta in faccia: "sei una di quelle che fa finta di niente" 👀 ahia Ray!
Altro? Ah sì, le farfalle nello stomaco quando Jimin si sente strano e imbarazzato davanti al corpo di lei, le abbiamo? Lui poi, abituato al peggio dopo Parigi 🎪
Spero che vi sia piaciuto, alla prossima settimana! ❤️❤️
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