𝐂𝐚𝐩𝐢𝐭𝐨𝐥𝐨 𝟏𝟎: 𝐉𝐔𝐒𝐓 𝐇𝐎𝐖 𝐅𝐀𝐒𝐓 𝐓𝐇𝐄 𝐍𝐈𝐆𝐇𝐓 𝐂𝐇𝐀𝐍𝐆𝐄𝐒?






















𝘏𝘢𝘯𝘴 𝘡𝘪𝘮𝘮𝘦𝘳:
𝘐𝘯𝘵𝘦𝘳𝘴𝘵𝘦𝘭𝘭𝘢𝘳 𝘔𝘢𝘪𝘯 𝘛𝘩𝘦𝘮𝘦





Era stato un brutto affare. «Che cosa hai detto, mangia riso del cazzo?!» si avvicinò con il resto della banda dietro alle spalle, «prova a ripeterlo se hai il coraggio, così ti rimando in Cina a calci in culo!»

Jimin avrebbe dovuto pensare a come non aizzare una rissa contro quel gruppetto di stronzi proveniente da Harlem o almeno così sembrava, dal pessimo accento del quartiere. Avrebbe dovuto preoccuparsi anche di come il suo corpo, pompato dall'adrenalina emessa dal cuore, avesse allungato istintivamente una mano in aiuto a Ray Morgan, come un cavaliere Jedi, paladino della luce e della giustizia.

Ma Jimin non aveva paura di lui, o li loro, ma non voleva ritrovarsi un coltello conficcato nella pancia; era impossibile non avere paura della morte, perlomeno per uno come lui, che aveva sacrificato anni della sua vita per viverla al meglio. Eppure, sentiva che difendere Ray e dire quello che pensava davvero, anche a costo di finire con il collo spezzato, era comunque la cosa più giusta da fare.

Lui non era mai stato un attacca brighe, sapeva persino difendersi in caso di necessità ma l'adrenalina giocava brutti scherzi. Perciò avanzò, evidenziando le sue larghe spalle e allenate quanto una porta: «Sono coreano, coglione. Se vuoi, al posto del riso, ti cucio i maglioni per tua madre» di battute razziste ne aveva sentite a bizzeffe: dannazione, aveva vissuto con Igor Kuznetsov, era stato soprannominato R-Ice Man per essere un asiatico; durante il Covid 19 gli arrivarono addirittura minacce di morte causate dall'ondata razzista anti-asiatici e, seriamente, quel tizio con i connotati al contrario pensava di scalfirlo così facilmente?

«Ti ripeto che non voglio e né sono in cerca di problemi» alzò le mani poco dopo Jimin, in modo pacifico; rimaneva pur sempre un adulto davanti a quattro marmocchi. Il ragazzo — anzi, ragazzino, probabilmente non aveva nemmeno l'età di Ray —, si inalberò immediatamente. «Me ne sbatto il cazzo di quello che vuoi o non vuoi, culo giallo. Hai fatto incazzare la persona sbagliata» e tentava di allargare la sua giacca di pelle con una gestualità che richiamava i gangster di strada.

Jimin dovette per forza inarcare un sopracciglio: «Ah sì? Non pensavo di aver fatto incazzare Apollo Creed» esordì abbassando le mani, «ti avevo scambiato per un ragazzino del liceo»

Il ragazzo si mostrò visibilmente infastidito; seppur imbarazzato decise di proteggersi con le minacce: «Mi stai prendendo in giro!?»

«No. Non ti sto prendendo in giro» sospirò stufo, «quindi facciamo che io me ne vado a destra e tu a sinistra? In modo da non incontrarci più?» Ma l'altro non sembrava per niente d'accordo; cacciò fuori i pugni dalle tasche e si scrocchiò platealmente le nocche: «Non ci sto vecchio. Sai... non mi piace questo tono del cazzo, spocchioso e altezzoso. Per niente»

Per la seconda volta, in meno di un paio di minuti, Jimin corrucciò lo sguardo con una leggera arroganza ben leggibile sul volto. Di fatti uscì un colpo di tosse: «Volere una conclusione pacifica ti sembra troppo borioso? — usò tanto sarcasmo — In tal caso dovresti cambiare amici. Non sono altezzoso, a differenza vostra ragiono col cervello e cerco di risolvere i problemi senza scrocchiarmi le nocche» infine lanciò una palese frecciata. Che di indiretto e velato non aveva nulla.

Uno, che a quanto pare rappresentava il genio numero due del gruppo, seguito solamente dal tipo che voleva attaccare briga, si mostrò risentito. «Bro, il culo piatto ci sta dando degli idioti» si lagnò da dietro tant'è che lo indicò. Ma l'altro alzò la mano facendogli il gesto di tacere: «E stai zitto cazzo...» brontolò tra i denti, «l'avevo capito» poi guardò Jimin: «Mentre a te, per uno che vuole proteggere la sua fidanzatina sembri un senza palle. Forse se ci faccio un giro preferirà un paio di nocche che scrocchiano, al posto di due palle vuote che sbattono» si leccò le labbra in maniera oscena, facendolo apposta, «perché no?»

Quella frase fece storcere il naso a Jimin; con la coda dell'occhio cercò di ritrovare Ray. La vide chinata su una panchina per togliersi i pattini in modo frettoloso, ogni qualvolta lanciava occhiate preoccupate verso Jimin, vedendolo accerchiato e tutto solo. Distolse lo sguardo, lasciò perdere e tornò a guardare il ragazzino: «Non é la mia fidanzata» puntualizzò, «nemmeno una fottuta giostra sulla quale salire. Però se preferisci posso slacciarmi i pantaloni se sei interessato alle mie palle»

Questa volta non riuscì a mordersi la lingua per starsene zitto, peggiorando dunque la situazione: quel fottuto ragazzino, che sembrava uscito dal riformatorio, pensava di fare il gradasso e atteggiarsi come un re. Jimin seriamente arrabbiato, avrebbe voluto spaccargli il naso e sciacquargli la bocca con l'asfalto — cazzo se avrebbe voluto —, ma cedendo sarebbe finito nei guai ed era proprio questo a cui stava puntando il marmocchio.

Gli stava dando un motivo per picchiare un minore e passarla liscia.

Di fatti, lo sguardo del ragazzo si scurì avvicinandosi pericolosamente a Jimin. «Ora mi hai stancato, giuro che—» ringhiò tra i denti a due metri da lui. «Giuri che cosa!? Eh?» Jimin si avvicinò questa volta, alterato e senza pazienza: «Apollo Creed uscito da Disney Land. I giri che vuoi fare sulle donne, per uno come te, possono essere solo quelli al Luna Park»

Il ragazzo sembrava pronto a colpirlo, arrivato al limite, ma un paio di signore di mezza età incominciarono a cinguettare arrivando sotto il naso dell'etoile.

Jimin si ritrovò due donne davanti alla faccia e non un pugno dritto contro il setto nasale. «Ma tu sei Jimin Park? Il ballerino?» — ripeterono stupite e contente, con la gioia che abbatteva la loro mezza età fino a sotterrarla, allungandosi su di lui per chiedere un autografo.

A quel punto il tizio, con le placche d'oro finto tra i denti — e con la grossa presunzione di imitare A$ap Rocky — fece un passo indietro.

Era famoso? — fu la prima cosa a cui pensò mentre altra gente iniziò ad avvicinarsi incuriosita. Lo mandò a cagare con un gesto: aveva davanti a sé una persona famosa, con un titolo, non valeva la pena finire in prima pagina e poi in prigione per aver pestato un asiatico ballerino. Perciò lui, insieme alla banda, se ne andarono immediatamente per non avere problemi di alcun genere.

Jimin, nel frattempo, finì circondato da una decina di persone e si mostrò sorpreso, anche un po' grato, nonostante le richieste scomode degli abbracci e qualche selfie con il volto ancora scazzato. Ray, dal suo canto, arrivò giusto in tempo per vedere il suo collega conteso tra donne e bambini che si aggrappano ai jeans. Rise. Così tanto e di cuore che l'etoile la beccò in fragrante.

Ma, al posto di arrabbiarsi, le fece un sorriso sghembo. Piccolo, appena impercettibile, che fu visibile solamente da lei.

Eh sì, si era decisamente salvato il culo.











A differenza dell'insolito e grigio inizio, il percorso che si ritrovarono a fare insieme per andarsene dalla pista di pattinaggio fu diverso; il silenzio rimase tra loro, così come il vociare della gente, ma Ray percepì l'assenza del rumore come un percorso naturale — ben lontano dall'imbarazzo. O almeno, quest'ultima sgradevole emozione, la provò quando Jimin le chiese se avesse fame e se c'era altro che volesse fare in quel paese del balocchi.

Lei, persa tra i suoi pensieri, gli rispose: «Un po' di fame l'avrei...» si morse le labbra, puntando gli occhi in un locale poco più in giù, «possiamo andare lì se vuoi. Oppure... facciamo altro»

Jimin seguì la meta con lo sguardo e vide un diner dall'aria vecchio stile, anni 50' e con poca gente all'interno. Si stava facendo tardi e le famiglie a quell'ora rincasavano per portare i propri figli a letto.

«Sì può fare» alzò le spalle: almeno il posto sembrava tranquillo. Senza dire altro iniziò a camminare verso il diner e Ray lo seguì torturandosi le dita. Era da molto tempo che non ne frequentava uno: il neon dell'insegna fece rivivere in lei i suoi ultimi tentativi di approccio falliti — ancora prima di avere vita — con il nuovo mondo di New York. Le cause le sapeva, del perché avesse rifiutato ogni tipo di diner newyorkese, così come i perché: aveva paura.

Paura di rivivere la solitudine che pensava di avere sconfitto, perciò l'ansia faceva da padrona e le privava di fare attività senza certezze.

D'improvviso Jimin aprì la porta, il tipico campanello apposto all'entrata risuonò e la tenne aperta per guardare Ray. «Forza Morgan» la frase uscì un po' sghemba, «prima le signore» il braccio restò inalzato di almeno venti centimetri rispetto alla testa di Ray. Dunque, la ballerina, si ritrovò a dover passare per forza sotto quel ponte improvvisato di muscoli e stronzaggine.

Si fermò davanti a lui, a metà della porta per guardarlo dritto negli occhi: «Cambia gli occhiali da vista, Jimin. Non sono così vecchia. Tra i due, quello con probabili problemi al menisco, sei tu» rispose piccata, enfatizzando — con finzione ovviamente — le sue ossa ancora fresche e giovani.

Jimin puntò l'angolo destro della bocca verso l'alto, sinceramente divertito da quella risposta. Chinò il collo verso di lei, al punto che il fiato si schiantò sulle guance rosse di Ray. «I miei menischi stanno benissimo» avanzò di un altro centimetro, «vuoi vedere tu stessa?»

Sbarrò gli occhi, rimasta leggermente sconvolta da quella battuta fin troppo... oltre per uno rigido come Park Jimin. «No grazie. Allora buon per te...» gli rispose, guardandogli per un secondo il guizzo bianco dei denti, intrappolati dalle labbra carnose. «Ora ti mancano gli occhiali» deglutì.

«Mentre a te manca la serietà Morgan» lei poté giurare di aver sentito la punta fredda del suo naso scontrarsi con la sua, «come pretendi che ti prenda sul serio se mi parli con quel paraorecchie peloso e facendomi il broncio?» alzò la mano libera per strofinarci volutamente un pollice sopra alla cuffia bianca, stesa in protezione su tutto il perimetro delle orecchie. Sembrava una carezza leggera, molto cauta, simili a quelle fatte ai gatti all'interno delle orecchie. «Come vuoi che dica la prossima volta: prima le signore... o le bambine?»

Le palpebre tremarono, stanche di restare spalancate sotto il solco sopracciliare ma il gesto, o meglio, la carezza inaspettata non faceva parte di nessuna azione collegata alle abitudini di Park Jimin. Era un uomo che non toccava nessuno, si permetteva di farlo solamente in sala prove e a uso artistico; ora, con dolcezza, aveva finito di strofinare il suo pollice contro l'ostacolo che lo teneva lontano dal lato della guancia.

«Semplicemente...» acquistò un minimo di coraggio per distogliere gli occhi dai suoi, «nessuna delle due. Se stai zitto mi faresti un favore»

«Immagino che ora tu ti senta offesa»

Ray piagnucolò, «Jimin... stiamo bloccando l'entrata, puoi staccare il braccio e... andare?» dove non posso dirtelo — borbottò nella mente — sennò sarei troppo volgare.

Eppure dal divertimento inciso sulla sua faccia, abbastanza leggibile, era sicura che aveva ben capito le reali intenzioni della sua frase. Ma Jimin l'accontentò; tolse prima il braccio e la fece passare come un finto galantuomo. Ray, non più abituata alla stretta ferrea dei pattini, sentì una morsa attorno alle caviglie e per questo ciondolò fino a un tavolo libero.

In realtà, li dentro, vi erano appena un paio di persone e qualche coppia nascosta verso il fondo. Ray trovò perfetto il tavolo centrale, sempre esposto verso l'esterno e con la vista sulla strada. Accarezzò i divani rossi e bianchi con altrettanta nostalgia prima di sedersi.

Se li ricordava di un altro colore, forse c'era del blu in mezzo alle strisce, o forse era semplicemente la sua testa che voleva illuderla e metterla in difficoltà. Distorcendo la realtà presente come se niente fosse mai abbastanza o lontanamente paragonabile al passato; agli anni nel diner di Black Well; alle fette di torta mangiate da sola; ai ragazzi del liceo che facevano il filo alle studentesse più belle con grosse comitive nei tavoli più grandi.

Mentre ora? Sollevò gli occhi dal menù e vi trovò il cipiglio assorto di uno dei ballerini più famosi e influenti del mondo, volenteroso di finire questa serata con lei. Capì, in quel momento, che la sua testa si stava sbagliando e autosabotando per inerzia del dolore.

Perché mai avrebbe dovuto ripensare al passato? Perché mai avrebbe dovuto rimpiangere i momenti di solitudine della sua adolescenza, senza volti e calore umano, se ora, alzando lo sguardo, vi era qualcuno? Questa presa di coscienza la stravolse al punto che Jimin, moribondo per colpa degli zuccheri collocati sulla stampa del menù, se ne accorse.

«Tutto bene?» senza frecciatine o commenti maliziosi: un semplice sinonimo di stai bene? La ballerina sbatté le palpebre, lo guardò e annuì.

«Pensavo»

«A come vomitare per non sentirti in colpa?» la nonchalance di quella domanda fu l'ennesima conferma della normalità di quel mondo malato; di fatti Ray scosse la testa, accennando un sorriso: ballare e farne del ballo il proprio lavoro, ti obbligava ad accettare e a normalizzare la tossicità.

Era infinitamente triste. Una tristezza che col tempo si assopiva nelle ossa e costruiva un paesaggio bello, ma cupo: perché era così. Così era la danza.

«No... Pensavo a—» ma si bloccò, si stava davvero raccontando a Jimin?, «a questo posto, c'è n'era uno simile nella mia città natale» si limitò a spiegare. Jimin stette zitto, chiuse il menù appena arrivò la cameriera e ordinò: «Un Vanilla Shake con poco zucchero» la donna segnò tutto sul taccuino e aspettò l'ordine di Ray. Senza neppure riguardare la lista aprì la bocca e disse:«Una deep chocolate cake con la panna e un frappé alla ciliegia»

La donna alzò un sopracciglio e Jimin fece la stessa cosa; la prima si permise di chiedere: «Dividete? Devo portarvi due... piatti?» domandò un po' sconvolta che un tipo grande e in forma come Jimin avesse ordinato dell'aria con lo zucchero, mentre lo scricciolo di nemmeno cinquanta chili sembrava avere fame per tre persone.

Il ballerino negò con la testa e si schiarì la voce: «No grazie, siamo...» guardò Ray avvolta nell'imbarazzo, «a posto così»

La donna finì di segnare e andò via ancora un po' scettica. L'etoile allungò un braccio lungo lo schienale della poltrona imbottita: «Sei uscita di casa senza cenare o...»

«Ho cenato!» borbottò e guardò il tavolo, «smettila di fissarmi così»

Jimin aggrottò le sopracciglia: «Così come?»

«Così intensamente. Mi metti in soggezione, come se volessi giudicarmi perché non sto rispettando la dieta» si morse il labbro afflitta, «se interpreterò Carmen o no, non dipenderà dai centocinquanta grammi di torta che sto per mangiare»

L'altro sospirò: «Non ti sto giudicando. Non mi interessa cosa mangiano gli altri» ammise sincero. Ma Ray non si sentì del tutto sicura: «E quello sguardo?» indagò.

«Sono i miei fottuti occhi Morgan, che vuoi che faccia? Me li cavo davanti a te?»

L'altra ruotò i suoi contro il soffitto: «Non sei simpatico quando mi lanci queste risposte, lo sai?»

Jimin finse di non sentire l'ultima parte della frase. «Non ti sto giudicando, davvero. Non me ne frega niente di ciò che mangi perché sono abituato a pensare per me stesso. Vuoi che ammetta che sono stupito?» sospese la frase, «su questo ti do ragione, ma perché sei la prima che vedo, dopo anni di agonismo, mangiarsi ciò che vuole davanti ai miei occhi. É interessante»

«Interessante?» ripeté mentre arrivarono i loro ordini e si trovò quella bomba al cioccolato sotto il naso.

Il ballerino annuì lentamente: «Interessante, tutto qui» e prese un sorso del suo Vanilla Shake, cercando di non pensare a quanti zuccheri e calorie avesse quel coso. Non lo stava facendo per lui, ma per lei, per vederla felice dopo quel finale dolce amaro concluso sulla pista di pattinaggio.

Si chiese da solo da quanto fosse così premuroso.

La vide che iniziò a mangiare la sua torta in completo silenzio e non osava guardarlo in faccia, teneva la testa abbassata sul piatto come se si vergognasse.

«Questo posto ti ricorda casa tua?» chiese di punto in bianco Jimin, per rompere il ghiaccio: era assurdo, doveva essere lui quello taciturno e associale. La ballerina fermò la forchetta a metà e sollevò lo sguardo: «Sì... c'è un posto molto simile, più grande. Tipo sala giochi, con tappezzeria in vecchia moquette anni 80' e con odore di gomma nell'aria»

«Ed é lì che hai imparato a pattinare?»

Ray si sentì scossa, come se mille farfalle le avessero riempito lo stomaco e sconquassato all'improvviso. «Dobbiamo... uscire solo questa sera Jimin, non c'è bisogno che fingi di interessarti alla mia vita» tornò a guardare giù, «non ho niente da raccontare a proposito. É fin troppo semplice» quella risposta colpì Jimin peggio di un violento pugno al viso.

«Non sto fingendo. Si chiama conversazione»

«Certo...» sussurrò ironica, «conversazione che ora vuoi veramente aprire e portare avanti? Un'ora fa avevi detto che non volevi nemmeno uscirci con me, Jimin, quindi mi chiedo che cosa sia cambiato adesso...»

Il moro si morse le labbra in difficoltà.

Tutto, era cambiato tutto ed erano bastati appena tre minuti per vedere lati che non era riuscito a comprendere di lei.

«Beh, vuoi passare queste ultime ore a guardarci negli occhi e basta?»

«E tu vuoi passare queste ultime ore a chiedermi di come pattinavo nella landa desolata delle fattorie?»

Jimin si mise a braccia conserte e continuo: «Tu hai domande e discorsi migliori?» appena lo chiese Ray si fece esitante, perciò Jimin fece un cenno con la mano, «prego: non vuoi parlare di te? Allora pensa e decidi tu di cosa discutere»

Il respiro di Ray si fece pesante; nemmeno lei riuscì a capire da dove uscì quella forza improvvisa e curiosa nel farsi gli affari suoi.

«Parliamo di te» la voce sgusciò indecisa e Jimin trattenne un secondo il fiato, «e di Nora Smith»

La faccia di Jimin sembrò scalfita nella pietra: immobile, dura e grigia, priva di ombre che richiamassero emozioni umane e mostrava uno sguardo illeggibile. Ray provò inquietudine e perdizione, pentendosi di aver aperto bocca.

Poi, a un tratto, le spalle del moro presero a tremare fino a trasformarsi in piccole scosse di risa. Stava ridendo, o meglio, era una risata fin troppo sarcastica. Perciò Ray si rabbuiò.

«Morgan...» si sistemò i capelli, tirandoli via da davanti al viso con le dita prima di forarla con lo sguardo, «Non fare domande di questo calibro se tu stessa non sei in grado di affrontare problemi del passato»

Sbarrò gli occhi e balbettò: «Ma io... tu—»

«Ma tu cosa?» ripeté appoggiandosi al tavolo per avanzare col collo verso a lei, «come l'ho capito? É palese che tu non voglia esporti e lo rispetto» fece una piccola pausa prima di continuare, «ma non uscirtene con queste richieste... l'esito al quale stai pensando e che ti sei costruita secondo i tuoi piccoli indizi, potrebbero non rispettare la vera logica dei fatti» guardò poi il vetro alla loro destra: aveva iniziato a piovere dolcemente, «ed é per il nostro quieto vivere che decido di non parlarne mai»

Ray seguì il suo sguardo e notò anch'ella come le piccole goccioline di pioggia, misere e assopite dalla poca umidità di inizio inverno, iniziarono a scivolare giù lentamente contro il vetro appannato dalla luce. La vista fioca riportava appena le sagome delle persone bardate degli ombrelli, in mezzo a essi vi erano anche i più temerari, che passeggiavano noncuranti della pioggia senza alcuna protezione.

Il diner sembrava aver acquistato un calore accogliente e del tutto nuovo: le piaceva. Le stava piacendo al punto che schiuse la bocca a cuore, con qualche briciola di cioccolata in mezzo e poi puntò l'attenzione sulle gocce appisolate sul vetro.

«Ho iniziato a pattinare all'età di dodici anni, un po' come hobby quando non avevo lezione di danza dopo scuola» svelò di punto in bianco, senza distogliere gli occhi dai piccoli corsi d'acqua, «era bello. Divertente. Liberatorio. Era tante cose. Tante emozioni che avevo smesso di provare durante il resto della giornata» emise un piccolo sospiro, «ma con l'accademia a Madison facevo fatica, perciò ci tornavo giusto nei weekend»

Jimin la guardò. «Come si chiamava il posto?»

«Fantasy» Rag alzò gli angoli della bocca in un piccolo sorriso, «pattini a rotelle e ginocchia viola erano ordinaria amministrazione. C'era tanta gente la domenica e l'odore dei corn dog ti rimaneva sui vestiti per giorni» questa volta Jimin appoggiò il mento sul palmo della mano per ascoltarla. «Ti piaceva?»

Le scappò una piccola risata con le labbra tirate: «Da morire»

La poggia prese a cadere più velocemente e pesante, l'odore di bagnato si poteva sentire anche da lì.

«Rimani un mistero Morgan»

Ray girò il volto per incrociare il suo sguardo insistente: «Almeno non é uno dei tuoi soliti "complimenti"» fece una smorfia che le alzò l'angolo destro delle labbra in un triste sorriso.

«Non sto scherzando, né offendendo. Semplicemente non riesco a capirti» dichiarò con sincerità.

«Cosa non riesci a capire di me?»

Passarono un po' di secondi in silenzio. «Tutto» sussurrò pieno di sfumature, «hai appena descritto un posto fatiscente come se fosse il ricordo più bello che hai vissuto» forse lo era davvero, «hai pattinato a occhi chiusi, sembravi un'altra persona, spensierata e vera. Viva» e lanciò la bomba, «come quel pomeriggio tutta sola, all'ABT, immersa tra Odile e Odette» fece saltare la sua copertura, guardandola per dirle: "sì, ti ho vista dall'inizio fino alla fine". «Questa vitalità richiama molto la speranza, sai? Significa che credi molto in ciò che fai»

Non sapeva se continuare o no, ma vedeva che Ray non accennava ad aprire bocca da quanto fosse scossa. «Ma non é costante. Appena metti piede in sala prove diventi l'esatto contrario: costruita, statica e invisibile... quella vita che sprigioni non esiste. Mi sono chiesto se a te piaccia realmente ballare» non era un'accusa, bensì una semplice domanda, ma Ray si sentì punta dritta al suo orgoglio di ballerina.

«Non saresti la prima, né l'ultima, a essere una ballerina senza passione a cui non piace quello che fa»

Ray sembrò risvegliarsi. «A me piace ballare» pronunciò convinta, «é la mia vita. Ho speso soldi e sacrificato anni per questo»
«E te ne sei mai pentita?»
«Assolutamente no»
«Anche ora, diresti lo stesso?»
«Certo. Non mi pento di ciò che ho fatto» asserì precisa, «te l'ho detto. La danza classica é la mia passione»

Jimin sembrò pensarci un po' su, indeciso se fare il passo più lungo della gamba: «E cosa ne pensi di quello che ho detto poco fa? Sulla tua instabilità»
Ray perse il contatto visivo e si chiuse: «Cosa dovrei dirti? A quanto pare non sono abbastanza brava per essere costante»

Dall'altra parte del tavolo Jimin canticchiò sarcastico: «Credo, invece, che sia una stronzata»

La ragazza sentì i nervi irritarsi in modo impulsivo e non controllato; abbandonò la torta sul piatto e lo guardò con un'incredibile ondata di dolore che lampeggiava attraverso gli occhi. «Stronzata!? Qualche settimana mi consigliavi bellamente di andarmene, o mi sbaglio!?»

«Non ti sbagli: perché mai dovresti rimanere se non sei pronta?» domandò lecito in tutta tranquillità, «sii ragionevole Morgan: se il posto non ti piace; se non ti senti all'altezza; o se semplicemente non riesci a gestire la competizione perché dovresti rimanere?» il discorso reggeva con straziante logica, «sono quesiti che vanno oltre alla semplice passione della danza e possono incutere timore. E tu, Ray Morgan, balli in mezzo alla paura» la spiazzò, «e per assurdo la tue paure non sembrano corrispondere con gli esempi elencati poco fa»

Significa che hai paura di altro.

Jimin non aveva soltanto aperto il vaso di Pandora; era stato preso e lanciato contro l'ignoto, rotto in più parti davanti a Ray e per la fortuna di quest'ultima, intorno al suo inconscio, era così buio che ciò che vi era contenuto all'interno, con tante catene e pressione, non poteva essere visto.

Non si ricordava più come muovere la bocca, come pensare e ribattere. Davanti a lei c'era Park Jimin, svestito dalla sua solita compostezza perfetta e risoluta, seduto accanto a un frappé che andava oltre il regime alimentare della compagnia e pareva quasi umano. Un umano etereo, indubbiamente, ma che era sceso dal monte Olimpo per chinarsi sulle ginocchia e guardarla alla stessa altezza.

«Non sono costante perché a me piace ballare quando sono da sola» sentiva la testa troppo leggera e viandante, «e farlo a occhi chiusi»

Jimin si irrigidì dinanzi a quella rivelazione. Dentro di sé si chiedeva per che cosa lo stesse facendo, poi arrivava puntualmente una piccola vocina da parte del suo orgoglio a gridargli: "é per lo spettacolo! Conosci meglio la tua partner!".

Come scusa sembrava essere buona.

«E non hai paura?»

«Al contrario» ammise con uno sguardo stanco, «sto talmente bene da sentirmi viva»

E si ricordò di quando la vide ballare da sola, a occhi chiusi, il Lago dei Cigni; il pass de deux con Janssens; quando ballò insieme a lui quel piccolo e fugace attimo di tango sempre con le palpebre abbassate; poi, poco fa, gli tornò in mente di come sventrò il ghiaccio con abilità sapiente senza mai aprire gli occhi.

Tutto coincideva. Aveva trovato la sua costante. E capito la sua instabilità. Per lo meno a grandi linee, senza sviscerare più del dovuto.

«É quando sono aperti, dove tutto... e tutti sono intorno a me, che ho paura»

La guardò sottecchi: «E non hai più paura di soffrire per solitudine?» Al che Ray esitò ancora. «Sono stata sola per tutta la vita, mi é un po' difficile vederla in un altro modo»

Jimin rimase colpito e fu lui, questa volta, ad abbassare gli occhi, capendola fin troppo. Cercò comunque di mascherare al meglio le sue emozioni più intime. «Anche al Fantasy?»

Ridacchiò amara: «Oh. Specialmente al Fantasy»

«E le domeniche piene di gente?»

«Erano i giorni che odiavo di più» strinse le mani sopra la gonna di jeans, «erano i giorni dove realizzavo, più di ogni altra cosa, quanto fossi sola e invisibile in mezzo al mondo. Diventi così, sai? Quando... Quando nasci già con una vocazione dentro di te, mentre gli adolescenti a quell'età non interessa nulla se non di uscire alla sera con gli amici o di giocare e vivere l'attimo. Vivere la gioventù. E arrivi quasi a invidiarli perché vorresti essere anche tu così» si fermò per respirare.

«Vorresti essere normale, senza sentirti sbagliato. Perché poi realizzi che sei uno dei pochi ad avere questa voce che ti urla nel cuore per una passione così difficile, quindi la tua famiglia non può capirti e nemmeno i tuoi amici vogliono farlo. Quindi impari a convivere con questa bellissima maledizione. Impari a convivere con le malelingue e il body shaming. Impari a convivere sapendo che dentro la danza difficilmente riuscirai a trovare vere amicizie perché esiste la competizione» e finì dicendo, «impari a convivere con la solitudine. Ma poi torna a farsi sentire quando pensi di averla superata, mascherata nei panni di un vecchio diner di New York»

«Quindi niente del racconto di prima, sul Fantasy, la moquette anni 80' e sulle domeniche gremite di gente, si allinea a un ricordo felice» non la pose come una domanda, sapeva già quale fosse la risposta.

Perché nemmeno lui aveva ricordi felici inerenti a posti del genere.

Fu l'ennesima prova per Ray. L'ennesima prova che in realtà quel posto — Blackwell e il suo contorno — non erano vertici di alcuna felicità. Realizzarlo faceva male, ammetterlo era quasi un supplizio. «Esatto» sussurrò, «sono solo ricordi in cui ho sperato tante volte di trovare qualcosa per cui valesse la pena spendere un sorriso» poi scosse la testa rendendosi conto di essere andata oltre, «credo di avere parlato troppo. So che é una cosa stupida e non voglio passare per una piagnucolona che sa solo lamentarsi...»

Ma la fermò. «Non é lamentarsi» pronunciò freddo, «é la realtà dei fatti. É la nostra vita. Il nostro lavoro e hai ragione, il ballo scorre nel sangue, ma bisogna fare i conti con le conseguenze. Perché é una maledizione dolce amara» cercò di trattenersi e mantenere la calma senza sopraffarsi. «Ti porta su e se sei fortunato riesci a toccare il cielo con un dito, ma poi basta guardare in basso oltre i piedi per ritrovare la montagna che é situata sotto di noi: sangue, sacrifici, unghie spezzate, ossessioni e imperfezioni. Pilastri sui quali ci ergiamo e non ci permettono di vivere sulla stessa lunghezza d'onda di chi non fa parte di questo mondo»

«Dev'essere bello stare su in cima, vero? E non vedere più cosa c'è sotto»

«Tutto é bello se raccolto da una sola prospettiva Morgan. É conveniente per le nostre insoddisfazioni personali pensare che l'altro stia meglio» fu dura da ammettere, «quando tocchi il cielo e sei lassù» indicò il soffitto in senso metaforico, «scopri il terrore di cadere giù e di venire inghiottii da questa montagna piena di scheletri» ed é per questo che Park Jimin non si guardava mai indietro.

Non provava pentimento, né compassione verso il prossimo all'interno della danza perché niente durava in eterno. Un solo passo falso ed eri nuovamente giù, in mezzo a un pianto e ai sacrifici di un'intera vita passata a migliorarsi invano.

Era questo il prezzo del successo?

La danza matrigna, simile alla natura. Persiste e non sparisce, trova sempre il modo in cui sopravvivere ed é insensibile nei confronti dei suoi figli. Il numero dei ballerini decimati rimarrà variabile nell'indifferenza perché, qualunque cosa accada, lo show deve continuare — in un modo o nell'altro.

«Ed é qui che si spiega il tuo comportamento da stronzo costipato...» realizzò di getto. Si accorse dopo di aver parlato ad alta voce ma contro ogni sua aspettativa Jimin non la fulminò, bensì la comprese.

Sì stese con la schiena sullo schienale e guardò un punto fisso con amarezza, «Sono un sudcoreano che si é traferito da solo in America a vent'anni e nessuno, Morgan, si é fatto avanti per stringermi la mano, perché so che funziona così. Sei al top e arriva un novellino straniero qualunque che sa fare un grand jeté meglio del primo ballerino in carica. Tu, primo ballerino, come reagiresti a ciò?» la interrogò mettendole davanti la triste realtà dei fatti.

Ovvero il Jimin del passato che aveva rotto gli equilibri di una gerarchia.

Ray fu obbligata a rimanere in silenzio perché sapeva che Jimin aveva ragione.

«Dammi pure dello stronzo costipato, misantropo e insensibile ma comunque non cambierai le cose. Non cambierai la solitudine vissuta qui in America o nel resto d'Europa e ti sbagli se pensi che comprerò legami interpersonali col mio nome e con la fama» precisò aspramente, «fanculo. Preferisco ammazzarmi di antidepressivi sul mio cazzo di divano guardando quelle fottute foto che ha scattato il me ventenne dieci anni fa, dov'ero da solo, come promemoria di ciò che ho fatto e di quanto ho lottato per essere qui, adesso»

Oh... Ray finalmente capì la sua rabbia e il suo dolore sprigionato in quei pochi secondi. Jimin era come lei: esattamente solo e che tuttora continuava a convincersi che stare così fosse la scelta migliore. Poteva anche vantarsi di aver superato la solitudine con grande fierezza all'esterno, mostrandosi invincibile e intoccabile, ma dentro di sé quel germoglio sofferente sarebbe rimasto per sempre.

«Mi dispiace» sussurrò Ray sottotono. Questo fece accigliare l'espressione di Jimin in una un po' più confusa: «Per cosa? Tu non c'entri e non serve compatirmi, non c'è bisogno»

«Non ti sto compatendo» fece un lungo sospiro e poi tornò a guardarlo dritto negli occhi, mostrandogli quanto fossero lucidi e fragili, «ma ti sto capendo e mi dispiace» ripeté. Lo disse in maniera intensa, tanto da far smuovere qualcosa nel petto di Jimin. «E se ci fossi stata io, lì in quella sala circa dieci anni fa, accanto al Park Jimin ventenne... forse l'avrei fatto»

Jimin trattenne il respiro. «Che cosa avresti fatto?»

«Stringerti la mano» sussurrò e ne uscì un sorriso timido, un po' tremante, «io avrei voluto che qualcuno lo facesse per me. Io, per te, avrei fatto altrettanto»

Sconvolgente: Jimin definì così Ray Morgan, con un altro aggettivo da aggiungere alla lista dopo il troppo e misteriosa. E sentì il bisogno di far scalare il nuovo aggettivo in cima alla classifica in modo da surclassare il mondo come un violento uragano. Era così piccola, concentrata nelle sue illusioni e fragile, eppure quando apriva bocca — se voleva — sapeva come travolgerti.

Sapeva conquistare col cuore, mandando al diavolo ogni corruzione basata sul sesso, fama e denaro perché non ne aveva bisogno. Forse nemmeno lo sapeva di essere così forte, fin troppo convinta di sguazzare nell'ingenuità con l'acqua alla gola.

Davvero l'avrebbe fatto? Avrebbe speso il suo tempo per una persona che forse avrebbe preso il suo posto in quel mondo gremito di tossica competizione? Mondo disposto a ferirti e sabotarti per essere il primo ballerino assoluto? Assurdo. Impossibile. A quale prezzo?

"Avrei voluto che qualcuno lo facesse per me"

Lo sguardo si ammorbidì: giusto, lei sembrava capirlo e lui viceversa. Non serviva sapere altro.

«Morgan—»

Ma Ray si alzò in piedi lentamente e spacciò un sorriso che spazzò via ogni traccia di tristezza dai suoi occhi — é sempre stata brava a farlo —, prese i rimasugli della sua torta e il milkshake con l'intenzione di andarle a incartare e portare via.

«Si é fatto tardi» lo interruppe apposta perché non c'era bisogno di sentire la sua risata di scherno nei confronti della diabetica e pietosa frase che aveva esordito, aveva detto ciò che pensava davvero e andava bene così. Indipendentemente se Jimin fosse stato d'accordo o meno col suo pensiero lei avrebbe comunque stretto la sua mano al ballerino sperduto e appena arrivato a New York, «e sembra che abbia smesso di piovere» ed era vero, «direi di approfittarne per tornare a casa»

Jimin si morse le labbra incapace di tornare sul discorso. L'aveva fatto apposta e quindi, per questa sera, glielo concesse.

Annuì. «Hai ragione. Sembra una buona idea»

Lasciò che la ragazza facesse i primi passi prima di tirare fuori un paio di banconote da venti dollari sul tavolo; Ray lo vide e iniziò a fare il broncio, pronta a piagnucolare sul fatto che dovesse lei a offrire per lui dopo l'ingresso a Winter Village.

Alzò gli occhi al cielo: «Tappati la bocca e non iniziare che sennò incomincia a piovere un'altra volta» la prese in giro mentre la vedeva tornare con un sacchetto stretto tra le mani. Diede l'ultimo sorso al suo Vanilla Shake — magicamente consumata ogni goccia per la fame — e si sollevò per seguirla.

Uscì dal diner e sentì l'aria decisamente più fredda a causa della precedente pioggia, beccò Ray a guardarsi un po' intorno prima di tornare a rivolgergli l'attenzione; appena lo fece si fermò, si mise una mano davanti alla bocca e cercò di trattenersi dal ridere. Jimin borbottò: «Ora che c'è!?» si guardò dietro le spalle ma non vide nulla, «per quale cazzo di motivo stai ridendo!?»

Ray scosse il capo e cercò di darsi una regolata: «Niente. É solo che...» si morse le labbra per trattenere un sorriso luminoso.
«É solo che?» ripeté avvicinandosi. «Sbrigati su!»
«Hai qualcosa...» sospese la frase apposta.
«Cosa?»
«Qui...» indicò un punto in basso lungo il viso.
«Dove?» si toccò ovunque tranne lì. «L'ho tolto?»
«No... aspetta un secondo»

Aprì la microscopica borsetta per vedere se c'era un fazzoletto ma con rammarico scoprì di non averne nemmeno uno. «Non ho fazzoletti, scusami»

«Al diavolo i fazzoletti, che cos'ho!? Mi ha cagato in testa un piccione!?» domandò nel panico iniziando a toccarsi persino i capelli. Ray spalancò le mani e d'istinto ne allungò una verso il punto incriminato: toccò direttamente la pelle perfetta e calda dell'etoile, priva di barba, all'angolo della bocca sulla sinistra. Era una goccia di Vanilla Shake essiccata sul bordo, abbastanza fuggiasca da mettere in difficoltà Jimin.

«Stai fermo» sussurrò concentrata e non prestò nemmeno attenzione al fatto che lo stesse toccando con cura, impegnata a levare la macchietta sul labbro gonfio del moro. Jimin si paralizzò, gli uscì un sospiro lungo e caldo dalle narici e si infranse contro il viso di Ray, riposto a qualche centimetro dal suo.

Abbassò gli occhi e la guardò mentre accusava il pollice della ballerina bruciargli insensatamente la pelle dal freddo. «Hai le mani fredde...» disse in un sussurro basso, un po' roco. Ray questa volta lo guardò e arrossì. «Lo so... sono sempre fredde»

«Significa che devi coprirle meglio, mangiare più fibre e aumentare l'attività fisica»

«Non ne faccio già abbastanza di attività fisica?» fece un mezzo sorriso prendendolo in giro: aveva quasi finito di pulirlo.

«E di mangiare bene?» continuò a punzecchiarla.

Finse di staccare la mano: «Se ti do fastidio la lev—» ma una più grande e molto più calda della sua si mise sopra per fermala. «Non mi dai fastidio» forse la strattonò un po' troppo verso di lui, «finisci pure...»

Ray deglutì, fu ricoperta di brividi e tentò di mascherare la sorpresa e l'agitazione nel trovarsi sotto il suo viso come meglio poté, quasi immersa contro il suo imponente corpo. Sicuramente Jimin non aveva problemi di ossigenazione sanguigna perché bolliva anche a breve distanza.

«Ho finito» lo guardò profondamente e staccò lentamente il pollice, «era solo un po' di vaniglia seccata sulla pelle» al che, compiuto il lavoro, Jimin lasciò la sua mano con premura e assentì. Con la lingua passò sulla zona appena pulita e sentì il vago gusto di vaniglia. «Hai ragione»

Ray vide quel dettaglio e sentì improvvisamente caldo, al punto da metterla a disagio. Perciò colse la palla al balzo e indicò le scale della metro poco più in là: «Se prendo la metro da qui evito direttamente l'uscita per Central Park e taglio per il dormitorio. É un problema se non faccio tutto il giro di Winter Village?»

Jimin adocchiò l'insegna dell'entrata. «No, nessun problema» però poi ci pensò su un po' a fatica, «in realtà... se vuoi ti accompagno—»

Ray scosse la testa e negò gentilmente: «Non c'è bisogno, é tardi e ti allungheresti solo la strada»

«Appunto perché é tardi che non é sicuro girare a quest'ora da soli» la rimproverò con un'occhiata, ma lei parve insistere. «Davvero Jimin, sono solo un po' di metri e poi sbuco nel quartiere» lo calmò, «ti  ringrazio comunque»

Jimin si mise a braccia conserte e alzò gli occhi al cielo. «Okay... sono affari tuoi, il mio l'ho fatto. Poi in futuro non ti lamentare chiamandomi stronzo»

La ballerina scoppiò a ridere e ne uscì una risata cristallina. «Non lo farò!» lo rassicurò e si guardò le mani, «non ti vedrò più come uno stronzo»

Eccolo! Dannazione — pensò frastornato, l'ennesimo pizzico all'altezza del petto pronto a dargli il tormento.

«Questo lo vedremo» cercò di non mostrarsi troppo morbido anche se le sue ginocchia avevano iniziato a tremare e non per il freddo. «Allora...» si schiarì la voce, «ci vediamo domani a lezione Morgan. Buonanotte»

La diretta interessata si guardò fugacemente le punte dei piedi e fece cenno di sì con la testa. «Sì! A... A domani» ricambiò. Ma non iniziò a muoversi per camminare, di fatti Jimin la guardò in attesa.

«Colpo d'assenza?» la prese in giro.

«No! Certo che no!» arrossì torturandosi le mani.

«Allora? Non dovevi andare a casa?»

Ray alzò la testa e fece un grosso respiro per darsi sicurezza. «Prima ho bisogno di fare una cosa» cercò di nuovo nella borsa mentre Jimin la guardava come se fosse un alieno. «Ovvero?» ma non ottenne una risposta, solamente una piccola gomma bianca che si palesò al suo fianco e dopodiché un cellulare in aria per scattare un selfie.

Jimin si immobilizzò, scioccato e stralunato in maniera indicibile, mentre Ray fece uno dei sorrisi più belli del mondo e con due grosse guance rosse poco sopra, come abbellimento. Durò appena un secondo per scattare la foto di loro due, col diner alle spalle e un lampione a creare qualche ombra sui visi.

«É per la signora Walls» spiegò rossa dalla fronte al mento, «così vedrà coi suoi stessi occhi che abbiamo fatto quello che ci ha detto» si giustificò vedendolo ancora di sasso, «e non solo. Voglio che sia un ricordo»

Jimin boccheggiò: «Ricordo di cosa?»

«Della mia prima e vera uscita a New York in compagnia!» spiegò col cuore in subbuglio, «se vuoi... posso passartela. Così quando la guarderai, seduto sul tuo divano, saprai che non avrai solo foto di New York completamente da solo. Ma c'è questa!» sussurrò, «un nostro vero ricordo felice»

Jimin riuscì a mettersi solo le mani dentro le tasche della giaccia e guardarla negli occhi incapace di parlare. Nessuno aveva fatto una foto per lui con questo scopo ed era gratificante, al contempo destabilizzante.

Ray si sentì esposta completamente sotto il suo occhio giudice. «Continuo a rimanere solo un mistero per te, vero Jimin?» chiese a cuore aperto e con le labbra tirate sempre in un sorriso imbarazzato.

Jimin deglutì. Alzò una mano per sistemarsi i capelli e mascherare lo stupore. Fece un mezzo sogghigno: «Chi lo sa. Per ora... dovrai convivere con questo dubbio» e senza che lei potesse dire altro, iniziò a fare un paio di passi all'indietro fino a girarsi completamente: «Buonanotte Morgan!»

«La vuoi la foto?» alzò la voce sventolando il telefono ma Jimin, quella notte, non riuscì a darle una risposta. Perciò finì di sbracciarsi e sospirò, senza però perdere il sorriso. E quando le spalle di Jimin erano troppo lontane affinché lui la potesse sentire, disse: «Prima o poi me la chiederà. Ne sono sicura» e dopo aver mormorato, se ne andò anche lei abbandonando Winter Village e il diner newyorkese.

Sì. E ancora sì, Ray Morgan. Credo che tu rimarrai per sempre, ai miei occhi, una piccola costante incerta: un letale mistero.

Nella via del ritorno, un mezzo sorriso si portò via entrambi.
















Il mattino dopo, con grande sorpresa da parte di entrambi, sembrava esserci un'altra strana sintonia: come se Jimin avesse più accortezza nei confronti di Ray e lei più attenzione verso di lui. Lo seguiva, ascoltava ogni consiglio e provava a metterlo in pratica fino a ottenere un risultato quasi sufficiente — sempre secondo gli standard altissimi di Park Jimin.

«E se qui provassi a fare questo?» si sentì pronta a proporre una sequenza che poteva avvantaggiare entrambi, allungò la mano e tentò di arricchire il port de bras in quarta. Jimin studiò attentamente le braccia: «Su! Su! Così» le andò dietro e spinse con leggerezza i bicipiti in alto come piccole onde, «mantieni questa delicatezza, immagina di avere dei fili attaccati alla pelle e che questi vengano tirati verso l'alto» Ray ci provò mentre si mise a fare piccoli passi in punta, «non si deve vedere la fatica, quindi rallenta e tieni il tempo»

Poco dopo Ray si fermò e si buttò a terra sfinita. «Oddio non mi sento più le gambe» era una frase che diceva sempre, ma a differenza delle altre volte sentiva davvero i muscoli irrigiditi e stanchi. Jimin andò a fermare la musica e tornò col fiatone: «direi di fermarci qui per oggi» guardò l'ora sull'orologio da parete, «ho un set fotografico tra due ore e devo prepararmi»

La castana alzò semplicemente il pollice all'insù. «Ricevuto» espirò danza fiato.

Jimin ruotò gli occhi al cielo ma fece un sorrisino di nascosto: «Significa che tu puoi continuare mentre non ci sono» le ricordò mentre prendeva il borsone. Ray piagnucolò. «Abbi pietà di me»

La guardò con uno sguardo impassibile: «Scordatelo. Allenati su quel port de bras, domani voglio vederlo perfetto. Intesi?» arrivò alla porta ma prima si girò verso Ray e la vide borbottare. «Ho detto: intesi!?»

«Si!» dannato Stalin! «Ho capito!»

«Sarà meglio per te!» se ne andò ridacchiando e finalmente uscì dal suo raggio visivo così poté alzarsi sgraziata e lamentarsi quanto voleva. Ma i suoi piani andarono in fumo non appena qualcuno si appostò alla porta e Ray, pensando che fosse di nuovo Jimin, mugugnò: «Cos'hai dimenticato ora?»

«Quindi é questo il posto dove ti scopi il primo ballerino dell'ABT»

Ray si raggelò immediatamente sul posto: non era Jimin. Era una voce femminile fin troppo familiare, acuta e maligna per essere lui. Si girò lentamente.

«Per caso mi sto sbagliando piccola Ray Morgan?»

Judite Dixon, vestita con lunghi pantaloni da yoga che le risaltavano le gambe lunghe, alzò il mento mentre la inceneriva con la sguardo. Ma sorrideva con malizia mentre si staccava dallo stipite.

«Judite...» sussurrò, timorosa di essere scoperta. «cosa ci fai qui?»

«Per favore Ray, dovrei essere io a porti questa domanda e non il contrario» si guardò intorno in modo altezzoso, «quindi é qui che ti fotti il "prof"per passare le audizioni»

Ray si sentì a pezzi: «Non dire sciocchezze per favore»

«Per favore un cazzo! L'ho visto uscire da qui, anzi sono più giorni che vi tengo d'occhio ma non potevo crederci» rise isterica, «e mi rifiuto di credere che Park Jimin spenda seriamente il suo tempo per aiutarti senza nulla in cambio» la guardò dal riflesso dello specchio.

La castana cercò di trattenere il respiro il più possibile prima di parlare. «Non facciamo niente di tutto ciò. Te lo giuro, puoi chiedere a lui stesso se non mi credi»

Judite sollevò gli angoli della bocca in modo inquietante: «Ah sì? Me lo giuri?» scoppiò a ridere, «grazie tesoro, allora so che posso contare sulle parole di un'anatra che puzza di merda di vacca del Wisconsin» la offese. L'altra chiuse gli occhi per sentirsi meglio ma sentì Judite avvicinarsi verso di lei lentamente. «Judite smettila» la pregò.

«Cosa?» ringhiò tra i denti; quando Ray aprì gli occhi la trovò a un palmo dal suo naso, dopodiché fece splendere un sorriso cattivo. «Su, avanti...» toccò di proposito i suoi capelli per metterla in soggezione, in modo che capisse quanto fosse pericolosa e che potesse anche farle male se provocata, «ripetilo»

Cercò di trattenere le lacrime per l'umiliazione e abbassò lo sguardo. Judite si sentì vittoriosa: «Vedi? Come immaginavo...» ridacchiò smettendo di toccarla, «non sei nulla. Niente. Che cosa pensi di fare con lui, eh?»

«Niente...» sibilò in risposta.

«Allora smettila di imitare Victoria Smith come un cazzo di mimo! Non sei il suo fottuto fantasma!»

Ma Ray non riusciva più a seguirla: non aveva idea di chi fosse e, da quello sguardo incerto e sconcertato, Judite parve immediatamente capirlo.

E fu lì, in quella stanza, alle ore quindici e sedici minuti, nel bel mezzo di New York, che Ray si ritrovò a essere coinvolta in qualcosa di molto più grosso e intricato di lei. Qualcosa che, come disse Rachel all'inizio, poteva esserle fatale.

~
"A meno che la verità non venga fuori prima da qualcun altro"

"Qualcuno tipo chi?"

"Qualcuno che potrebbe mettere in seri guai l'intero equilibrio dell'ABT. Attenta a sceglierti le persone di cui fidarti Ray: in questo mondo nessuno si farebbe scrupoli a tagliarti le gambe a cinque minuti prima di entrare in scena"
~

«Oh mio Dio, tu non sai...» mormorò incredula e pronta a deriderla, «Che cosa sai su Victoria Smith, piccola Ray?»












𝘏𝘢𝘯𝘴 𝘡𝘪𝘮𝘮𝘦𝘳:
𝘐𝘯𝘵𝘦𝘳𝘴𝘵𝘦𝘭𝘭𝘢𝘳 𝘔𝘢𝘪𝘯 𝘛𝘩𝘦𝘮𝘦


























HELLO❤️❤️

Finalmente quiiii!!!

Questo capitolo é stato UN PARTO GEMELLARE: non avete idea di quante volte io abbia riscritto i dialoghi. Boh, 30 volte?

INIZIAMO:

- Jimin sembra naufragar peggio di Leopardi. Sono venuti fuori un po' di sentimenti e ho preferito concentrare il capitolo interamente su di loro e sui loro pensieri.

- Ray... c'è tanto dietro il suo finto sorriso e la sua immagine da brava ragazza e Jimin non riesce a capirla appieno. É misteriosa, a volte un libro aperto e altre discostante. Spero che abbiate capito la contraddizione involontaria da parte di Ray sul fantasy: a parte il pattinaggio, tutto ciò che pensava che fosse bello in realtà era il contrario. Si é solo convinta di avere ricordi felici per tutelare la sua psiche mentre in realtà sono infelici. :(

Molto infelici...

- E Jimin... si rivede in Ray quando parla della solitudine e di tutte le difficoltà che ha vissuto essendo "diverso" dagli altri. Tant è che si apre con Ray, vedendola fare il primo passo, e racconta a grandi linee di come ha sofferto indirettamente la solitudine da immigrato e nuovo arrivato a New York.

Con le sue foto in solitudine...

- Personalmente ho amato lo spirito di Ray perché non riesce a essere come gli altri, e avrebbe accettato ben volentieri l'entrata di Jimin se lei ci fosse stata 10 anni fa all'ABT. Perché lei stessa soffre per la competizione.

- Spero che abbiate capito il vero intento dell selfie👀 e che la scusa della walls era una cazzata...

- Judite incommentabile e poi... sgancia una bomba così?

Fatemi sapere che cosa ne pensate
❤️❤️❤️

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