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Patroclo non aveva mai lasciato la Sicilia, neanche per andare in vacanza. Solitamente, a partire da maggio, una volta uscito da scuola si limitava a raggiungere la spiaggia con alcuni suoi compagni di classe. La camicia sbottonata, le scarpe alla mano e le piante dei piedi contro l'asfalto incandescente – facendo attenzione a non calpestare cocci di vetro o chiodi. Impiegavano quasi un'ora ad arrivare mediamente. A volte correvano, facevano a gara – Patroclo non arrivava mai primo; nel suo gruppo di una decina di ragazzi era sempre costretto ad accontentarsi del secondo o terzo posto. Altre volte venivano distratti lungo il loro percorso da qualsiasi cosa, si fermavano a prendere un gelato, seguivano un gabbiano allontanatosi dalla riva, si rubavano e nascondevano gli zaini a vicenda. Alla fine però avrebbero raggiunto quella spiaggia desolata, sconosciuta ai più e non frequentata da turisti. Capitava spesso che mentre i suoi compagni di classe tentavano di annegarsi per gioco, Patroclo rimanesse in disparte, seduto a riva o intento a passeggiare, alla ricerca di qualche conchiglia particolare. Oppure faceva i compiti – era l'unico a farli e li avrebbe successivamente fatti copiare al resto della classe – non lo trovava divertente, ma qualcuno doveva assumersi la responsabilità. Inoltre la sua media di voti non si sarebbe mantenuta da sola. C'era stato un tempo in cui i suoi amici cercavano di convincerlo a unirsi a loro, ma si erano ormai rassegnati, lasciandolo in balìa di sé stesso. Altre volte faceva delle lunghe nuotate – era sempre stato un abile nuotatore – ma non si allontanava mai troppo dalla riva. E altre volte ancora, i suoi amici lo avrebbero raggiunto nel tardo pomeriggio al bar che si affacciava sulla spiaggia. Lo avrebbero preso in giro per la sua vicinanza con la figlia del barista, che spesso serviva i clienti al posto del padre, ma a Patroclo non interessava particolarmente. Non avrebbe negato l'attrazione che esercitava la ragazza, con i suoi lunghi capelli castani e gli occhi profondi dello stesso colore, il volto coperto di lentiggini che si accentuavano sotto i raggi del sole estivi, ma lui non ne subiva l'ascendente. Dopo aver pagato la sua lattina di Coca Cola l'avrebbe salutata, come faceva sempre, e lui e i suoi compari sarebbero rincasati. Poi Patroclo si sarebbe separato da loro, una volta raggiunta la stradina solitaria che lo avrebbe condotto a casa. Percorreva sempre un percorso che si perdeva nel verde, dove erba incolta cresceva abbastanza alta da arrivare a sfiorargli le ginocchia, non coperte dal tessuto blu dei suoi pantaloncini. Infine l'erba sarebbe stata sostituita da ghiaia e sassi. Pochi metri e di fronte a lui si sarebbero trovate la sua casa e quelle di alcuni vicini.
La notte spesso faceva caldo e l'aria diventava irrespirabile. Quante volte aveva aperto la finestra sul soffitto della sua camera e l'aveva utilizzata come passaggio per raggiungere il tetto, nella speranza che la brezza fosse abbastanza gentile da colpirgli il volto. Avrebbe osservato con orgoglio il cielo sconfinato che lo sovrastava, ammirandone le innumerevoli stelle, consapevole che gli abitanti delle città tempestate di lampioni e luci artificiali non potessero fare lo stesso.
Quello schema si ripeteva ogni anno, da fine aprile ai primi di ottobre. Non era impossibile che però si avventurasse in quella spiaggia deserta in solitudine anche durante il resto dell'anno, benché l'acqua fosse troppo fredda e il bar fosse chiuso.
Patroclo non poteva immaginare che quell'anno la sua vita sarebbe stata rivoluzionata. Non poteva prevedere che qualche giorno dopo ferragosto, sua madre sarebbe entrata in cucina soddisfatta e avrebbe annunciato di aver ricevuto la cattedra. Patroclo era felice, ovviamente. Fino a quel momento sua madre non aveva lavorato stabilmente in una scuola per più di due anni. Smise di mescolare il sugo che stava preparando e andò ad abbracciarla. Poi sua madre gli disse che c'era un "inconveniente". La scuola in cui avrebbe iniziato a lavorare a settembre si trovava in Lombardia. Patroclo non esternò la sua frustrazione, né quel giorno né mai. Si sedette sul tetto e inspirò profondamente. Gli sarebbe mancato il luogo in cui era cresciuto. Aveva trascorso lì i diciassette anni della sua vita, senza mai allontanarsi dalla sua isola. In qualche settimana sarebbe cambiato tutto. Il giorno seguente, sotto i raggi sole che filtravano attraverso le tende, Patroclo iniziò a riempire gli scatoloni procuratigli da sua madre. Mise in una borsa a parte alcuni libri che aveva intenzione di leggere e i suoi materiali artistici – benché non riuscisse fisicamente a mettervi al suo interno gli album da disegno dalle dimensioni maggiori. I raggi del sole furono presto sostituiti dal rumore costante della pioggia e il cielo, poco prima limpido, aveva assunto diverse sfumature di grigio – riflettendo il suo stato d'animo. Patroclo sentiva la necessità di ritrarlo e così fece. Appoggiato alla piccola balconata, incurante di alcune gocce che raggiungevano l'interno della sua camera, un foglio appoggiato sulle ginocchia, un bicchiere d'acqua e una vecchia confezione di acquerelli al suo fianco, il pennello si muoveva abilmente sulla carta, mentre i suoi occhi grigi dalle venature castane scrutavano con attenzione il panorama fuori dalla finestra.
A centinaia di chilometri di distanza, Achille osservava la pioggia cadere incessantemente sulle piante che aveva lasciato sul balcone. Ne avrebbe comprate delle altre, benché gli dispiacesse non fosse riuscito a ultimare una copia dal vero di alcuni gigli prima che iniziasse il temporale. Era a casa da solo quel giorno, come spesso accadeva. Non sapeva neanche dove si trovassero i suoi genitori, se fossero in vacanza o all'estero per lavoro; e non gli interessava. Sua madre lo avrebbe guardato sdegnata se avesse potuto leggergli il pensiero, ma non poteva. Spense il telefono, dopo l'ennesimo messaggio ricevuto da qualche compagno di classe – si trattava forse di qualcosa legato al Ferragosto appena passato, ma non ne era certo – concentrandosi sulla musica trasmessa dal giradischi rubato dal vecchio studio di suo padre. Probabilmente nessuno si era accorto della mancanza di quell'oggetto, che il biondo aveva scoperto per caso mentre riordinava alcuni scaffali. Era completamente impolverato e sembrava che non fosse stato utilizzato da anni. Gli sembrava uno spreco lasciarlo abbandonato su un ripiano, quindi lo aveva portato incamera sua, assieme a qualche altrettanto vecchio disco in vinile. Chiuse gli occhi mentre le gocce di pioggia e le note di Vincent si fondevano insieme. Si addormentò e trascorse così la quasi totalità della giornata, svegliandosi solo alle otto passate. Aveva cessato di piovere ma una coltre di nubi continuava a coprire il cielo. Non si vedevano le stelle. In quella città non le aveva mai viste. Gli era capitato sporadicamente di osservarle durante qualche vacanza trascorsa in aree rurali e incontaminate, in cui la presenza dell'uomo non aveva ancora completamente modificato il paesaggio. Dal suo balcone poteva solo accontentarsi di un cielo cupo ma che, indipendentemente dall'orario notturno, non sarebbe mai stato completamente buio. Era deludente, assolutamente non poetico e lo infastidiva. Se avesse voluto avrebbe potuto imbarcarsi su un aereo e raggiungere in meno di due ore qualche zona rurale della Toscana, della Sardegna o di qualsiasi altra regione dove avrebbe potuto osservare qualcosa di paragonabile alla Notte Stellata, ma non lo avrebbe fatto. Sua madre avrebbe avuto ragionevolmente qualcosa incontrario se lo avesse fatto e, in quel momento, il piatto in ceramica in cui erano contenute ciliegie, pesche, fragole e frutti dibosco – questi ultimi raccolti da lui assieme a degli amici – gli sembravano la composizione ideale per una natura morta.
Achille si alzò pigramente dal letto, sbadigliando, per poi risiedersi alla scrivania. Dovette sistemare la lampada da tavolo affinché l'illuminazione fosse di suo gradimento. Poi dovette cercare un foglio adatto. Ne aveva molti sparsi per la camera, che mai si curava di rimettere al proprio posto, la maggior parte dei quali erano scarabocchiati. Dopo averne trovato uno su cui non si trovasse qualche studio di anatomia, gli rimaneva da decidere che tecnica usare. La confezione degli acquerelli era in uno dei cassetti della scrivania, mentre ai suoi piedi si trovava la cartelletta in plastica in cui aveva lasciato da giugno alcuni tubetti di acrilici. I colori a olio si trovavano su un ripiano della libreria, affiancati dalla scatola metallica contenente i pastelli colorati. Nel ripiano superiore si trovavano chine varie, acquerelli sintetici, bicchieri in plastica, matite sanguigne e carboncini, molti dei quali non erano stati utilizzati dal termine delle lezioni. Erano di quei periodi che definiva "morti", in cui si sentiva privato della voglia di realizzare qualsiasi cosa, in cui preferiva stendersi a letto e ascoltare la musica – benché detestasse doversi alzare nel caso il disco si incantasse – senza nessuno che lo disturbasse. Al tempo stesso odiava quella mancanza di produttività e si sentiva grato, senza però esternarlo, quando qualche amico lo invitava a partecipare a qualche partita improvvisata di calcio o pallacanestro. Quella sera era diversa. L'odore della pioggia impregnava l'aria e aveva scacciato la calura estiva, il mezzo busto in gesso dell'Apollo del Belvedere lo osservava dal mobile su cui era stato riposto qualche mese prima. Da una mensola si diramavano alcuni tralci di edera, che si attorcigliava lungo la libreria in legno di betulla. L'illuminazione artificiale, regolata con attenzione, restituiva un colore freddo, che si intonava con le pareti bianche della stanza. Amava quella quiete, quell'ordine, quel meticoloso equilibrio con cui elemento presente nella sua camera si concatenava agli altri. Anche l'apparente disordine dei fogli dai disegno e dei materiali abbandonati sulle mensole era studiato, come lo erano i tomi e libri vari sparsi in ogni dove e i minerali disposti sulla scrivania, contro cui la luce si rifletteva.
Appesi alle pareti, schizzi realizzati a carboncino, cartoline di luoghi in cui è stato, stampe raffiguranti capolavori di Van Gogh e Caravaggio. Un mobile basso su cui era poggiata una scacchiera in alabastro, trafugata dal soggiorno, le cui pedine ancora imitavano le mosse di una partita mai conclusa. Ad affiancarla un altro busto, di dimensioni notevolmente ridotte, della Diana di Versailles, dalla cui sommità si ergeva un piccolo cactus contornato da qualche fiorellino arancione.
Infine, ultima caratteristica erano il vuoto e la solitudine che quella stanza così riccamente ornata emanavano.
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Buonasera! Spero che questo capitolo introduttivo vi sia piaciuto! Ci tenevo a presentare la mia versione di Achille e Patroclo, dato che li ho utilizzati in un contesto completamente diverso da quello dell'Iliade.
Fatemi sapere come vi sembra^^
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