XXVI. Testa saltata

Orion

Era stanco.
Si trascinò via per strada. Dopo aver tirato un tombino, si infilò al suo interno. Aveva imparato a muoversi nelle fogne di quella città, come un ratto.

Si portò una mano in petto. Il respiro gli pesava e tossì, nauseato anche da tutta quella puzza. Socchiuse appena gli occhi.
Avrebbe voluto poter abbracciare suo fratello. Com'era cresciuto. L'aveva sempre spiato a debita distanza, ogni volta che fosse possibile.
Il suo piccolo Altair era un uomo, forse anche più di lui.

«Hai intenzione di restare lì a lasciarti morire?» Pollux lo guardava.

Si portò le mani alla testa. Non era quello il momento. Non era il momento migliore per lasciarsi andare alle paranoie e alle allucinazioni. «Sparisci.»

«Non posso. Sono nella tua testa, ricordi? Ogni giorno un pensiero costante.»

Tirò su col naso. Osservò il riflesso di suo fratello attraverso l'acqua ai suoi piedi. Un ricordo che non sarebbe mai sbiadito, un dolore che non si sarebbe mai cicatrizzato. Diede un calcio alla pozzanghera, sporcandosi gli anfibi.
Continuò a zoppicare, diretto verso quel vecchio edificio abbandonato, che negli ultimi tempi si azzardava a chiamare casa.
Aveva sbagliato anche. Non voleva uccidere quella ragazzina, che a quanto pareva non aveva minimamente un po' di spirito di sopravvivenza per affrontare Max a muso duro. In realtà la trovava simpatica. Se non fosse stata figlia di Cortez, l'avrebbe adottata. Voleva solo spaventarla al punto da prenderle quella dannata chiavetta usb e arrivare per primo al siero.
Ovviamente, Arthur e Robert erano nei paraggi e l'avevano pestato per bene.
Si chiese quando avessero ripreso ad allenarsi o forse era lui che stava lentamente morendo.
Molto più probabile la seconda ipotesi.

Si arrampicò piano, spostando il tombino e uscì di nuovo alla luce del sole. Quel quartiere era così malfamato e abbandonato anche da Dio, che nessuno si era mai posto domande su di lui.
Tossì appena e si sporcò la maglia. Il sangue aveva cominciato ad annerirsi. Socchiuse gli occhi. «Grandioso, che meraviglia.»

Si avvicinò al solito barbone, ormai morente, che se ne stava poggiato contro un muro. L'unico "amico" che aveva da tempo.
L'unica persona che gli rivolgeva la parola da anni. Era così difficile cercare di non impazzire.
Dieci anni da solo erano tremendi, pesanti e dolorosi. Aveva perso tutta la sua vita. Aveva perso i momenti migliori dei suoi fratelli, i loro traguardi, le loro gioie, i loro pianti.

Poteva solo limitarsi a guardarli da lontano, sperando che, un giorno, avrebbe potuto riunirsi a loro. Aveva giurato a se stesso che avrebbe eliminato tutti coloro che avrebbero potuto far loro del male. Ed era felice, in fondo, che i suoi migliori amici si fossero occupati di loro in sua assenza.
Voleva tornare alla sua famiglia, più di qualsiasi altra cosa. Eppure la paura lo divorava. Ogni notte era terrorizzato che potessero odiarlo, non volendolo più indietro.
A volte credeva di meritarlo, era pur sempre stato un cane rognoso, abbandonato da tutti, anche dai suoi genitori naturali.

Si sedette accanto al barbone e si lasciò andare a uno sbuffo. «Come va Saul?»

L'anziano fece spallucce, stringendosi in un cappotto molto più grande di lui. Orion gliel'aveva regalato tempo addietro, per non lasciarlo morire al freddo. In cambio, l'anziano condivideva sempre con lui un tozzo di pane.
Si era ridotto a essere un verme, dimenticato dal mondo, da Dio e, ancor peggio, dalla sua famiglia.

«Il solito, ragazzo. Sono un po' stanco.» Gli passò un tozzo di pane. Orion socchiuse gli occhi, poggiandogli una mano sulla spalla. Addentò il pane.

«Quando avrò sistemato ogni cosa, verrai a vivere a casa mia. Ti adoreranno.»

Saul fece un leggero sorriso, più simile a una smorfia. «Te lo auguro, ragazzo. Hai un cuore d'oro, ma credo di avere i giorni contati ormai... vorrei solo rivedere il mare.»

Orion si asciugò gli occhi inumiditi. Non poteva fare promesse che non avrebbe mai mantenuto. Non poteva trasportarlo alla luce del sole, ma forse di notte. Decise di restarsene in silenzio, lasciando che la rabbia lo logorasse.

Pollux era di fronte a lui, sorrideva sarcastico. Con quel solito ghigno accusatore. Si era domandato per anni perché i loro rapporti si fossero distrutti a tal punto. Forse erano sempre stati troppo diversi o troppo simili. Due facce della stessa medaglia. Pollux non l'aveva mai del tutto accettato, diceva che i loro genitori gli perdonavano tutto, qualsiasi errore, solo perché era un bastardo abbandonato. «Non fare promesse che non manterrai. Avevi promesso anche che saremmo rimasti fratelli per sempre e invece hai scelto di pugnalarmi alle spalle.»

Orion si massaggiò il petto. L'ansia lo stava logorando poco a poco. Scavava e mordicchiava ogni giorno una parte della sua anima, come un roditore.

Si tirò rapidamente in piedi. Aveva tante cose da fare e restare a lasciarsi affondare da suo fratello non era una di quelle. Posò una coperta sulle spalle di Saul. «Questa sera ti porto a vedere il mare.»

L'uomo gli sorrise gentile. I suoi occhi erano stanchi, i movimenti deboli e la pelle rattrappita da rughe e dolore. Gli posò le mani sulle guance. «Ragazzo, morirei in pace se sapessi che tornerai dalla tua famiglia, piuttosto.»

Orion indietreggiò e si passò una mano tra i capelli. Una volta era così fissato sul proprio aspetto, ci teneva ad apparire quanto più possibile affascinante. Adesso aveva provato a tagliare da solo i capelli e ne era risultato un disastro. Saul l'aveva preso in giro per giorni. «Ci vediamo questa sera.»

Si incamminò, pur zoppicando ancora dolorante. Il suo corpo stava iniziando a cedere. Aveva ancora pochi giorni o forse ore a disposizione. Tutte le sue scorte di sieri e cure erano già stati utilizzati e quello che aveva rubato in casa, rischiando davvero di essere scoperto, ormai era quasi finito, era servito a dargli qualche giorno in più di autonomia.
Se non avesse trovato una soluzione sarebbe morto. Sarebbe morto senza essere riuscito a tenere i suoi fratelli fuori dai guai.
Sarebbe morto, mandando all'aria l'ennesima promessa fatta a Drew Cortez. Non aveva salvato le sue figlie dalle grinfie della Serpents Agency.

Tutti i suoi sacrifici sarebbero stati vani.

«Dai, Orion. Andiamo a seguire l'ennesima pista del cazzo. Ti sei anche fatto pestare da Max. Sei proprio a terra, eh?» Pollux rideva al suo fianco. I capelli neri, ricci, dondolavano in aria, e quegli occhi color ghiaccio lo braccavano. Aveva sempre avuto lo sguardo molto simile a quello di Altair, ma molto più severo e distaccato. Eppure, al loro ultimo incontro, Orion aveva visto quella luce, che una volta brillava negli occhi di Altair, spenta.
E sapeva fosse colpa sua. «Credi davvero che tutto tornerebbe ad essere come prima? Sei un illuso, fratellino. Altair ti detesta. Leon ed Eris sono cresciuti senza di te, a stento ti ricorderanno.
Forse solo Andromeda... ma nemmeno lei.»

Orion avrebbe voluto urlare che erano solo le paure della sua mente a rispecchiarsi nella figura di Pollux, eppure sapeva quanto potessero essere vere quelle parole.

Si passò una mano il volto, accarezzando la barba. Indossò un cappello, abbassando la visiera sullo sguardo, e degli occhiali da sole rubati al primo turista idiota. Quanto gli mancava poter vivere normalmente.

Sapeva che forse la sua ultima possibilità poteva essere Oliver Richard. Poteva avere ancora la formula o ricordarne qualcosa. In ogni caso lo avrebbe ucciso. Era uno dei tanti che meritava di soffrire.
Era rimasto alla Serpents con loro. Sorrideva sadico quando gli esperimenti non andavano a buon fine e soffriva come un cane. Uno dei tanto che aveva alimentato la sua rabbia.
Non si sarebbe mai fermato, non fino a quando non avrebbe temuto tra le mani la sua testa, assieme a quella di Paul Kinglsey.
Non importava quante altre persone avrebbe dovuto eliminare lungo il proprio tragitto.

Doveva tornare a casa
Voleva tornare a casa.

Boston era affollata, sempre. Tutte quelle persone camminavano come automi, fissando la strada davanti a loro.
Nessuno si accorgeva della sua presenza nella folla. Si guardava attorno, leggendo i nomi di quelle strade.
Gli era tutto così familiare, gli mancava respirare la vera vita.

Gli mancava il vecchio parco dove giocavano sempre tutto insieme. L'ultima volta si era spinto in preda a un attacco nostalgico.
E lì ci aveva visto Arthur.
Non poteva accettare che fosse così tanto a pezzi.
Aveva perso tutto anche lui.
Nemmeno Dio immaginava quanto gli mancasse. Non avrebbe mai saputo spiegarlo a parole. Si era avvicinato troppo, rischiando di farsi scoprire.

Sbuffò piano, ringraziando di non sembrare totalmente un barbone. Orion era riuscito a lavorare molto su quel vecchio appartamento abbandonato, per lo meno poteva concedersi una doccia gelida per lavarsi. Quando Saul riusciva a muoversi e ad alzarsi, lo aveva anche ospitato.

Arrivò finalmente davanti alla villetta di Richard. Osservò il prato verde ven curato e storse il naso. Trovava ridicolo che un essere umano potesse circondarsi di tanta purezza ed essere così marcio dentro.
Almeno, lui, era coerente. Marcio dentro e fuori. Ormai tutto il suo animo era inquietato da tutte le persone che aveva ucciso.
Restava lì ad osservarle, rimuginando sulle proprie azioni, ma spesso erano necessarie.
Per sopravvivere in quel mondo bisognava saper uccidere.
E bisognava saper uccidere anche prima che fosse l'avversario a farlo.

Osservò la propria pistola con silenziatore. Era riuscito a recuperarla attraverso una vecchia conoscenza. Prima o poi sarebbe dovuto tornare a disturbare il Corvo. Anche perché era uno dei pochi che gestiva i traffici di armi illeciti in città.
Entrò dall'ingresso sul retro, gli bastò una leggera spallata per scardinare la porta.

«Chi va là?»

Orion sparò alle gambe di Richard. Sorrise sadico, quando lo vide accasciarsi a terra, sanguinante e dolorante. Piagnucolava.
Almeno adesso erano pari.
E quella partita l'avrebbe vinta lui.

L'uomo rotolò su se stesso, voltandosi a guardarlo, e sgranò gli occhi. «Tu-»

Orion sorrise e lo costrinse ad alzarsi. «Sorpresa!»
Lo legò a una sedia, con violenza, bloccandogli polsi e caviglie.

«Tu dovresti essere morto-»

«Il paradiso non fa per me, ma il clima è carino. L'inferno ha compagnie interessanti, ma avevo una serie di questioni da risolvere ancora per poter morire.» Gli assestò un pugno in pieno volto.

Lo sentì urlare dal dolore, ma velocemente gli infilò un panno in bocca. Lo guardò con odio. Prese un coltello da cucina e osservò la lama con attenzione. «Lo hai fatto limare da poco, i miei migliori complimenti.»
Lo accoltellò al ginocchio. Sentire i suoi rantoli di dolore era un altro tipo di melodia. C'era una soddisfazione particolare nel sentir piagnucolare qualcuno che l'aveva tormentato per mesi, godendo e beandosi del suo dolore.

«Mi disgusti.» Pollux era seduto sul divano del salotto.

Orion socchiuse gli occhi. Doveva cercare di mantenere la calma. Si voltò verso il riflesso di suo fratello, agitandogli il coltello contro. «Lasciami stare.»

«Non posso.»

«Fottiti.»

Tornò a fissare Oliver Richard, che lo guardava con un'espressione terrorizzata. Doveva pensare che fosse un pazzo e forse non poteva dargli poi così tanto torto. Gli accarezzò la guancia con la punta del coltello. Gocce di sangue caddero a sporcargli le scarpe e il pavimento. Gli allontanò il bavero. «Dov'è il siero?»

L'uomo si mosse nervoso sul posto. «Non lo so! Te lo giuro! Anche Paul e suo figlio sono venuti da me.»

Effettivamente un livido violaceo gli contornava l'occhio destro. Orion aveva sempre detestato quello sguardo. Oliver Richard era un uomo snello, basso, e codardo. Quei pochi capelli che gli incorniciavano il volto erano sbiaditi dal tempo e gli occhi, chiari e vacui, ormai erano ridotti a due fessure.

Orion ridacchiò. Non gli credeva. Se Paul e Max erano stati da lui, allora credevano che potesse ricostruire il siero e gliel'avrebbe impedito. Lo colpì con un pugno allo stomaco.

Richard si accartocciò su se stesso, tossendo. Prese fiato, ma qualche costola doveva esserglisi incrinata. Orion sorrise. Così gli era da lezione: era uno dei tanti che l'aveva resto un mostro e una macchina da guerra. Ne aveva visti così tanti morire sotto il proprio sguardo. Anche compagni che l'avevano implorato di ucciderli. Quante volte Orion aveva cercato di farlo, in quei dieci anni, da solo. Non aveva mai avuto il coraggio.

Gli tirò la testa all'indietro e fece un sorriso sghembo. «Se sono venuti da te, allora avevano modo di credere che potessi riprodurla.» Gli diede una testata in volto, spaccandogli il naso. Il sangue gli sporcava il volto. «Parla!»

L'uomo piagnucolava come un bambino spaventato. Nonostante sapesse che lo meritava, non poteva far a meno di sentirsi in colpa. A volte avrebbe voluto essere come una sua vecchia conoscenza. Avrebbe voluto poter essere indifferente e sentirsi nutrito da quelle sensazioni.

«Non so nulla! Lo giuro! Lo giuro!»

Orion gli puntò il coltello alla gola.

Poi sentì dei passi. Si voltò a guardare verso la porta. Chiunque fosse, non poteva trovarlo lì. Né poteva avere informazioni da quel bastardo. Con un gesto netto, puntò alla carotide, accoltellandolo. Il sangue cominciò a schizzare ovunque, sporcandogli i vestiti.

Fece per uscire dalla porta sul retro, quando una voce familiare lo colpì in pieno, come un pugno allo stomaco.

«Vi muovete? Dio, 'Dromeda chi ti ha insegnato a scassinare le serrature?»

Eris.
Avrebbe voluto correrle incontro e abbracciarla. Aggrottò la fronte, chiedendosi perché diavolo fossero lì. Si sentì in colpa a permettere che assistessero a quello scempio.

«Orion... a lui lo ha insegnato un amico che aveva un nome strano, tipo mitologico. Se stessi zitta riuscirei a concentrarmi.»

Sorrise. Atlas aveva uno strano metodo di insegnamento. Direttamente sul posto, in preda a un colpo, con la possibilità di essere arrestati.

Era strano risentire le voci delle sue sorelle. Si asciugò una lacrima solitaria e scappò via.

Si lasciò quella casa alle spalle. Allora abbassò il berretto in avanti e sistemò gli occhiali da sole in volto. Nascose la mani nelle tasche della giacca e proseguì verso casa a testa bassa.

I suoi fratelli erano lì. Aveva motivo di credere che stessero cercando proprio lui. Non potevano mettersi così in pericolo.
Era certo che Altair non ne fosse al corrente, altrimenti avrebbe impedito una follia simile.

Ripensando a lui, un nodo gli attorcigliò le viscere. Aveva costretto suo fratello a una vita desolata, triste. Si era ritrovato a crescere così in fretta, a prendersi cura di una famiglia a soli quindici anni.
Ed era colpa sua e della sua vita.

«Ti rendi conto come le tue scelte abbiamo segnato tutti noi?» Pollux era pronto a tornare alla carica. Sospirò piano, cercando di ignorarlo. Era solo la sua mente che si prendeva scherzo di lui. «In pratica, se i nostri genitori ti avessero lasciato a morire accanto ai tuoi veri genitori cocainomani, forse staremmo tutti bene. Io sarei perfino vivo. Altair sarebbe felice e Arthur non sarebbe depresso!»

Si nascose in un vicolo buio. Lasciandosi cadere a terra. Si massaggiò il petto e prese a tremare. Si sentiva risucchiato da un vortice di terrore. Strinse i denti. Contò diverse volte, cercando di darsi una controllata.
Non era colpa sua.
Provava a ripeterselo come una filastrocca, una bugia alla quale cercava disperatamente di aggrapparsi.

Sospirò piano. Riprese fiato e si tirò in piedi. Pollux lo aspettava per tornare a casa. Doveva sopportarlo almeno fino a quando il sonno non avesse preso il sopravvento.

Dopo qualche minuti di cammino, cercando di nascondere il sangue che gli sporcava la maglia, nascondendosi nella giacca, raggiunse il vecchio viale dimenticato dal mondo.

Ormai era pomeriggio inoltrato. Si avvicinò a Saul. Non respirava. Non si muoveva. Sgranò gli occhi, lasciandosi cadere sulle ginocchia. Abbracciò l'uomo, lasciandosi andare a un pianto silenzioso.
Gli accarezzò i capelli grigi.
Restò per un tempo indefinito al suo fianco. Osservava ancora l'espressione serena con cui se n'era andato.
Non sapeva praticamente nulla di lui.

Singhiozzò, nascondendo il volto tra le ginocchia tirate al petto.

«Vedi Orion? Sei un cancro. Tutto ciò che tocchi muore.»




Angolino
Ed ecco qui il morto che camminaa✨✨💀
Già, il siero lo sta uccidendo, perché non ha l'antidoto a disposizione.
Vive con le allucinazioni di Pollux da anni e la sua salute mentale sta andando a farsi benedire.
Sempre felice di regalare traumi su traumi ai miei personaggi, ormai li collezionano come figurine.

Ora spero non mi odiate e che il capitolo vi sia piaciuto nonostante tutto e alla prossima.

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