XVI. Appuntamento
Robert
«Sei in tensione? Vuoi che ti porti qualcosa da bere?»
Arthur se ne stava poggiato contro il muro, le braccia intrecciate al petto, osservandolo con un cipiglio divertito e attento. Si era infilato nella sua camera non appena l'aveva visto andare a prepararsi.
Sembrava che lo stesse appositamente aspettando.
«No.» Robert prese ad aggiustarsi il maglione. Non voleva far apparire la cosa come un'uscita romantica, anche perché aveva perso l'allenamento su quel genere di cose. D'altronde fingeva di offendersi di solito, ma Eris e Leon avevano ragione quando gli dicevano che non avesse un appuntamento dai tempi prima di Cristo.
Arthur alle sue spalle ridacchiò.«E smettila, non è divertente. È solo un'uscita normale.»
L'amico alzò le mani in segno di resa, forse davvero non aveva voglia di discutere con lui. Oppure si stava preparando all'ennesima stilettata, pronto all'affondo finale. «Certo, ripetimi perché lo hai fatto, mi sfugge.» Stava gongolando. Sapeva benissimo che si stesse vendicando per tutte le volte in cui l'aveva preso in giro all'Accademia. Arthur era sempre stato timido e buono, un po' introverso, ma una volta superata quella barriera era davvero insopportabile, sempre affettuosamente parlando. Si era sempre divertito a stuzzicarlo in accademia, a prenderlo in giro bonariamente sul primo bacio o sulla sua colossale cotta per il proprio migliore amico.
Adesso gli stava servendo la vendetta su un piatto d'argento, avrebbe dovuto subirla con più pazienza e dignità.
Sbuffò stanco. Si passò una mano tra i capelli castani, come la quercia bagnata di un albero, e prese un respiro profondo. «Perché sospettano di noi e cercherò di abbassare le loro difese.»
«Vorrei fare una battuta ridicola e alla Orion, ma preferisco mantenere un certo contegno.»
Robert sorrise appena. Iniziò a guardarsi attorno. Era sempre stato un gran disordinato, le coperte erano ancora sfatte, e aveva lasciato sul letto tutti i maglioni provati precedente, prima di trovare quello adatto alla serata. A volte odiava il suo modo di vivere caotico. Avrebbe potuto incolpare la sua vita da soldato, ma sarebbe stato ridicolo e in contrasto con le manie assurde di Arthur, anche se non ai livelli ossessivi di Altair.
Riuscì a individuare la giacca, sepolta dai maglioni. La liberò da quella massa deforme e storse il naso. Quando sarebbe tornato, avrebbe sistemato.
Anche perché altrimenti sarebbe stato impossibile cercare di dormire.
Robert gli diede una pacca sulla spalla. «Augurami buona fortuna.»
«Non credo che ti servirà.» Arthur uscì dietro di lui dalla camera.
Eris era nel corridoio, a dondolarsi sui piedi, con uno strano luccichio nello sguardo. Gli si avvicinò e Robert comprese che sarebbe iniziato l'interrogatorio. Eris amava ficcanasare ovunque, soprattutto nelle sue questioni. Aveva accettato il fatto che fosse perché aveva sempre avuto un debole per lei e Leon, viziandoli anche un po'. Di conseguenza si sentivano entrambi in dovere di preoccuparsi per lui, almeno il doppio di quanto lo faceva lui. «Dove devi andare, eh?»
Arthur ridacchiò e scrollò le spalle. Li lasciò soli e andò verso il salotto. Robert sentì la cristalliera aprirsi. Decisamente aveva deciso di versarsi un bicchiere di whisky. Ultimamente Arthur aveva ripreso a bere un po' di più, era abbastanza convinto che quella specie di stato di depressione, post morte di Orion e Lily, non l'avesse mai superato.
«Esco.»
«A fare?»
Robert si mosse nervoso. «Un giro con Yennefer.»
Eris si illuminò divertita. Posò le mani sui fianchi. «Quindi è un appuntamento?»
Allargò le braccia sconfitto. «Non proprio, solo un'amichevole uscita.»
«Sei serio?» La vide inclinare il capo. «Stai bene comunque, sai ancora vestirti.»
«Sei una nanerottola impertinente.»
«Arthur!» Leon urlò, attirando l'attenzione di tutti. Andarono in salotto, anche Yennefer li raggiunse, scendendo le scale. La trovava particolare nel suo modo di essere fredda e scostante. Non riusciva ben a comprendere cosa stesse indossando, nascosta nel cappotto caldo, gli stivali alti fino alle ginocchia e una sciarpa enorme e calda in cui nascondersi.
Dedusse che fosse piuttosto freddolosa.
«Cos'ho fatto ora?» Arthur sembrava terrorizzato da Leon, che teneva tra le mani Flash. Robert ogni tanto si ritrovava a ridere da solo, pensando che solo un idiota come Orion potesse suggerire un nome simile per una tartaruga.
«Perché odi Flash?»
«Non odio Flash!»
Leon si scambiò un'occhiata divertita con Eris. Robert comprese che avessero qualcosa di leggermente diabolico in mente. «Hai dimenticato il suo mangime oggi e non le accarezzi mai la testuggine.»
«Ma sei serio?» Arthur sgranò gli occhi. Posò il bicchiere del whisky sul pianoforte. Leon annuì in tono convinto. Nel frattempo, Anita abbaiò forte. Si mise seduta, scodinzolando in direzione di Flash. A volte Robert credeva che fosse un cane così testardo. Era convinta che prima o poi le avrebbero dato in pasto Flash. «Va bene, Leon. Cosa devo fare per farmi perdonare da questo affronto nei suoi confronti?»
Leon sorrise come un cucciolo spaurito. A volte era davvero un ottimo attore. «Devi darle un bacetto sulla testa.»
«Cosa?!»
«Vedi? Odi Flash. Qui tutti l'hanno accarezzata almeno una volta e se ne prendono cura. Tutti le abbiamo dato un bacino, oggi è anche il suo compleanno.» Leon si dondolò sui piedi, spingendo il braccio in avanti, avvicinando Flash ad Arthur, che indietreggiò quasi spaventato.
«Non è vero, nessuno lo ha fatto. Robert, tu lo hai fatto?»
Sapeva cosa si stessero giocando. Era un'occasione da non farsi sfuggire. Arthur teneva troppo a non urtare la suscettibilità di tutti loro e probabilmente si sarebbe anche ucciso per i piccoli Grey. Annuì, così, in tono convinto. Evitò accuratamente di incrociare lo sguardo di Eris o sarebbe scoppiato a ridere.
Arthur sospirò frustrato. Si avvicinò a Flash e le posò un bacio sul guscio. Si pulì poi la bocca.
Tutti scoppiarono a ridere.
Leon si voltò verso sua sorella e ghignò. «Mi devi dieci dollari ora.»
«Sei così debole Arthur!» Eris batté i piedi a terra. Infilò la mani nella tasca dei pantaloni e sfilò i soldi, passandoli a suo fratello.
«Cosa?!» Arthur sgranò gli occhi. Robert ridacchiò divertito, avvicinandosi alla porta di casa. Prese le chiavi dell'auto e fece cenno a Yennefer di seguirlo. La ragazza aveva un sorriso soddisfatto sul volto, come se quel piccolo teatrino l'avesse tirata su di morale. Gli si avvicinò e sentì il suo profumo al bergamotto invaderlo.
«Dio mio, siete dei bastardi.» Arthur si lagnò. «E tu mi hai tradito! Pensavo fossimo fratelli! Come hai potuto?»
Robert scrollò le spalle. «Mi dispiace, ma non potevo perdermi un'occasione simile.» Aprì la porta di casa, permettendo a Yennefer di uscire prima di lui. Si voltò a guardare tutti loro poi. «Mi raccomando fate i bravi, quando torno dovete essere già a letto, domani c'è scuola. Chiaro?»
Leon ed Eris annuirono con forza. «Va bene!»
Si richiuse la porta alle spalle e si aggiustò il giaccone. Aprì la portiera dell'auto alla ragazza, che inarcò un sopracciglio. «Da dove sei uscito? Dagli anni trenta?»
«Prego eh.»
Yennefer ridacchiò. Gli posò una mano sulla spalla. «Sto scherzando, rilassati.» Salì in auto. Robert prese un forte respiro e la imitò.
Era strano uscire senza così tante preoccupazioni a lambirgli la mente. Non ci era quasi più abituato. Guidò con calma, ormai i tempi di inseguimenti sfrenati e multe a non finire erano conclusi. Quando era con Orion aveva combinato così tanti guai, che a volte pensava che non fosse possibile che fosse maturato così tanto.
Scosse appena il capo. Guardò con la coda dell'occhio la ragazza accanto. Fissava fuori dal finestrino il paesaggio con sguardo perso e disincantato. «Allora, di dove siete originarie? Cortez non è un cognome propriamente di Boston...»
La ragazza si voltò a guardarlo e scrollò appena le spalle.
«Cile... ma non abbiamo mai visto il nostro paese, siamo nate qui. Mio padre si trasferì quando aveva appena dodici anni. Nostra madre invece era di Boston.»
Robert annuì. «Quindi non parli lo spagnolo come tuo padre?»
«Claro que sí.» (chiaro che sì.)
Yennefer sorrise e si stiracchiò.
«Conosco anch'io un po' di spagnolo, ma non tantissimo.»
Aveva la sua attenzione perché poteva sentire il suo sguardo bruciargli addosso per la curiosità. «Come mai?»
«C'era questo nostro amico in accademia, James. Era bilingue e mi insegnò alcune cose, nei tempi morti o anche quando eravamo in guerra, ad aspettare per ore che qualche terrorista uscisse fuori allo scoperto.»
Yennefer si strinse un po' nelle spalle. «È stato un periodo pesante?»
Ormai erano arrivati. Parcheggiò l'auto. Si prese qualche secondo per rispondere. Fissò la strada di fronte. Aveva scelto un bar non troppo affollato, ma abbastanza elegante per una serata non troppo impegnata ma nemmeno vacua.
A volte sognava ancora quella granata al suo fianco. A volte sentiva ancora le urla dei suoi amici quando aveva perso i sensi. A volte si risvegliava ancora in quella specie di infermeria.
A volte, semplicemente, tutto gli sembrava ancora un incubo.
«Non lo so. Ho sempre pensato che la guerra sarebbe stato il mio mondo e la mia famiglia, invece ho capito che non era così. È stato difficile adattarsi dopo tutto quello che mi ha portato via, compreso il piede.» Scosse il capo.
Yennefer scese dall'auto con lui. Corrugò la fronte. Conosceva quell'espressione, stava metabolizzando le sue parole. «Cosa? Non hai un piede? Ma non zoppichi!»
Diede un calcio all'aria col piede sinistro e scrollò le spalle, divertito. «Mi hanno dato una protesi molto all'altezza. Posso fare di tutto. Per lo meno mi hanno dato le migliori cure e i migliori chirurghi... entriamo?» Indicò con un cenno del capo la porta alle sue spalle. Ne parlava di rado, non perché se ne vergognasse, semplicemente perché non tollerava falsi e stupidi atteggiamenti buonisti.
La ragazza lo guardò appena. Preferiva così. Se avesse tentennato o fosse stata strana per tutta la serata l'avrebbe capito. Avrebbe messo fine a qualsiasi cosa fosse potuta nascere ancor prima del tempo. Odiava gli sguardi impietositi che le persone gli rivolgevano quando scoprivano del suo problema. Non voleva la loro compassione, né quegli occhi pieni di commozione. Era così difficile trattarlo esattamente come chiunque altro?
«Va bene, il primo giro lo offri tu.» Yennefer strinse a sé la propria borsa ed entrò nel locale. Fissò la sua schiena per un istante e scosse il capo, seguendola poi.
Il locale era sempre abbastanza tranquillo. Adorava quel profumo dettato solo da particolari candele, così come la leggera musica di sottofondo, a rilassargli la mente, tenendola lontana dai soliti pensieri invadenti. Aiutò la ragazza a togliersi il cappotto caldo, la lana gli solleticò le dita. Portò i loro giacconi all'ingresso, dove in cambio gli consegnarono un cartellino per ritirarli dopo dalla cabina. La raggiunse al tavolo, poi, dove uno dei camerieri l'aveva scortata.
Si accomodò di fronte a lei. Si sentì quasi a disagio. Lo stava studiando. Gli occhi scuri si posarono sulla sua figura e, istintivamente, prese a sistemarsi le maniche del maglione.
«Allora, porti tutti qui?» Inclinò il capo.
«Per chi mi hai preso? Non ho più diciott'anni.» Le passò uno dei menù e si nascose un po' tra quelle parole stampate. Non credeva di essere arrugginito fino a quel punto, ma Yennefer sembrava saper gestire meglio di lui situazioni simili.
L'ultimo appuntamento serio risaliva almeno a dieci anni prima.
La sentì ridacchiare. «Trovo difficile immaginarti immaturo, anche da ragazzino. Sul serio ti divertivi così tanto?»
«Mi sono ritrovato costretto a maturare abbastanza velocemente. In Accademia ero una testa calda, insieme ad Orion. Poi sono cresciuto... il mio migliore amico, invece, è sempre rimasto un po' un bambino.»
«Eravate legati?»
Annuì. Non sapeva spiegare a parole il legame che aveva condiviso con Orion, non sarebbero mai state abbastanza. Si era abituato per una vita intera a sentirsi solo, era figlio unico, e non aveva mai avuto una famiglia così affettuosa con lui. Suo padre non si aspettava altro che voti alti e ottima media, quando si era iscritto all'accademia, forse, era stato l'unico giorno in cui era stato orgoglioso di lui. Sua madre era stata una donna troppo accondiscendente, la sua parola non contava nulla in casa, né era capace di prendere posizioni per difenderlo.
Orion gli aveva insegnato cosa significasse avere un fratello. Un fratello con cui combinare guai, divertirsi e raccontare qualsiasi cosa. Avevano poi legato con Arthur, che era sempre il più timido e introverso del corso, chiuso a riccio nel proprio mondo. Si era dovuto arrendere a due terremoti come lui ed Orion. «Molto.» ammise quasi a fior di voce.
Si ricompose, non voleva approfondire troppo quel tasto. Aveva già abbastanza la sensazione che ne fosse particolarmente interessata per le proprie indagini. «E tu? Come mai hai deciso di lavorare nel mondo giornalistico?»
Yennefer sospirò appena. Poggiò il menù sul tavolo e si prese qualche secondo per rispondere. «Suppongo per alimentare la mia curiosità, credo sia di famiglia, sai?» scrollò le spalle. «Mia sorella è più testa calda di me, è impetuosa e curiosa altrettanto, è difficile fermarla quando ha qualcosa in mente... in questo siamo identiche a nostro padre. Ho sempre amato scrivere, gettare su carta i miei pensieri e dare voce a chi non ha la possibilità di farlo.»
«Credo che non sia così negativo come sembra tu voglia dipingerlo, eh.»
«È pericoloso e a volte non mi dà le soddisfazioni che merito. Trovare un giornale o una testata che sia davvero interessata ad argomenti importanti e a non le solite stupide notizie è difficile.» Si sistemò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Seguì il movimento delle sue mani e le dita affusolate, osservando lo smalto bordeaux che tingeva le unghie. «È come se fosse più semplice chiudere gli occhi e ignorare che accettare la verità.»
Robert storse appena il naso. «A volte la verità fa male.»
«Ma è ciò che mi tiene viva... per questo devo sapere cos'è successo ai miei genitori, voglio capire chi siano davvero, perché a questo punto non ci capisco più nulla. Non mi interessa chi dovrò ferire o calpestare per arrivarci.»
Robert non interruppe quel contatto visivo. L'avrebbe fatto sembrare colpevole. Sapeva abbastanza bene quanto non si fidasse di lui. Lo leggeva nel suo linguaggio del corpo, continuamente combattuto. C'erano piccoli istanti in cui abbassava la guardia, le spalle, e sembrava pronta a un dialogo. Altri, invece, in cui stringeva i pugni e assottigliava lo sguardo. Tutto il suo corpo si irrigidiva dal fastidio.
Era così complicato trovare interessante qualcuno e ingannarlo allo stesso tempo. Non poteva di certo rivelarle quanto avesse detestato i suoi genitori negli anni. Né che Orion e Arthur avevano avuto i loro nomi su una lista nera, in attesa del momento perfetto per ucciderli. Inoltre, capiva il suo stato d'animo. Doveva essere difficile accettare la verità dei fatti, ammettere che le persone, che aveva più amato al mondo, non erano dei santi.
«Allora, signori. Siete pronti per ordinare?» Il cameriere alle loro spalle attirò l'attenzione. Teneva il taccuino in mano in attesa delle loro ordinazioni.
Presero entrambi dei calici di vino, con qualcosa da poter stuzzicare accanto.
Aveva la sensazione, però, che la donna si stesse preparando solo all'ennesimo affondo. La vide mentre si sistemava smaniosamente i capelli, portando alcune ciocche all'indietro. Osservò gli orecchini pendenti, che mettevano in risalto lo sguardo scuro. «Tu cosa ne pensi di questa storia? Il fatto che l'agenzia, per cui fai da consulente, sia dietro a tutto questo non ti fa uno strano effetto?»
Ringraziò il cameriere, che portò al tavolo le loro ordinazioni. Fece roteare il vino all'interno del bicchiere di vino, osservando le gocce che scivolavano lungo la parete di cristallo. «Se c'è una cosa che mi hanno insegnato è che bisogna tenere più vicino i nemici che gli amici. L'ho capito in guerra, quando mi sono dovuto fidare anche di colleghi che non erano per nulla affidabili.»
«Qua non parliamo di guerra. Stiamo parlando di due persone scomparse, che hanno lavorato per la Serpents Agency, colpevoli di chissà quale progetto e forse uccisi. Stiamo parlando dei miei genitori, che avrebbero dovuto pagare per i loro errori sicuramente, ma non con una guerra omicida.» Bevve un sorso di vino. «E tu ed Arthur da che parte state? Mi dovrei mettere nella condizione di tenervi più vicini dei miei amici?»
Scosse il capo. «Non sono io il tuo nemico, credimi.»
«Mi risulta difficile, vista la serie di informazioni che ci tieni nascoste.» Sospirò stanca. Si tirò in piedi e prese la borsa. «Ho bisogno di fumare un momento.» Si allontanò dal tavolo e Robert seguì la sua figura, fino a quando non abbandonò il locale. Non aveva previsto un appuntamento perfetto, ma nemmeno un semi interrogatorio con tanti capi d'accusa. Si passò una mano in volto e aggrottò la fronte.
Aveva una strana sensazione addosso, non l'avrebbe saputa spiegare. Si voltò a guardare indietro, verso il bancone e intravide l'ultimo dei volti che avrebbe voluto incontrare.
Maximillian era a bere ed era piuttosto sicuro che fosse lì per loro.
Sentì ogni muscolo del corpo tendersi per la tensione. La gola gli si seccò e il cuore batteva così forte da poter schizzare via. Le mani presero a solleticargli. Uscì dal locale, stando attento a non farsi vedere dal soldato. Utilizzò una seconda uscita, che non prevedesse un passaggio davanti a lui. Intravide Yennefer nell'ombra e le si avvicinò a passo spedito.
La vide aggrottare la fronte. «Ehi, che hai-»
Le prese il polso e la tirò in un vicolo buio. Non le permise di parlare, portandole una mano alla bocca. La sentì sussultare e tremare sotto la propria pelle.
Yen sgranò gli occhi, cercando di ribellarsi a quel contatto. Iniziò a muoversi agitata. Si avvicinò al suo orecchio, per sussurrarle una rassicurazione. «C'è Max... sta' in silenzio e aspettiamo, okay?» La sentì annuire sotto il suo tocco e allontanò la mano. Il suo profumo, la sua essenza, erano così vicini da togliergli il fiato.
Non parlarono.
Restarono lì in attesa per un po' di tempo, fissandosi di tanto in tanto. Non provava quella confusione da tempo. Non riusciva a fare a meno di osservare il suo profilo, lo sguardo color nocciola, sempre così scontroso, ma che gli dava l'impressione che Yen fosse stanca e volesse solo crollare ogni tanto. Avrebbe potuto dire tante cose, accarezzarle una mano, ma c'era sempre una voce che lo frenava, bloccandolo sempre al punto di partenza. Qualunque cosa fosse, ciò che si stava creando non era reale, non più di tanto, non per lei, sicuramente. Era interessata solo alla loro storia. Si sentiva abbastanza stupido da non essere stato capace di lasciarsi coinvolgere.
Sospirò piano. L'aria era fredda e le si avvicinò, porgendole la sua sciarpa. Yen inarcò un sopracciglio. La indossò, abbassando appena il capo come a ringraziarlo e sorrise appena. Si strinse nel proprio cappotto e appoggiò il capo contro la sua spalla.
Robert trattenne il respiro per un istante.
Vide la figura dell'uomo attraversare, saltando il vicolo cieco. Si guardava intorno. Dopo una scrollata di spalle, piuttosto scocciata, si allontanò.
Non li aveva visti. Yen alzò lo sguardo su di lui. «Se n'è andato, no?» mormorò, cercando di non farsi sentire.
Annuì. «Aspettiamo ancora un po'. Poi uscirò prima io.»
Dopo un tempo indefinito, che sembrava quasi migliore di quello trascorso nel locale, riuscirono a uscirne indenni. Non era importante pagare il conto, non sarebbe più tornato in quel posto. Guidò fino a casa, mantenendo lo stesso stato di religioso silenzio. Posò lo sguardo sulla donna, accovacciata quasi su se stessa, sul sedile dell'auto.
Parcheggiò davanti alla villa Grey e si fermò a metabolizzare qualche parola adatta. L'aveva sentita più vicina e meno scontrosa in quella situazione di pericolo. Le posò una mano sulla spalla. «Stai bene?»
«I-io, credo di sì...» biascicò, «grazie.»
Angolino
Ora vado a dormire perché sono esausta, dopo faccio il calcolo del fanta😂
Un capitolo abbastanza di passaggio ma che mi serviva anche a sviluppare una ship. A volte non credo di cavarmela poi così bene con le coppie💀
Fatemi uccidere personaggi, fare stragi ma non fatemeli innamorare insomma😂.
Alla prossima ❤️🩹
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