VI. Solo
𝐀𝐫𝐭𝐡𝐮𝐫
Aveva bisogno di aria, prendere fiato e tenersi distratto. I ragazzi erano stati strani a tavola. A occhi esterni, a un osservatore particolarmente scarso o che non li conoscesse abbastanza, poteva sembrare una cena tranquilla, ma Arthur conosceva bene i suoi polli. Sapeva benissimo che qualcosa li aveva turbati o che aveva acceso la miccia della loro curiosità e non era un caso che tutto fosse successo dopo l'arrivo delle due sorelle Cortez.
Tutte quelle domande su Orion, l'improvviso interesse delle ragazze e la disponibilità assurda di Atlair, che aveva messo da parte rabbia e rancore, gli avevano acceso uno strano campanello d'allarme.
Tornò in salotto, alla ricerca della propria giacca. Poteva sentire ancora il chiacchiericcio dei ragazzi in cucina, che avevano cominciato a discutere su alcuni progetti scolastici e poi sulle nuove uscite dei film al cinema. Le mani gli tremavano nervose mentre si guardava attorno in salotto.
Sussultò quando un tuono squarciò la calma generale e la luce illuminò all'improvviso, come un violento flash, l'interno della villa. Storse il naso, non sarebbe stato saggio uscire sotto la pioggia, ma ne aveva l'esigenza. Doveva prendere aria, respirare e sentirsi meglio. Si passò una mano in volto, stanco. «Ma dove cazzo sta?»
«Che succede?» Robert teneva un bicchiere di birra ancora in mano e lo osservava con curiosità. Come al solito i capelli castani ormai erano in disordine e alcune ciocche sembravano tentacoli di un polpo scatenato. «Che stai cercando?»
«Il mio giaccone. Ho bisogno di uscire.» Arthur sbuffò scocciato, si lasciò cadere sul divano e si portò entrambe le mani in volto, pronto a scoppiare a piangere o ad urlare. Voleva starsene senza fastidi e problemi, semplicemente da solo per un po'. «Non lo trovo ed ero certo di averlo lasciato qua, cazzo.»
Robert aggrottò la fronte e annuì. Bevve l'ultimo sorso di birra, era rilassato. Arthur non voleva credere che non si fosse accorto della tensione generale e degli animi troppo curiosi del gruppo. «Va bene, adesso ti aiuto a cercarlo con calma, tu però non dovresti uscire con questo tempaccio-»
«So guidare un'auto.» Arthur si tirò in piedi. Era sempre stato calmo e gentile con tutti, ma cercava di reprimere in ogni modo tutto il dolore che covava dentro, che lo stava lacerando in mille pezzi, squarciando ogni singola fibra del corpo. «Non sono un idiota che corre sulla moto e si schianta verso la scogliera per risolvere ogni problema.»
Robert si fermò ad osservarlo, in silenzio.
L'aveva detto.
Aveva sputato anche lui lo sdegno e la delusione covata per le decisioni prese da Orion. Se solo gli avesse mai parlato, se solo gli avesse dato fiducia, avrebbe risolto qualsiasi problema con lui, insieme come avevano sempre fatto. E si sentiva ancora più un idiota a sentire la sua mancanza, nonostante i dieci anni trascorsi. «Non discuto le tue capacità da autista, credimi. Piuttosto il tuo stato mentale e psicologico... per te è-»
«Smettila di trattarmi come una vedova. Cosa vorresti dire, eh?»
Robert roteò gli occhi al cielo. «Per te è sempre stato diverso e lo sai. Non abbiamo perso la stessa cosa. Io ho perso un fratello, ma tu? Non l'abbiamo mai capito. Non ho mai capito cos'hai perso, perché sei un concentrato di dolori e segreti, ma il tuo sguardo urla bisogno di aiuto e se continuerai a far finta di nulla, ancora, dopo tutto quello che hai vissuto, non farai altro che logorarti e io non posso permettermi di perdere un altro fratello. Ti è chiaro?»
Arthur sentì il labbro inferiore tremare. Aveva perso il conto delle ore trascorse insonne, della paura vissuta in ogni momento. A volte, quando si guardava allo specchio, nemmeno si riconosceva più. Il senso di colpa e il dolore di non aver potuto far nulla lo stavano uccidendo. Iniziò a incamminarsi nel corridoio all'ingresso. Fissò l'attaccapanni. Sentì i passi di Robert avvicinarglisi. Trovò il proprio giaccone e tirò un sospiro di sollievo. Le sigarette erano nella tasca interna come al solito. Aveva tutto. Prese le chiavi della propria auto e si voltò a guardare Robert, che teneva le mani nelle tasche dei pantaloni e lo guardava sconsolato. «Sei sicuro che non vuoi che venga con te?»
Arthur scosse il capo. «Ho bisogno di stare un po' da solo, va bene?»
Robert annuì, allontanandosi e lasciandolo solo. Arthur aprì la porta di casa e si riversò fuori. Alzò il cappuccio della felpa e iniziò a incamminarsi sotto la pioggia incessante, diretto alla propria auto: una berlina nera. Aveva ancora qualche ammaccatura dovuta al tempo e alle usure, ma soprattutto i suoi più grandi nemici: i bassi paletti per indicare i parcheggi o le zone dove non sostare. Salì in auto e si liberò della giacca, dopo aver sbuffato piano. «Che palle, che freddo, cazzo.» Mise in moto e attese che l'auto fosse abbastanza calda per poter accendere la stufa e non congelarsi.
Iniziò a guidare, nervoso, e attivò i tergicristalli. Aggrottò la fronte, mentre i fari fendevano l'aria, illuminandogli la strada.
Uscì dal viale principale della villa, dopo aver aperto il cancello automatico. Sentiva il ticchettio continuo e imperterrito delle gocce di pioggia sul vetro. Tante volte aveva amato osservare come l'acqua lasciasse le scie bagnate sui finestrini, osservando il panorama dal sedile del passeggero, immaginando una vita tranquilla. Erano solo dei ragazzini, quando avevano deciso di dare alle loro vite un senso folle.
Non sapeva dove andare, eppure la sua mente, il suo inconscio, lo portava sempre allo stesso posto, al solito luogo del mondo dove aveva creduto di appartenere. C'era un piccolo parco, tranquillo e isolato, non troppo lontano da dove era cresciuto. Ci tornava sempre quando si sentiva solo al mondo e spaesato. Quando voleva sentirsi di nuovo parte di qualcosa. Quando erano in pausa da qualche missione, insieme agli altri andava lì. Trascorrevano le notti seduti sulla solita panchina, lui e Orion. Mentre Robert, James, Syria e Andrew giocavano a pallone, come se i guai in cui si erano cacciati non fossero mai esistiti. Lontani da qualsiasi problema e timore. Stavano così bene tutti insieme.
Parcheggiò all'angolo, poco lontano dal parco, e scese dall'auto. La pioggia batteva incessante, leggera ma cosante.
Nascose le mani nelle tasche del giaccone ed entrò nel parco. Le scarpe si sporcarono appena di fango, mentre l'odore di erba bagnata gli inondò la testa. Lo rilassava.
Individuò la solita panchina. Si avvicinò e si poggiò su di essa, sul ferro freddo e bagnato. La pioggia gli bagnava il corpo, l'animo, e gli annebbiava la vista. Socchiuse gli occhi e restò a respirare un po' quell'aria da solo.
Eppure quei ricordi erano così vividi nella sua testa da sembrare veri sul momento.
Erano felici.
«Ho portato il pallone!» Andrew sorrideva felice, saltellando in avanti. Sembrava che ogni giorno fosse una giornata soleggiata per lui.
Syria, sua sorella, lo seguiva tranquilla. Gli sfilò il pallone dalle mani e iniziò a correre verso il prato verde.
«Forzaa, vi muovete?» Urlava felice, a squarciagola. Era notte, anche quella volta. Era uno dei suoi ricordi più felici.
«Orion!» James lo richiamò, mentre era intento a chiacchierare con Arthur e Robert. «Ferma la tua ragazza, per Dio!» ridacchiò.
Sulle labbra di Orion screpolate e spaccate, da un pugno durante una delle tante risse, si dipinse un sorrisetto divertito. Si limitò a scrollare le spalle. «Falla divertire, Jamie.» Posò poi le mani sulle spalle di Arthur e Robert, tirandoli a sé. Erano sempre stati loro tre contro il mondo, contro tutti e tutto. Man mano si erano aggiunti anche James, Syria e Andrew. Erano felici, nonostante all'Accademia le regole fossero rigide. «Io non gioco, voglio fumare in santa pace e rilassarmi. Oggi io e Max ce le siamo suonate di santa ragione durante l'allenamento.»
«Gioco io.» Robert li spinse di lato e raggiunse gli altri verso il centro del parco. Arthur si limitò a seguire il proprio migliore amico fino a quella panchina, che sarebbe diventata il solito posto, per entrambi.
«Sembri stanco.» Arthur si sedette al suo fianco. Orion scrollò le spalle e sfilò una sigaretta dal proprio pacchetto, porgendogliela. Prese un accendino e gliel'accese. Arthur sentì il suo profumo pungente e rilassante. Gli sorrise, ringraziandolo poi.
Orion si strinse nelle spalle, aveva un po' freddo. I capelli neri, come le piume di un corvo, erano tirati all'indietro dal gel. «Un po', ma sto bene. Sono solo preoccupato per Pollux in realtà.» Avvicinò la sigaretta alle labbra.
Arthur tossicchiò appena, ancora doveva abituarsi al fumo e in realtà ancora non aveva capito perché avesse deciso di iniziare. Sapeva soltanto che quei momenti in cui lui e Orion si nascondevano in qualche angolo dell'accademia per fumare erano elettrizzanti. Si sentivano così vivi, ma probabilmente erano solo due idioti col complesso di superiorità. «Perché? Cos'è successo?»
«È strano. Mi ha chiamato anche Alexandra, la sua ragazza. Dice che ultimamente è violento e sta bevendo tanto. Non è da lui...» Orion tirò all'indietro un ciuffo ribelle di capelli. Arthur osservò i suoi movimenti, con la sigaretta a penzolare tra le labbra. Scosse il capo.
«Sarà un periodo, no?»
«Non lo so... io e Pollux siamo andati sempre d'accordo, ma da quando sono venuto in Accademia abbiamo perso i contatti e lui ormai a stento mi racconta come va.» Scrollò le spalle. «Spero di non dovermi preoccupare troppo.» Si voltò poi a guardarlo, osservandolo con quegli occhi neri come la pece, sembrava potessero scavare nel suo animo. «Guarda che idioti, Andrew è scordinatissimo.»
«Non dovrebbe avere nemmeno un fucile tra le mani.» Arthur ridacchiò, tenendo le mani nascoste nel giubbotto, dopo aver spento la sigaretta.
«Cazzo se hai ragione.» Orion rise divertito e poggiò il capo sulla sua spalla. Quando voleva qualcosa si comportava come un gatto che fa le fusa. «La settimana prossima andrò a parlare con mio fratello, verrai con me? Ho bisogno di un supporto.»
Arthur annuì. Lo fissò. «Perché non Robert? Lui è il tuo partner su queste cose-»
«Perché fomenterebbe la mia voglia di spaccargli il naso, invece tu mi mantieni tranquillo e Syria deve stare fuori da questa cosa, mi pare ovvio. Robert appoggia qualsiasi mia idea malsana, non so quanto sia conveniente che mi accompagni.»
Arthur sorrise. «Va bene. Solo se mi offri tu da bere, però.»
«Ma certo ubriacone del mio cuore.» Orion circondò il suo collo in un abbraccio e Arthur gli mollò un pugno sul petto. Gli altri urlavano di raggiungerli a giocare. Robert lanciò il pallone nella loro direzione e Arthur lo fermò al volo.
«Facciamo vedere loro come si gioca davvero a calcio.»
Gli mancavano quei momenti spensierati. Si era ritrovato ad avere gli occhi lucidi senza nemmeno accorgersene. Erano felici, amici e rilassati. Dopo quell'incontro tante cose cambiarono, così come il suo rapporto con Orion, complesso e viscerale. Legati da un filo invisibile e da una verità troppo dura da dire ad alta voce. Erano sempre stato più bravi a sussurrarsi segreti e a proteggersi, a guardarsi le spalle, nonostante tutto. Due campioni nel combinare guai e uscirne miracolosamente, ancora si domandava se fosse fortuna sfacciata o competenza.
Certo, Robert aveva perso un fratello, ma Arthur ancora non avrebbe saputo spiegare quanto fosse stata dolorosa quella perdita. Una parte di sé era morta per sempre, sepolta. E in risposta, come un fedele amico -sebbene quella definizione andasse stretta per spiegare il loro rapporto-, avrebbe conservato per sempre ogni loro ricordo e segreto, l'avrebbe cullato e se me sarebbe preso cura con amore e devozione.
Dopo diversi tentativi e imprecazioni con l'accendino, riuscì ad accendere la sigaretta. Fissò nel vuoto. L'intensità della pioggia andava scemando ed espirò il fumo. Socchiuse gli occhi ancora una volta. Aveva perso così tanto. In poco tempo i pensieri volarono a Lily, la sua sorellina amata e adorata. Non poteva perdonarsi così tante colpe, come avrebbe fatto? Tutto sembrava ricordargli il male a cui ognuno di loro era destinato, condannato fin dalla propria nascita a portare addosso un fardello più pesante della stessa vita. Una lacrima copiosa iniziò a scendere lungo le sue guance. Il dolore mascherato dalla pioggia.
Si asciugò con la manica bagnata del cappotto e continuò a fumare, sebbene la sigaretta ormai fosse impregnata d'acqua.
Si tirò poi in piedi, scalciando l'aria. Avrebbe voluto urlare, ma non ne aveva le forze. La voce gli moriva in gola, addolorata e spaventata di poter gridare la verità probabilmente. Sbuffò piano e fece per andarsene, quando un crack, alle spalle, attirò la sua attenzione. Prese il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni. Accese la torcia. Certo la sua vista già era ampiamente ben sviluppata, ma voleva essere certo di non essere pedinato da nessuno.
Forse la guerra l'aveva reso paranoico, ma credeva che certe sensazioni fossero ormai solo un vago e lontano ricordo. «Che cazzo.» Sbuffò infastidito.
Iniziava a credere che fosse stato seguito da qualcuno, ma non aveva idea di chi potesse essere. Improvvisamente si sentì osservato e rabbrividì nervoso. Il terrore che fossero tornati a dargli il tormento lo invase. Non voleva pensarci, non voleva contemplare minimamente quella cosa, ma non poteva far a meno di credere che forse non era ancora libero come sperava e pensava.
Non c'era nessuno, però.
O per lo meno così credeva.
Si incamminò verso l'auto a passo svelto. Doveva restare calmo. Si rinchiuse nella vettura e mise in moto per andarsene. Il cuore gli batteva con violenza nel petto e le gambe sembravano tremare per la tensione accumulata. Spinse il piede sul pedale, per tornare quanto prima a casa. Ormai aveva smesso di piovere e le tenebre scure della Notte abitavano le strade, ancora inzuppate. Continuava a ripetersi mentalmente che non fosse successo nulla, che la sua mente gli stava giocando brutti scherzi.
Non c'era nessuno.
Non c'era nessuno.
Non c'era nessuno.
Doveva convincersene. Strinse forte il volante tra le mani, le nocche impallidirono quasi.
Una volta arrivato nello spiazzale di casa, scese dall'auto e, d'istinto, si voltò a guardare alle proprie spalle. Era solo. Eppure quella sensazione pressante sembrava non voler sparire. Si portò una mano al petto, massaggiandosi nervosamente.
Poi prese fiato e ripercorse il viale per arrivare a casa. Sul portone era rappresentato lo stemma della famiglia: due serpenti che si attorcigliavano l'uno sull'altro. Spesso si chiedevano cosa significasse per i loro antenati e ci giocavano sopra.
Cercò nelle tasche del giaccone le chiavi di casa, il tintinnio lo ridestò, ma sentì anche un foglio stropicciarsi al tatto.
Di solito gettava qualsiasi carta, gli dava noia avere disordine nelle tasche. Sfilò entrambi e, prima di aprire la porta, restò sull'uscio a leggere quel bigliettino.
Aggrottò la fronte, nervoso. Non era la sua calligrafia ed era stata appositamente modificata, era quasi incomprensibile, ma non per uno come lui, abituato alle calligrafie indecenti dei suoi migliori amici.
Il suo cuore perse più di un battito.
Orion Grey potrebbe essere vivo.
Sei suo complice, una prossima vittima o il prossimo carnefice?
Le mani di Arthur presero a tremare nervose. Spinse in avanti la porta di casa. Poteva essere stato chiunque in quella giornata. A partire dal momento in cui l'aveva dimenticata in caffetteria quel mattino a quella sera, quando tutti i ragazzi erano a casa.
Qualcuno aveva novità importanti e cercava di estorcergli informazioni.
Era ancora più assurdo che Orion potesse essere vivo. Non sapeva se fosse più felice, terrorizzato o arrabbiato se fosse stato vero.
Di certo non aveva una mente lucida per poter ragionare e prendere decisioni sagge. Era altrettanto sicuro, però, che non dovesse coinvolgere i ragazzi. Avrebbe potuto metterli in pericolo, qualora quelle informazioni fossero vere.
Entrò in casa, in silenzio, cercando di non svegliare nessuno. Ormai la confusione di poco prima era solo un lontano ricordo.
Salì le scale, fino a raggiungere una delle camere degli ospiti al secondo piano, dove alloggiava insieme a Robert, quando non erano a casa propria. Ormai si poteva dire che fossero elementi di quella famiglia sotto ogni aspetto, anche quello più tetro. Erano un po' come i Grey: ottimi bugiardi e sapevano nascondere ogni traccia e segreto con astuzia e inganno. Forse anche un po' manipolatori.
Entrò in camera di Robert, che sussultò da sotto le coperte. Gli puntò una pistola contro, quasi come un automatismo meccanico, come ai vecchi tempi. Certe abitudini, purtroppo, non sarebbero mai cambiate. «Cazzo, Arthur. Potevo farti male...» Sbuffò mettendosi seduto, gli occhi erano arrossati dal sonno. Inclinò poi il capo, dopo averlo osservato meglio. «Che succede? Sembra tu abbia visto un fantasma.»
Arthur avrebbe voluto dirgli che forse avrebbero dovuto iniziare a credere ai fantasmi e a quelle ridicole storielle. Gli passò il biglietto, incapace di dire altro e scosse il capo, ancora sotto shock. «Mi hanno nascosto in anonimo il biglietto nel giaccone...» Si portò entrambe le mani in volto. Robert era pietrificato. «Dobbiamo cercarlo e scoprire se è vero, perché se lo fosse e lo venissero a scoprire anche i media, sarebbe morto... sul serio però.»
Angolino
Finalmente un piccolo flashback di Orion e un pov di uno degli adulti.
Ci sono un paio di indizi disseminati nella storia, soprattutto riguardanti un piccolo segreto🌝
Spero vi sia piaciuto e alla prossima
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