✧ Margherite ✧
Nella città del diavolo in estate faceva più freddo, perché l'umidità ti si attaccava addosso e perchè la gente usciva più del solito.
Nella città del diavolo non ci ho mai vissuto, però ci ho ammazzato il tempo tre mesi l'anno da quando ne ho memoria, nella mia casa con il giardino e con le pareti a fiori.
Ci ho ammazzato il tempo guardando quelle margherite rovinate, disegnando l'umidità che le staccava dal muro con lo sguardo, facendo marcire la carta da parati di cui erano figlie bagnandola con quella mia voglia di non fare nulla, con la mia impossibilità di fare qualcosa perché nella città del diavolo non ho mai conosciuto nessuno.
Poi però sei arrivato tu e mi hai illuso d'averla vista davvero la muffa sui muri della mia casa con il giardino, rendendomi un poco meno pazza e ricordandomi che potevo battere le palpebre tra un petalo e l'altro.
Non bussasti alla mia porta, non eri amico di mio nonno e non eri il figlio del giardiniere, eri solo improvviso come l'inverno, che tutti aspettano a Dicembre ma che arriva a Febbraio.
Un ginocchio sbucciato, una maledizione tra i denti ed il cigolio lontano della ruota piegata della vecchia bicicletta di mia nonna, poi un'occhiata, una domanda, il silenzio.
Sembrava finto: io, tu, il mio mutismo e la tua gentilezza, l'interno nostro incontro sembrava essere troppo normale per non essere il presagio di un piano più grande.
Ma al tempo non lo sapevo, al tempo non conoscevo nulla e questo mi piaceva perché un po' ne ero consapevole, di non sapere, un po' mi piaceva come sotto la luce fiacca del cielo plumbeo il mondo perdesse di consistenza, colando sull'asfalto levigato nello stesso modo in cui il mio sangue abbandonava il mio ginocchio, andando a raggiungere quella pozza di vita a cui apparteneva e che ora era sul catrame, su cui noi camminavamo come due moderni messia senza alcuna fede
"Ti sei fatta male."
E non era una domanda, tu non ne facevi mai, tu parlavi per affermazioni e questo faceva male a me che ero fatta di dubbi, che forse avevo ragione ma che forse avevo torto, che guardavo il cielo e dubitavo del suo colore.
Però avevi ragione, mi ero fatta male e negarlo sarebbe stato stupido, un puerile gesto di superbia che non avrebbe avuto senso se non quello di continuare ad odiare una città che nemmeno conoscevo
"Mai stata meglio."
La seconda volta che ti ho visto è stato in farmacia e non eri cambiato, era passata una settimana e tu eri sempre lo stesso: gli angoli della bocca piegati un poco verso l'alto, le sopracciglia quasi aggrottate e le gambe dalle ginocchia troppo tese, eri sempre uguale e mi stavi accanto guardando perso tra le scatole bianche sugli scaffali, alla ricerca di qualcosa che potesse guarirti un dolore che non c'era.
Se solo avessimo saputo quante medicine senza nome ci sarebbero aspettate.
Tu mi riconoscesti ed io ti sorrisi scambiandoci i ruoli come quando si danza, e le nostre prime vere parole arrivarono fuori dal negozio, davanti alle aiuole dai fiori lilla che circondavano la statua di Padre Pio in piazza, che davano le loro spalle di radici al tabacchi del nipote di tuo cugino e che mostravano i loro volti di polline ai tre gradini consumati davanti alla, oramai, nostra farmacia.
Tu frugasti nella tasca destra dei tuoi pantaloni di tela beige solo per tirarne fuori una scatola di cerotti che nessuno ti aveva visto pagare, ma che io ti avevo visto prendere mentre fingevo di cercare una garza
"Spero che non tu non sia ancora guarita."
Non c'era scherzo in quella frase nonostante stessi sorridendo, desiderando davvero vedermi soffrire qualche giorno in più se questo significava potermi curare, ed il problema era che io volevo dirti la verità, che io volevo dirti che non sarei mai guarita e che nessun cerotto mi avrebbe mai impedito di sputare sangue.
Ma ancora non sapevo.
Nella città del diavolo cominciava a fare un poco più caldo e stare con le gonne mi stava piacendo un po' di più, e vedere la mia ferita coperta dai tuoi cerotti mi piaceva più di quanto avrebbe dovuto, tu mi piacevi più di quanto avresti dovuto.
Ci vedevamo spesso e non ci davamo mai appuntamento perché entrambi sapevamo, sapevamo che ci saremmo incontrati a metà strada vicino alla spiaggia, vicino al chiosco di Rodolfo, davanti alla chiesa o a quel lampione poco distante dall'asilo chiuso.
E se anche non ci fossimo dovuti incontrare probabilmente non ci saremmo preoccupati, perché tu mi avresti ritrovata tra le biciclette rotte ed io tra gli scaffali, a rubarmi i cerotti.
Dal vederci spesso siamo passati a vederci sempre ed intanto, sul calendario, quell'Agosto al sapore di Novembre era già passato a metà, facendo credere a tutti d'essere infinito, riuscendo ad ingannare anche noi che ci stavamo abituando a quella città, a vivere con i diavoli.
Perché la mia pelle si stava abbronzando e tu mi avevi convinto ad andare al mare tutti i giorni, perché tu leggevi il giornale al bar e prendevi le sigarette a tuo padre perché potessimo fumarle la sera con i piedi nella sabbia tiepida, con il rumore del mare e con l'impressione che se avessimo alzato la testa verso le stelle allora la notte sarebbe potuta diventare il giorno e poi di nuovo notte tutta in un momento, arrivando a durare per sempre.
Arrivando a durare quanto un pacchetto di sigarette.
Era città del diavolo quella, lo dicevi sempre ed io non capivo perché
"Solo il diavolo avrebbe potuto pensare ad un posto del genere, dove nessuno sembra invecchiare e dove i vecchi sembrano essere vivi da sempre.
Questa è la città del diavolo perché in estate fa freddo, è sempre nuvoloso ma non piove mai perché l'arrivo della pioggia ci farebbe rendere conto, prima del dovuto, che qualcosa può arrivare fino a qui, che non siamo isolati dal resto e che la nostra cappa di condensa non è poi così solida come credevamo.
Questa è la città del diavolo perché si muore di freddo ma tu indossi la gonna, io vado al mare e la gente si compra il gelato."
mi spiegasti il perché di quel soprannome ma io non lo capì comunque, perché mentre tu mi parlavi della città io ancora pensavo al mio riquadro di muro dove le margherite stavano morendo.
Perché tu accarezzavi la sabbia con i palmi lisci, vagando alla cieca fino a quando non sentivi la forma delle mie mani contro la tua pelle del colore dell'oro che avevi rubato al sole, la tua pelle sempre profumata di pioggia e che, se avessi avuto il coraggio d'assaggiare, avrebbe saputo di mare e di quella cedrata che ti piaceva tanto.
Tu accarezzavi la sabbia fino a trovare le mie dita magre, fino a quando non riuscivi ad intrecciare il tuo mignolo destro, lungo ed ossuto, con il mio un po' storto e sempre troppo freddo mentre io, invece, preferivo lasciarti parlare di quel diavolo in cui credevi, pensando che questo vivesse sulla tua bocca e che mi chiamasse placidamente sdraiato sul labbro inferiore, venendo accarezzato, sfiorato soltanto, da quello superiore che era troppo fino e che quindi non ti permetteva di serrare la bocca, che un po' mostrava le tue gengive ogni volta che ridevi.
Ogni volta che ti facevo ridere.
Ed è strano, strano che noi due ci fossimo trovati perché di simile non avevamo nulla, perché tu eri il nero ed io ero il bianco, o forse il contrario, perché ci siamo conosciuti in un secondo e poi ci siamo girati intorno per un mese nella trepidante attesa che uno dei due perdesse il controllo, che uno dei due smettesse di essere se stesso per un istante e riuscisse ad andare oltre a tante cose.
Andare oltre alle insicurezze che ci legavano le mani, oltre ai tocchi tremanti che ci riservavamo, oltre ai sussurri che mi facevano sentire sporca, eppure felice, oltre anche ai nostri vestiti leggeri, estivi e chiari come i tuoi occhi.
Io aspettavo una domanda, perché tu parlavi per affermazioni, e tu aspettavi di sentire tutte quelle maledizioni che mi ero ingoiata al nostro primo incontro, o magari ti aspettavi di mangiare le caramelle per la gola che avevo rubato in farmacia.
Ma noi eravamo noi e questo era il nostro peccato, e questo era il perché ci trovavamo lì, nel borgo di Mefistofele.
Ma la cosa più strana è che io ancora mi ricordo tutto, ogni sensazione ed ogni colore come se fosse adesso, come se ti avessi qui davanti a me quando avevi diciotto anni, come se io ancora avessi diciotto anni: perché se chiudo gli occhi ancora vedo le margherite e mi sento la muffa addosso.
Mi ricordo che tornavo a casa con il brivido della tua lingua sulla mia gola, che la pecoreva lenta per poi lasciare il mio collo alla tua bocca avida, prepotente proprio come le tue affermazioni, proprio come la tua incapacità di chiedere e di metterti in discussione.
Mi ricordo che mi sentivo male, che mi sdraiavo sul lettino scricchiolante in camera mia e frettolosamente mi giravo verso il muro per guardare la carta da parati, con una guancia sul cuscino umido d'estate e con una ciocca di capelli che insistentemente mi si attaccava alla guancia sinistra, riempiendomi la pelle di solchi rossi destinati a durare meno del nostro Agosto, guardando in silenzio i miei fiori da parete come se potessero arrivare dove a me non era concesso, appellandomi alla loro vecchiaia perché avevo bisogno di qualcuno che fosse saggio, che almeno non fosse stupido come lo ero io.
Mi ricordo che singhiozzavo senza lacrime chiedendo a quelle compagne mai nate che senso avesse avere diciotto anni se non si poteva fare quello che si desiderava, se non si poteva nemmeno essere così tristi da piangere o se non si poteva essere così caldi da amare in modo completo, da amare per più di qualche ora al giorno.
Chiesi con pezzi di parole e con gli occhi asciutti che senso avesse avere diciotto anni e non poterti avere, non poterti avere più di così perché il mio cuore non sembrava essere in grado di sopportare più di quello.
Preferivo allora continuare ad averne quindici, di anni, e non capire, non capire tante cose: te, la scuola, il perché la gente fosse triste, piuttosto che averne diciotto e non capire niente.
Me, il tempo che scorre, le responsabilità, come si provavano le emozioni.
Forse in quelle notti, in quelle dove il ricordo delle tue mani forti ancora mi tastava timido, ma urgente, un poco sotto l'orlo della gonna di ciniglia, in quelle notti avevo ancora quindici anni perché nella città del diavolo il tempo non passava mai, o forse avevo davvero i miei diciotto anni ed essere adulti è proprio questo, il lasciarsi trasportare dal dondolio della propria ignoranza fino a che la nausea non ti fa vomitare.
La nausea
Ecco l'unica vera cosa che mi è rimasta di te, la nausea che mi facevi venire e che mi lasciavi senza però averne colpa, perché questa l'avevo e basta, quasi come se stessi espiando un peccato che tu non mi avevi spinto a fare e che io non avevo commesso.
La nausea
Oramai scandivo la mia giornata utilizzando questa come misura del tempo, cercando di non renderti la misura del tutto, perchè essa cresceva con l'arrivo della notte e moriva nel sonno solo per rinascere debole la mattina.
Quando ti pensavo, ma anche quando non lo facevo, c'era la nausea, le gambe deboli e la testa che si riempiva d'aria leggera, lo stomaco che gorgoliava e l'esofago che mi faceva male come se stesse per bruciare, o forse bruciava davvero
perché tu eri magma.
Lava cocente, incandescente, che sciabordava tra le pareti lisce del mio stomaco facendo male, facendomi vomitare ogni volta che ti ricordavo, facendomi tossire cenere ogni volta che ripensavo alla tua voce furba ed al tuo corpo vicino al mio.
Forse tu lo sapevi e quindi facevi di tutto per insinuarti nella mia testa, perché pensavi fosse divertente ustionarmi l'esofago, perché ogni volta vomitavo era per te: per te che eri magma e che mi bruciavi, mi facevi prendere fuoco, nonostante facesse freddo.
Io che avevo la nausea se non ti vedevo e che se ti vedevo avevo la nausea lo stesso, perché quando ti avevo ad un palmo dal viso mi rendevo conto che senza averti così vicino non ce l'avrei fatta, che senza averti accanto sarei finita per appassire anche io tra le mie margherite di carta.
Sentivo l'intestino annodarsi alla vista delle tue gambe atletiche, non muscolose ma snelle e slanciate, lunghe abbastanza da renderti più alto di me di una spanna, forti quel tanto che serviva per farti scavalcare il cancelletto di casa mia permettendoti d'incontrarmi a metà strada nel mio giardino, sotto il basso albero di pompelmi che mio nonno non voleva cogliere e che a me non piacevano.
Sentivo il fumo salirmi lungo la gola ogni volta che ti toccavo le mani dai palmi morbidi, dalle dita più lunghe delle mie, ogni volta che andavo a giocare distratta con la cicatrice ovale e frastagliata che avevi sulla parte di pelle morbida del tuo pollice destro, senza nemmeno volerne sapere la storia perché già la conoscevo, perché ogni volta che ti toccavo ti conoscevo un po' di più e questo mi spaventava perché io non volevo.
Perché un giorno anche tu saresti fino con il conoscermi e questo non era nei piani, e questo mi gelava con la stessa rabbia con cui tu mi ustionavi.
Conoscevo la tua abitudine d'aggrottare appena la fronte liscia quando qualcosa t'incuriosiva, conoscevo quanto fosse morbida la tua pelle, un poco pallida, nel retro delle ginocchia, conoscevo la durezza della tua mascella disegnata ed affilata così come l'arco stupendo che la pianta del tuo piede lasciava sulla sabbia.
Conoscevo ogni salto che la tua voce faceva, i tono gravi che trovavi la notte per sussurrare i tuoi segreti solo a me, solo alle mie orecchie rosse di vergogna; conoscevo l'arguzia e lo scherno che mettevi nelle tue affermazioni, perché tu non sbagliavi mai e non dovevi chiedere, perché dove non arrivava la tua sicurezza arrivavano le tue mani svelte ed avide; conoscevo le note acute a cui mi aggrappavo quando ridevi, quando eri felice e quando fingevi di esserlo con i tuoi genitori.
Che bello che eri, quanta meraviglia c'era in ogni tuo gesto e quanto faceva male la tua accecante grazia ai miei occhi che vedevano il niente per tre mesi l'anno.
Quanto faceva male il tuo corpo di scintille e monete a me che ero fatta dello stesso freddo metallo delle nostre biciclette.
Conoscevo ogni cosa e tu di me non sapevi nulla, ma questo non t'importava e perciò avevo paura, paura che se mi fossi appropriata di un qualcosa di tanto bello, senza meritarmelo, allora poi avrei scontato le mie colpe proprio qui, nella città del diavolo, per tre mesi l'anno in eterno.
Però, nonostante la nausea e l'ingratitudine, ero convinta che sarebbe potuta durare, magari anche solo per un altra settimana o per un altro anno, mi sarei accontentata anche di ritrovarti ogni estate e di ricominciare questo gioco crudele da capo ogni volta, la nostra pena nella città del diavolo.
Ma chiedevo troppo, ne ero consapevole, chiedevo un qualcosa che nemmeno io avrei sopportato e che, soprattutto, tu non meritavi.
Eppure non fui io a decidere di non vederti più, non fui io a dare il tempo del nostro ultimo ballo.
Accadde il terzultimo giorno d'Agosto e fu la tua bocca sorridente a scegliere per entrambi.
Stavamo pedalando sul lungo mare quando tu cadesti dalla bicicletta, sbucciandoti un ginocchio e bucandoti un palmo con il brecciolino.
Mi fermai e lasciai la mia bici a terra, accanto alla tua, guardandoti dall'alto senza chinarmi accanto a te, perché so che questo ti avrebbe fatto infuriare
"Ti sei fatto male?"
Mi sorridesti ed io sentii il tuo "tu che dici?" in quella piega dolce e nei tuoi occhi appena lucidi
"Abbiamo ancora i cerotti?"
"Li hai finiti per me."
"Qui vicino c'è una farmacia."
Ed entrambi sapevamo di non avere soldi.
Ti dissi d'aspettare e poi sciabbattai con le mie infradito azzurre sul marciapiede morbido per il caldo, per il primo giorno davvero caldo nella città del diavolo, e con la stessa fretta entrai in farmacia senza salutare e senza guardare il mio riflesso negli occhiali del vecchio cassiere dalla schiena ancora dritta.
E vorrei dire d'aver preso quei cerotti, d'essere sgusciata tra gli scaffali fino a trovarli nascondendoli sotto la mia gonna per portarteli, per curarti come tu avevi fatto con me, ma io ero una codarda e la tua fame non ce l'avevo.
Me ne andai sciabbattando così come ero arrivata, lasciando la mia bici accanto al tuo corpo ferito ed il tuo corpo ferito accanto a quel metallo che tanto aveva la stessa vita del mio, che tanto era anaffettivo proprio con lo ero io.
Non ti rividi mai, mi chiusi a parlare da sola con le mie pareti di fiori per tre giorni, lasciandoti solo in mezzo ai pompelmi perché ti sentivo scavalcare il mio cancello, pregando che adesso che non ti avrei più rivisto la nausea potesse passarmi.
Il primo di Settembre arrivò e tu te ne andasti, me lo disse il nipote di tuo cugino, il tabaccaio, che quando mi vide mi salutò come se non sapesse, o forse non c'era nulla da sapere.
Te ne andasti lasciando a me l'abbronzatura ed alla città del diavolo il suo primo caldo, sparendo per sempre perché l'anno dopo non tornasti e quello dopo ancora non tornai io.
Ora che sono cresciuta è strano dire che quando ti penso ho ancora un po' di nausea, che nonostante gli anni ancora ricordo la pelle morbida nell'interno delle tue ginocchia così come il tono delle tue affermazioni.
Ora che sono cresciuta è ancora più strano dire che non ti troverò mai più perche oramai sei solo un ricordo morto, ma vivo, come le margherite che ho lasciato marcire sui muri di quella casa che non ho ereditato.
Sui muri di quella casa con il giardino di cui ho dimenticato l'aspetto così come ho dimenticato il tuo nome.
Angolo autrice
BOOM, BAM, BABY!
COS'È QUESTO?
BOH!
CHE SENSO HA?
BOH!
È STATO UNO SPRECO DI TEMPO?
SÌ.
È il mio primo racconto che non è legato a qualche anime e questa è tipo la più grande novità della mia vita, vi giuro, non lo avevo mai fatto.
Esperienza orrenda, uguale a tutte le altre.
Comunque, cosa abbiamo qui?
Una protagonista senza nome che parla di una sua cotta estiva, rigorosamente senza nome, con cui c'ha avuto una mezza tresca che però la faceva stare male perché "sono emotivamente costipata, gne gne gne" e che quindi alla fine accanna.
Triste, lagnoso e sofferto: assolutamente il mio stile.
Nonostante ciò, sperò vi sia piaciuto perché a me fa schifo.
Ve se ama
Teddyhuman
P.s. Sì, non sono morta.
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