𝟏.𝟓 - 𝐠𝐚𝐦𝐨𝐬

L'alba di quel mattino di agosto così intenso era la più bella che Creusa avesse mai visto. Quando era nervosa, o percorsa da innumerevoli dubbi – il matrimonio preoccupava da sempre le fanciulle – soleva sostare vicino alla sua finestra, poggiata sui gomiti, a osservare il meraviglioso panorama che si delineava di fronte a sé, con l'Aurora che pallidamente dominava con la sua luce opaca le distese marine e la catena dell'Ida, che per quanto perfetta pareva disegnata.

Ogni elemento di quel luogo così importante era di un significato e valore inestimabile, più dell'oro che riposava negli scrigni di Priamo, come fosse mandato dagli dèi o da un essere superiore che vigeva silenziosamente su tutti loro. La perfezione della natura era indescrivibile. Aveva imparato a valorizzare ciò che la circondava, perché magari un giorno non lo avrebbe più posseduto.

Non voleva finire per rendersi conto dell'immenso valore delle cose solo dopo averle perse.

Immaginò d'impulso la dimora che da quel giorno sarebbe stata la sua nuova casa, e inevitabilmente fantasticò su come potesse essere il suo talamo nuziale. Lo credeva enorme, con un baldacchino a sporgenze dorate e lenzuola di seta purpuree. Già pensò alla sua prima e ufficiale notte di nozze, e si sentì come una semplice ragazza sognante, sprizzante di felicità sul volto arrossato e intriso di velato pudore. Sino a quel momento aveva solo assaggiato l'amore, adesso, era pronta a farne la conoscenza.

A differenza di quel che pensavano tutti, Creusa aveva un'idea profonda dell'amore e di tutto ciò che costituiva quel sentimento a dir poco magnifico: tutti la vedevano come una creatura logica e calcolata, evitando di guardare quel lato tenero che la costituiva. Si sentiva come rivestita da un esoscheletro che la rendeva visibile solo dal buco della serratura; in pochissimi potevano dire di conoscerla davvero.

Poi un istinto, uno spettacolo magnifico: l'Aurora di zafferano vestita tracciò una scia indefinita per il cielo blu; le ali spiegate formavano un astro luminoso come tutte le stelle del firmamento. Il profumo della dea raggiunse perfino la casa di Priamo, la principessa poté avvertirlo perfettamente. Sbatté le palpebre e si diede un buffetto sulla guancia, come per svegliarsi qualora quello fosse stato un sogno. Invece no, era tutto vero, era tutto reale... se ne rese conto solo poi, quando Beroe, con una voce stridula, richiamò la sua attenzione.

«Euridice, Euridice,» quelle urla provenivano dal corridoio, «sbrigati e vieni subito qui!»

«Arrivo,» bisbigliò lei, «è appena l'alba, non urlare così!»

Fanciulla insolente, pensò Beroe, che liquidò la questione con un sorriso impertinente e un'alzata di occhi al cielo. Euridice, qualche secondo più tardi, dopo essersi rivestita della tunica spalancò la porta e mostrò il suo volto assonnato.

«Sei stata sveglia fino a tardi?» domandò la nutrice, incrociando le braccia al petto.

«Io direi che mi sono svegliata fin troppo presto», ammise Euridice, di tutt'altro avviso.

«Sei emozionata, immagino,» suppose Beroe, «lo ero anch'io il giorno del mio matrimonio... poi mio marito è morto in una spedizione contro le amazzoni, pace all'anima sua.»

Creusa non seppe come rispondere, se non rivolgendo un'espressione lievemente turbata e stranita. Non aveva mai ipotizzato la sua vita senza Enea, e ancora peggio era immaginarselo portato via da una guerra improvvisa. Distolse l'attenzione da quei macabri pensieri: quello era il suo giorno speciale, e non avrebbe permesso a nulla di rovinarglielo.

Beroe le prese d'impulso il volto tra le mani, ne osservò tutte le sfaccettature e si ricordò di quando la principessa era ancora bambina e i suoi lineamenti non erano femminili come in quel momento, e che pareva una dea nel vederla così, con la pelle candida e le guance tinte di rosa. Sorrise.

«La mia Euridice è cresciuta,» sussurrò, «e oggi crescerà ancora di più». Imbarazzata, la fanciulla annuì, seguendo poi la donna anziana verso la sala da bagno, situata poco più in là del gineceo: lì l'attendevano le ancelle che l'avrebbero preparata per la cerimonia.

Un rumore non molto lontano le distrasse d'improvviso, costringendole a voltarsi: alcune concubine uscivano dalle stanze per sgombrare il palazzo reale e prepararlo per il matrimonio. Creusa emise un ghigno: «Stanotte quei montoni si sono divertiti più del solito», evidenziò, rivolgendosi in maniera ironica ai suoi fratelli. Poi lo sguardo si tinse di un velo di sdegno e di superiorità. Anche Beroe, che era una donna dai costumi irreprensibili seppur dalle umili origini, scosse il capo e alzò gli occhi al cielo. «Che vizio di famiglia!» commentò la nutrice. Il ghigno della principessa si trasformò in un sorriso caloroso e divertito a quell'affermazione. Dopodiché, poterono finalmente dirigersi dalle serve che attendevano la principessa per prepararla. Proprio costoro, una volta che la vecchia e la sposa le raggiunsero, la invitarono a spogliarsi: nuda e perfetta in ogni parte del suo corpo, Creusa si tuffò nella vasca come Venere che si lanciava dalla battigia verso il mare bagnante le coste cipriote. S'immerse sott'acqua, risalì a occhi chiusi e con capelli tirati all'indietro. Ripeté per tre volte il movimento, Beroe fu poi costretta ad afferrarla per le spalle e intimarle di fermarsi. Ora si svolgeva la parte più significativa di quell'ultimo bagno consumato nella casa paterna: così come qualche giorno prima aveva donato a Diana una ciocca di capelli, adesso, era pronta ad acconciarsi come una vera sposa.

Creusa si ricordò di quando, al matrimonio di Ettore, Andromaca fosse stata sottoposta al medesimo taglio di capelli. Il suo frignare – le donne dell'Asia erano famose per il loro legame con la propria chioma – fu talmente forte da svegliare persino i fratelli che dormivano nelle stanze più remote della casa. Creusa si ricordò di aver pensato "che donna da niente", e ora che si ritrovava in quella stessa situazione si pentì del suo malsano giudizio.

Vide Beroe avvicinarsi con un coltello piccolo e non molto affilato; afferrò la sua chioma dorata e l'accarezzò con le dita, in modo da sciogliere tutti i nodi. Con un solo colpo deciso, tagliò gran parte dei boccoli di Creusa, lasciando che i capelli le arrivassero alle spalle.

Il resto cadde all'interno della vasca, lasciando un vuoto inspiegabile all'interno della fanciulla. Amava terribilmente la sua chioma ondulata, ma non diede a vedere di essersi disperata: una semplice espressione amara, privata di lacrime e celata dietro un sorriso forzato la convinse ad andare avanti. Afferrò con le mani i bordi della vasca e facendosi forza si levò in piedi.

Le schiave cominciarono ad avvolgerla all'interno di asciugamani freschi e profumati; più tardi, la condussero al di fuori della stanza, e in un'altra camera fu unta con oli preziosi contenuti in appositi recipienti di alabastro. Altre ancelle avevano riscaldato del rame sulla fiamma di una candela, e si precipitarono ad acconciare la nuova capigliatura di Creusa: fecero ricadere sulle tempie dei boccoli piccoli e morbidissimi, proseguendo lentamente con tutte le ciocche.

Gli occhi della principessa si inumidirono quando quest'ultima spostò lo sguardo oltre la finestra di quella stanza; un bagliore accecante le trapassò la cornea e una lacrima scese silenziosa lungo il viso. Aveva saputo dalle stesse serve che non sarebbe stato suo padre ad accompagnarla all'altare, bensì Ettore, per sottolineare la sua eredità al trono di Troia. La donna, che non si esimeva mai dal formulare pensieri, non sapeva se il re avesse deciso così per fare un affronto a Enea e rendere orgoglioso suo figlio o perché semplicemente non voleva accompagnarla dal suo sposo. Poteva sembrare insignificante, ma le bruciava dentro in maniera più che terribile: tutte le figlie del re – pensò alla gemella, Iliona, e alla sua sorellastra, Medesicaste – erano state accompagnate da lui in persona, legittime o illegittime che fossero. Lei era la maggiore, ed Enea era stato oltretutto suo scudiero: come poteva umiliarlo in maniera simile piuttosto che onorare le sue doti? Era talmente malizioso da voler evidenziare l'autorità di Ettore che, pur se da quel giorno Enea sarebbe stato il re di Dardano, rimaneva superiore al suo rango nonostante fosse principe di Troia? Con quanta sfacciataggine, poi... Creusa stentava addirittura a crederci. Forse il motivo era addirittura un altro, ma da cosa sarebbe stato legittimato?

Si chiese perché la sorte di una vita da figlia infelice fosse toccata proprio a lei e non alle sue sorelle, che venivano elogiate come principesse e stimate di quel rango che, in qualche indiretto ma doloroso modo, avevano privato a lei, proprio a lei, la primogenita. Non l'avevano mai ridotta a schiava, quello era evidente, ma si sentiva in quel modo: schiava di un'infelicità che proveniva da sé stessa, e da Priamo, cui gli aspetti più brutti non venivano mai mostrati.

Il re della città padrona dell'Asia, veniva stimato da tutti in quel modo, ma Creusa sapeva bene che se non fosse stato per viltà non sarebbe mai stato insignito di quel titolo. Priamo aveva tre fratelli maggiori, e con loro, durante una guerra che parte degli Argonauti guidati da Ercole avevano intrapreso contro Troia, fu fatto prigioniero di Telamone e Peleo, principi di Salamina e Ftia. I tre fratelli maggiori di Priamo, che allora aveva il nome di Podarce, il piè veloce, pur di difendere il trono di loro padre Laomedonte morirono. Egli, invece, sostenne gli alleati e incitò Ercole a uccidere il genitore. Il semidio lo fece, lasciando vuoto il trono di Troia. Per liberarlo, sua sorella Esione si vendette a Telamone e porse a Ercole un prezioso velo dorato. Da quel giorno, Podarce assunse il nome di Priamo, il riscattato. Viltà, unita alla fortuna di un matrimonio prolifico e con una sposa dalla dote opulenta, lo avevano reso quello che era. E ora si poteva dire che dominasse sulla Troade e su tutta l'Asia Minore, compresa la Frigia, terra di sua madre. Solo alcune città come Dardano, Lirnesso e Tebe Ipoplacia, e l'impero costruito da Asio Irtacide, erano indipendenti dalla sua sfera egemone.

Ecco perché Creusa amava raccontare le storie che si tramandavano in giro: rivedeva in esse la cruda realtà che la circondava. Minosse, colui che abbandonava le donne, era proprio come Priamo, circondato da compagne di letto, lasciando che i figli illegittimi avessero vitto e alloggio in quella stessa casa. Dopotutto loro che colpa avevano? Erano proprio come il Minotauro, ma meno mostruosi. Proprio in quell'istante, nel voltarsi, notò che l'ultima ciocca di capelli le era stata fatta da Etra, giunta sul luogo giusto poco prima. La principessa si voltò verso di lei e le sorrise, sbattendo due volte le ciglia. Etra, che doveva avere l'età di suo padre, bene o male, si accomodò su una sedia lì accanto, sfiancata, e la invitò a sedersi. Le due, che da qualche tempo si erano abituate alla reciproca presenza, amavano parlare insieme di ciò che accadeva nelle loro vite. Etra le raccontava ogni volta le avventure del suo amato e al tempo stesso odiato Teseo, Creusa compensava con i pettegolezzi riguardo la vita lì a palazzo. C'erano assurdità su assurdità su cui le due ridevano sopra: come quando si vociferava che Troilo, il figlio minore, fosse stato generato da Apollo e non di Priamo, e che il sovrano vi sorvolasse come un bamboccione, pur essendo al corrente della paternità ambigua del figlio. Meno piacevoli erano le voci che accusavano un determinato Priamide, per di più legittimo, di sodomia, ma quelle erano storie che nemmeno le bocche civettuole delle fanciulle avrebbero potuto raccontare. Un uomo adulto, e per di più un principe, quando veniva scoperto in quel determinato tipo di fornicazione veniva tormentato a vita e trattato da estraneo... perciò alla reggia non se ne parlava mai.

«Allora, Euridice, sei contenta di questo matrimonio?» la domanda di Etra la riscosse dai suoi pensieri.

«Anche troppo,» ammise, pur cercando di darsi un contegno da nubile, «tra me ed Enea c'è un'intesa più che speciale.»

«È da tempo che siete promessi, voi due?» chiese l'anziana, con una tipica curiosità femminile. Creusa annuì: «Due anni, ma mio padre ha aspettato che il suo scudiero apprendesse tutto e fosse adatto a diventare il nuovo re di Dardano.»

Etra sussultò: «Vorrai dire che il buon vecchio Anchise abdicherà in favore del figlio e che tu sarai regina?»

Pur se con uno strato di rosso a imporporarle le guance, la donna diede cenno di assenso, e proseguì: «Mio zio è la persona più buona e genuina che conosca, ma è umile e consapevole del fatto che il suo zoppicamento e la gobba che lo affligge da anni gli impediscono di reggere il trono per altro tempo. Enea è sempre stato tra i suoi figli il candidato migliore: è intelligente, strategico, carismatico e ha una preparazione militare eccellente». Si meravigliò di come aveva pronunciato con freddezza razionale tutti quegli aggettivi relativi al suo futuro sposo. Se fosse stata in altra sede, li avrebbe sicuramente declamati con occhi lucidi e sognanti mentre osservava la luna e le stelle.

«Provi molta stima per lui,» evidenziò Etra, «ma tu lo ami?»

Creusa si era sentita fare quella domanda numerosissime volte, asserendo sempre con un cenno del capo. Ma adesso, si era accorta che Etra voleva sapere di più, molto probabilmente i motivi di quel sentimento che esplodeva dentro di lei, e di cui lei non si era mai fatta alcuna domanda.

«Immensamente. Lui non è solo il mio futuro sposo: lui è stato anche il mio migliore amico, la persona che ha saputo infondermi speranza in un periodo parecchio buio della mia vita. È la sintesi di ogni mia gioia e di ogni mia forza, se solo lo guardo il mio dolore passa via», rispose.

Non appena la fissò negli occhi, Etra capì che ogni cosa che Euridice aveva detto era vera: quei sentimenti rivolti al dardanide colmavano il suo cuore di un vuoto che trapelava appena, ma che c'era. Non aveva mai conosciuto una fanciulla tanto innamorata come Creusa in quel preciso momento.

Quella, come già affermato in precedenza, era l'unica cosa su cui la principessa non aveva mai sindacato. Siamo stati scelti dal destino, aveva sempre creduto, deve essere così. Nessuno potrà mai dividerci, nemmeno gli dèi.

«Ti invidio, Creusa, ti invidio moltissimo. Ho goduto dell'affetto di un uomo e di un dio, dei loro corpi, solo una volta. Poi, dopo aver dato alla luce Teseo, mai nessuno ha voluto prendermi in moglie. Ero già troppo vecchia, a soli quindici anni...»

«Etra... anche prima che tu arrivassi qui, ho sentito delle leggende su di te, leggende che si sono rivelate vere: sei bella e serena come un cielo privo di nubi, proprio come dice il tuo nome», cercò di consolarla in qualche modo Euridice. L'anziana divenne rossa in viso: era oggettivamente molto gradevole alla vista, con lunghi capelli castani ed enormi occhi verde smeraldo. Creusa, lasciandosi prendere dalla fantasia, proseguì imitando la voce di una bambina animata da un enorme desiderio: «Se avessi potere ti porterei ad Atene da tuo figlio, ma non ne ho».

Etra tacque un istante, ripensando improvvisamente a suo figlio e a quanto le mancasse.

«È la punizione di mio figlio questa, Euridice, non la mia», le sussurrò infine, e posò uno sguardo oltre la finestra. Creusa ne fu alquanto sorpresa, vedeva Etra ridotta in schiava a Troia per scontare una pena non sua.

«Ti spiego meglio...» continuò, prendendo un respiro profondo, «anni fa, Teseo ebbe la brillante idea di rapire insieme a Piritoo la regina degli inferi, Proserpina. Fu rinchiuso nel Tartaro per tale oltraggio, e solo l'intervento di Ercole riuscì a salvarli. Poi s'innamorò perdutamente della figlia di Tindaro, Elena: ora avrà pressappoco la tua età, mentre all'epoca era una bambina, la più bella del mondo. I suoi fratelli, Castore e Polluce, se ne accorsero, e mi portarono qui per ripicca. Non ho mai più rivisto Teseo, mentre mio padre, Pitteo, credo sia morto, solo. Aveva perso ogni sorta di contatto con i suoi fratelli dopo che la famiglia si era sfasciata. Era un uomo molto saggio, e io farò la sua stessa fine. Non rivedrò mai più Trezene.»

Si lamentò così tanto che Creusa cominciò a provare dolori sullo stomaco e alle articolazioni. La storia di Etra l'aveva colpita, e non poco.

Le sfiorò le ginocchia, con le sue mani, chinò il capo e bisbigliò: «Sai, Etra, non è giusto che tu debba pagare le colpe di Teseo. Vorrei che tu fossi fuori questa città. Come lo vorrei anch'io.»

«Non blaterare!» la rimproverò, «Troia è una città dalle mille risorse. Nessuno vorrebbe andarsene.»

«Tu non la conosci bene quanto me... l'ambiente dardanide è molto più piacevole. La freschezza dei monti e la genuinità di quella popolazione che ci è sorella è davvero rilassante», spiegò, dapprima amareggiata, poi sorridente.

Prima che Etra avesse occasione di controbattere, quella chiacchierata dovette finire; alcune ancelle, che poco prima avevano lasciato la stanza, erano andate a prelevare dalla sacerdotessa Teano l'abito da sposa che Creusa avrebbe dovuto indossare. La principessa spalancò gli occhi non appena pose lo sguardo sul peplo purpureo e i sandali dorati. Sotto di esso v'era una tunica completamente bianca, ma che lungo i bordi raggiungeva una tonalità avorio, quasi dorata: alcuni ricami parevano inerpicarsi presso le bretelle – a cui il peplo veniva saldato con delle fibbie dorate – e si domandò se anche essi, come per Alike, rappresentassero qualche immagine simbolica.

«Tua zia ha utilizzato le sete più pregiate provenienti da Tiro», disse una delle serve, con un ampio sorriso sul volto, «oh, Euridice, è l'abito da sposa più bello che abbia mai guardato.»

Le altre ragazze convennero annuendo, e porsero alla sposa il suo abito, realizzato con una maestria che, dovette ammettere, non aveva mai visto nemmeno da parte di sua zia. Quella volta aveva davvero superato sé stessa.

Etra pose lo sguardo sul peplo e si ricordò di come anche lei, anni addietro, vide quello che le sarebbe spettato, quando doveva sposarsi con Bellerofonte. Fu un matrimonio che a causa degli oracoli non fu mai celebrato; lei era destinata a essere la madre di un eroe, non la sposa.

Sperava, con una premura quasi materna, che Creusa non fosse portata a subire quella stessa delusione, che anzi avrebbe coronato il suo sogno d'amore con serenità e una bella progenie, da renderla orgogliosa del suo nobile sangue.

Dopo che la maggior parte delle ancelle se n'era andata, Etra, insieme a Beroe che si era allontanata poco prima, si apprestò a rivestire degli ornamenti la giovane. Il peplo purpureo, che solo le principesse potevano permettersi di indossare, contrastava con i suoi occhi chiari e cerulei; al contrario, il velo color zafferano si sposava perfettamente col colore dorato dei suoi capelli. Beroe le spiegò che avrebbe dovuto tenerlo sino a quando suo marito non l'avrebbe condotta nel talamo nuziale – a tal proposito le indirizzò uno sguardo languido – e che non avrebbe dovuto toglierlo per nessun motivo al mondo. Il velo, infatti, era dedicato a Vesta, la dea del focolare e del nucleo familiare, e indicava ancora l'appartenenza della sposa alla famiglia d'origine.

Le donne anziane, poi, lasciarono sola la fanciulla, che si appoggiò all'ampia finestra della sua camera e sporgeva lo sguardo al di là delle possenti mura troiane, costruite da due dèi e un uomo. Si diceva che fossero le più resistenti al mondo, ma non divine come si credeva: difatti, quando Giove ordinò di edificarle ormai venticinque anni prima, le commissionò non solo alle due divinità che si impegnarono nei lavori – Nettuno e Apollo – ma anche a suo figlio Eaco. Creusa, a differenza di tutti gli altri troiani, assumeva nei confronti di quel meccanismo di difesa un'aria più diffidente: non dubitava della loro forza – nessuno avrebbe potuto – ma sapeva che sarebbe arrivato quel giorno in cui sarebbero crollate, in cui una potenza maggiore della loro le avrebbe sgretolate pietra dopo pietra, mattone dopo mattone.

«Meravigliose, non è così?» mentre era immersa nei suoi pensieri, una voce si fece udire poco dietro di lei, all'entrata della stanza. La principessa si voltò, e vide un uomo alto, dai lineamenti affilatissimi e i colori molto chiari. Biondi erano i suoi capelli, corti ai lati e con un ciuffo liscio che ricadeva sul lato destro della fronte, mentre grigi i suoi occhi gelidi, quasi inespressivi. Una peluria chiara poco folta si faceva spazio lungo il suo viso, mentre le guance erano lisce. La sua corporatura richiamava quella delle antiche popolazioni traci: seppur alto, risultava massiccio a causa delle spalle imponenti e dei muscoli intorno a cui si ridisegnava la tunica regale. Creusa lo riconobbe immediatamente: era uno dei fratelli che le erano più cari, ma anche uno dei più cocciuti e ostinati, a tratti anche rude e rozzo.

«Deifobo,» notò Euridice, «non mi aspettavo di trovarti già preparato. Su forza, vieni», con un cenno della mano gli indicò di farsi avanti e posizionarsi al suo fianco.

«Sono stato il primo a prepararmi stamattina. So che questo è un giorno molto importante per te,» affermò il troiano, che cinse il suo collo con il braccio destro, simulando una sorta di abbraccio fraterno.

«Per rispondere alla tua domanda, devo convenire con te: sono a dir poco stupefacenti, per non parlare delle porte Scee,» rispose la sorella, muovendo la traiettoria del suo sguardo da sinistra verso il centro, dove si materializzava il famosissimo ingresso che introduceva alla città.

«Di sotto gli schiavi sono tutti in fervore,» cambiò il discorso Deifobo, «non li avevo mai visti così agitati per dei preparativi. Desiderano che tutto sia perfetto, così come lo desidero io». Lui e Creusa si scambiarono uno sguardo: l'espressione di lei era di sorpresa, di stupore. Conosceva perfettamente suo fratello, e sapeva che era molto reticente nell'esprimere sentimenti di benevolenza e di desiderio del bene altrui, ma in quel periodo era diverso: come se gli mancasse qualcosa – e lei sapeva perfettamente cosa – e cercasse di colmare quel vuoto.

Deifobo capì, dallo sguardo interrogativo di Creusa, che ella si stava ponendo fin troppe domande dalla sua ultima affermazione. Allora completò: «A differenza di tutti gli altri miei fratelli tu mi sei stata accanto e mi hai incoraggiato a ritrovare me stesso. Non te ne sarò mai abbastanza grato.»

Deifobo emise un ghigno beffardo; dopodiché si avviò verso la porta che l'aveva condotto da lei e sussurrò amaramente un'ultima frase: «Tanto non importa...»

La principessa avrebbe voluto replicare, ma il fratello se n'era già andato. Inalò un sospiro, poi tornò a guardare al di fuori della finestra: osservò il mare in lontananza battere con violenza sulle coste alte e rocciose, levigate dalle onde di quel pelago così amico, e che presto, troppo presto, sarebbe diventato un nemico pericoloso. Aveva sempre visto il mare, con quelle sue sfumature bluastre e verdognole, come qualcosa che spingeva le persone a perseguire i loro obiettivi: pensò inevitabilmente a Teseo, e a come il mare lo avesse condotto a Creta e si fosse rivelato il motivo della sua ascesa al trono, vista la morte del padre Egeo. Pensò a come, qualche tempo prima, presso quelle stesse coste, erano approdate numerose navi provenienti da qualunque luogo della Grecia per combattere contro Troia. La guerra era finita in pareggio, ma se si fosse ripresentato un conflitto simile? Se il mare avesse permesso ad altre navi di arrivare sino a lì e distruggere tutto ciò che era loro? Creusa poteva solo immaginarlo, ma sentiva come un malinconico e triste presentimento che la fine di quei tempi meravigliosi era vicina. E tutto per colpa del mare.

«Principessa,» a richiamare la sua attenzione per la seconda volta fu una giovane ancella che fece irruzione nella stanza, distogliendola dai suoi pensieri. Euridice si voltò all'istante: «Dimmi, Clio».

«Tuo fratello ti aspetta all'uscita del palazzo. È già pronto un corteo che vi condurrà al tempio di Minerva, dove si celebreranno le nozze.»

«Perfetto», rispose, «li raggiungerò immediatamente, ti ringrazio.»

«P-potrei accompagnarti, Euridice?» domandò timidamente la fanciulla. Era lì solo da poco tempo, e ancora risultava impacciata per non essersi ambientata del tutto. Non doveva avere più di diciassette anni. La principessa le rivolse un sorriso benevolo e disse: «Certo, Clio,» si fermò un attimo a guardarla intensamente negli occhi, «a patto che tu d'ora in poi mi chiamerai Creusa». La serva le sorrise ampiamente e annuì, meravigliata dalla magnanimità della sua padrona, così diversa dalle altre sorelle che invece la guardavano austere e con aria di superiorità.

«Posso farti una domanda?» mentre si avviavano verso la grande porta di bronzo della reggia, l'ancella ebbe il desiderio di conversare qualche istante con la futura sposa. Nonostante Creusa fosse spazientita e non vedesse l'ora di incontrare Enea, non dimostrò alcun atteggiamento scortese.

«Certo, fa' pure,» si bloccò improvvisamente l'altra.

«Come mai le altre donne di palazzo sono così diverse da te? Come mai con loro ho il timore di parlare e con te no?»

Se avesse dovuto dare una risposta schietta ma arrogante, avrebbe decisamente affermato che era per il suo talento di saper mettere a proprio agio chiunque, persino quelli che provenivano da ranghi decisamente inferiori al suo. Invece, cercò di rispondere in maniera più realistica e al contempo amara: «Forse perché loro sono più capaci, belle e desiderabili di me... forse perché sono più simili a dee che a principesse.»

Clio non disse nulla: trovava assurdo tutto ciò che Creusa aveva appena detto, e non lo condivideva affatto. I morbidi capelli biondi, la pelle diafana e gli occhi cerulei che possedeva non avevano nulla da invidiare alle altre. Anche se Laodice lasciava il segno con quei bei lineamenti che le erano impressi sul volto, anche se gli occhi verdi di Cassandra riuscivano a ipnotizzare chiunque e a renderla una delle principesse più ambite, Creusa possedeva doti non indifferenti. Tutti sapevano che lei era ottima nella lettura e nella narrazione delle storie, e molti credevano che sarebbe stata eccezionale come madre. O un totale disastro, come invece pensava lei stessa. Temeva che i suoi figli, qualora li avesse avuti, l'avrebbero odiata come lei odiava suo padre Priamo.

«È ora di andare,» sottolineò infine Euridice, cambiando improvvisamente l'espressione di delusione che aveva incisa sul volto. Simulò un sorriso falso, di quelli che i nobili sfoggiavano quando prendevano parte alle cerimonie importanti. Difatti, anche se si era sempre sentita un gradino sotto rispetto ad Andromaca e alle sue sorelle, restava pur sempre una nobile. Sperava che Enea le avesse strappato un sorriso sincero, al contrario, già dal primo momento in cui avrebbe incrociato il suo sguardo. Clio restò nuovamente attonita, osservando semplicemente da lontano le movenze della principessa.

Creusa, senza dire nulla, trascinò la sua lunga tunica autonomamente verso il carro nuziale, dove già era posizionato Ettore. Il principe troiano indossava un elegantissimo chitone color avorio, e aveva i capelli perfettamente tirati all'indietro, con alcuni ricci scuri che gli ricadevano sulle tempie. Come sempre, aveva un'espressione austera e serena; il sole rendeva i suoi occhi solo piccole fessure, e i lineamenti apparivano più spigolosi messi in risalto in quel modo.

«Allora?» chiese alla sorella, non appena ella lo affiancò, «Ti diverte ciarlare con le servette, sì?»

Ora capiva perché Clio le aveva posto quella domanda: tutti, in quella reggia, non avevano il minimo rispetto della persona in quanto tale. Era molto più consono a una donna legare con le proprie ancelle, mentre agli uomini era richiesto di esercitare il comando. In quello Ettore era davvero impareggiabile: l'ordine e la famiglia, per lui, venivano prima di tutto.

A ciò che le aveva detto appena il fratello, Euridice rispose con un'alzata dello sguardo e una sbuffata.

«Che c'è?» insistette di nuovo il maggiore, «Sarà una di quelle che si scopa Pammone. E sai che lui in fatto di donne ha gusti pessimi.»

A Creusa importava pochissimo di chi suo fratello Pammone si portasse o meno a letto: ormai era avvezza a quel loro modo di fare dissoluto.

«Ho incontrato Deifobo stamattina, sai?» prese la parola lei, così, a bruciapelo, «Non aveva quella sua solita aria da ragazzino, anzi: a tratti mi parevi tu, così maturo e saggio. E in questo momento tu mi sembri lui. E poi saremmo noi donne ambigue e maledette...»

«Bada a come parli,» la rimproverò Ettore, in tono molto più serioso, «e non rovinarti il matrimonio. O dovrò ricordare a tutti che tu l'hai già consumato, questo matrimonio?» I due si rivolsero uno sguardo carico di astio, Creusa come per dire non oserai farlo. «Pertanto,» riprese il fratello, «se vuoi andare avanti coi tempi necessiti anche di ascoltare il linguaggio di noi lunatici uomini, visto che non sei delicata come le altre. Altrimenti, non fare cose di cui potresti pentirti.»

Creusa abbassò il capo: ciò che Ettore aveva detto aveva perfettamente senso. Lo rialzò non appena si accorse che il carro si stava addentrando fra la parte più folta della folla, il cosiddetto ὄχλος, e poté notare che le donne e i bambini lanciavano allegramente ghirlande di fiori, mentre tutti gli altri tenevano in mano fiaccole accese e sorridevano.

«Magnifico, non trovi?» cambiò poi discorso Ettore, che salutava da vero erede al trono i popolani. Le labbra di Creusa si incurvarono dolcemente verso l'alto: «Più di quanto immaginassi...»

Il corteo poteva essere paragonato a un vero e proprio trionfo militare: tripudi di colori si incontravano nella varietà dei pepli indossati, che volteggiavano qua e là come l'arcobaleno di Iride sceso in terra. I profumi dei fiori contribuivano a rendere quell'atmosfera quasi divina più reale e anche coinvolgente. Creusa non si sarebbe mai aspettata così grande partecipazione al suo matrimonio, ma ne fu enormemente felice, tanto di dimenticare l'amarezza presente nei discorsi che aveva intrattenuto poc'anzi.

Quando il tempio più importante situato a Troia le si prospettò nitidamente davanti, e cominciò a concretizzarsi sottoforma di struttura, riuscì intravedere alcuni conoscenti e i suoi più cari amici. Più mandava avanti lo sguardo, e più il rango degli ospiti era elevato. I primi che vide, sulla destra, furono i suoi cugini, i figli di Antenore e Teano, due schiere di maschi possenti la cui maggioranza era ancora scapola. Sulla sinistra, invece, notò Alike e i suoi due fratelli più piccoli, accompagnati da Irtaco, Arisbe ed Esaco. La giovane futura sposa salutò la compagna che le faceva cenno con la mano dalla strada, come per augurarle buona fortuna. Poi, parvero scomparire dal nulla per lasciar spazio ad altri: poté scrutare sua sorella Iliona e il marito Polinestore da un lato, dall'altro, con sua grande sorpresa, il re Asio, direttamente dalla città di Arisba. Non si aspettava di vederlo lì, tantomeno così vicino al resto della sua famiglia. Difatti, presso le ultime file erano posizionati i genitori degli sposi e i fratelli della prima e della seconda parte. Lo sguardo di Anchise la colse all'improvviso, era impossibile ignorarlo: i suoi occhi brillavano di un'aria che si manteneva sempre serena, e da cui, quel giorno, si poteva intravedere un tocco di felicità in più. Ciò non poté che commuoverla: suo zio era una delle poche persone da potersi considerare buone in quel mondo sempre più crudele. Gli fece capolino da lontano, e lui sembrò ricambiare. Più in là, perfettamente ritti, c'erano i fratelli, le sorelle e gli amici di Enea. Scorse immediatamente Elimo ed Echepolo, Ilia, Ippodamia, Alcatoo, e tutti i compagni d'infanzia e adolescenza di suo cugino: Mnesteo, Seresto, Sergesto e quello che odiava più di tutti, Acate. Mancava semplicemente una persona, ma dubitava che sarebbe venuta...

Accanto ad Anchise c'era suo padre, Priamo: sorrideva, ma si notava dal suo sguardo verdognolo che non c'era un briciolo di sincerità. Per Euridice, nella sua testa era come se si ripetesse: "Ho sistemato un'altra figlia, quella di cui meno m'importa. Mi godo questo momento", ma lei si costrinse a non farvi caso. Molto più onesti erano i sorrisi di Ecuba, una madre che lei aveva sempre definito amorevole, ma con la quale non era mai riuscita a stabilire il rapporto intimo che desiderava. C'era indubbiamente un'intesa e anche una sorta di affetto... ma non sapeva se definirlo amore vero e proprio, di quelli indissolubili che si creano tra madre e figlio. Un'altra sua insicurezza venuta fuori: e lei? Ne sarebbe stata all'altezza?

Il suo percorso si concluse nel notare che tutti i suoi fratelli, legittimi e illegittimi che fossero, erano lì presenti, e questo bastò a tranquillizzarla: aveva paura che qualcuno avesse potuto dimenticarsene... per un po' aveva creduto che anche suo padre non avesse preso parte alla cerimonia. Non era per lei, tutt'altro, quella... quella era la condivisione del suo amore con e per Enea, e non poteva che farle piacere se altri decidevano di prenderne parte.

Il carro si fermò proprio dinnanzi al tempio, a cui bisognava accedere attraverso un'ampia scalinata di marmo; di lì, poi, si elevavano altissime colonne, semplici e assolutamente perfette. Erano in stile dorico, costruite partendo da una struttura di legno e poi rivestite di marmo. Sorreggevano l'imponente architrave, che a guardarla in quel modo, dal basso, riusciva a incutere un sincero timore. Tutto, persino i loro organi, parve assumere un suono dinnanzi a quella struttura, nonostante il frastuono della folla. Ettore e Creusa erano uno di fianco all'altra; mantenevano tra loro una certa distanza, per poi avvicinarsi una volta che la scalinata fu terminata e rivolgersi delle ultime parole.

«Sta per iniziare il vostro viaggio», cominciò Ettore, «spero solo che la Fortuna e gli dèi stiano dalla vostra parte. È una... strana sensazione, vedere tua sorella divenire moglie di uno dei tuoi più cari e validi amici».

Creusa sorrise: «Lo è davvero?»

«Euridice, mi dispiace per le parole che ho detto prima. Dovrei fidarmi di te, di tutti e due... siete tra le poche persone sincere che conosco». Dopo aver detto quelle frasi, proseguì con un tono più malinconico, tanto da indurlo ad abbassare il capo: «Spero che insieme riuscirete a trovare la felicità...»

Quella volta, la principessa si limitò a sorridere, mentre suo fratello le prendeva il volto tra le mani come per darle la propria benedizione. Dopodiché, la donna fece il suo autonomo ingresso nel tempio.

I suoi lineamenti, nel momento in cui vide due figure benevole dinnanzi a sé, non poterono che rilassarsi e rendersi più tranquilli, addirittura felici. Tutta quella felicità era trattenuta nel suo corpo, desiderosa di conservarne un po' per tutta la cerimonia, senza esaurirla al primo momento.

I suoi occhi incontrarono prima quelli di Teano, la custode del tempio e del Palladio, la possente statua lignea di Minerva; poi, subito dopo, si focalizzarono su quelli di Enea. Da come era rigido denotava che era in preda all'agonia, e che aveva dentro di sé qualcosa che lo opprimeva e al contempo lo agitava. Non passò nemmeno un secondo dal suo ingresso che si sciolse in un sorriso tenero. Poi guardarono entrambi Teano, che fece loro segno di proseguire e di inchinarsi presso la statua della dea che proteggeva quel luogo di culto. Lei, assieme ad alcuni famigli, avrebbe provveduto al sacrificio di un bue pingue per benedire quell'unione. Non appena le loro ginocchia toccarono il pavimento, anche le mani parvero sfiorarsi, e i corpi erano sempre più vicini.

«Sei splendida,» non si trattenne dal sussurrare Enea, che intrecciò ancor di più la sua mano a quella di Creusa.

«Lo sei anche tu,» contraccambiò lei, «attendevo questo momento da due lunghissimi anni...»

«Pensare che ho dovuto vincere una guerra pur di sposarti,» ironizzò lo sposo, «ma ne è totalmente valsa la pena».

«La tua pazienza per me è a dir poco lodevole», si complimentò Euridice, arrossendo involontariamente.

«Per chi avrei dovuto averla, altrimenti?» domandò Enea, che subito dopo alzò lo sguardo verso lo sguardo della dea, che pareva folgorarli dall'alto.

«Avrei avuto la stessa pazienza, per te. Non mi immaginerei in nessun altro luogo e con nessuna altra persona se non con te, adesso. Forse è il giorno più bello di tutta la mia vita. È come se...»

«Riuscissi a percepire una forte felicità e non sapere se esplodere con essa o tenerla ancorata al proprio cuore ancora per un po'», completò Enea, senza nemmeno essersi reso conto di star parlando. Risero entrambi mentre si guardavano negli occhi: quel gioco del completare le loro rispettive frasi aveva preso il sopravvento.

«È proprio così, Enea,» dichiarò infine la principessa. Solo allora, quando Teano annunciò che il sacrificio era terminato, mollarono la presa delle proprie mani e tornarono in posizione eretta, restituendosi uno sguardo contemplativo.

«È ora che voi vi dirigiate presso la sala del loutra, il vostro bagno intimo e personale. Vi chiamerò io quando la cerimonia sarà terminata. Andate a cambiarvi nelle vostre sale, vi incontrerete a bordo di una vasca piena d'acqua solo in parte e vi entrerete», spiegò la sacerdotessa, la quale, vedendoli annuire, si allontanò.

Creusa seguì alcune ancelle situate sul lato destro, Enea degli schiavi al corrispettivo sinistro. Furono spogliati di tutte le vesti, tranne che del velo nuziale, fin quando, passando per delle piccole porte decorate con alcuni rilievi raffiguranti scene d'amplesso, non s'incontrarono di nuovo. Un sacerdote anziano e bendato, non appena udì i passi dei due, avanzò a tentoni nell'acqua con un vaso di terracotta lavorato magistralmente da esperti artigiani, e, come prima detto da Teano, anche loro fecero ingresso lì dentro. L'area era spaziosa e completamente bianca, tanto che l'acqua pareva risultare di un azzurro cristallino, simile al corallo. L'imbarazzo che pensavano di dover provare svanì nel nulla, e i due si unirono in un abbraccio profondo, senza proferire parola. Nel mentre, il sacerdote versava su di loro acqua santa, che scorse per ogni parte del proprio corpo: non sapevano come costui, da cieco, riuscisse a orientarsi così bene, ma quella nota perse improvvisamente d'importanza. I loro volti così vicini riuscirono a intrappolarli in una sorta di mondo estraneo e alternativo, in cui esistevano solo loro, e il resto parve tacere. Nemmeno i protagonisti di quella scena sapevano come definirsi... l'unica cosa di cui erano consapevoli era che a pochissima distanza i battiti dei loro cuori seguivano un'unica melodia, così fluida e unita che realizzarono che l'amore era davvero l'unica cosa che contava per stare bene. E in quel momento, stavano molto più che bene.

Quando udirono tre colpi al di là della parete, capirono che Teano li stava richiamando. Tutto ciò che era accaduto in quella sala sarebbe rimasto un eterno segreto condiviso dai due sposi. In realtà, nemmeno loro avrebbero saputo come definirlo: si erano semplicemente abbracciati, in un silenzio così forte da lasciar udire solo lo scrosciare dell'acqua sui propri corpi e le pulsazioni dei loro cuori. Non dissero nulla, non commentarono, ma non sapevano se definire quella sensazione estasi o imbarazzo. Mentre Enea indossava il suo chitone più regale, incurvò le labbra in un sorrisetto sornione, sperando che anche Creusa, dall'altro lato, stesse facendo lo stesso. Riusciva ancora a percepire quelle mani così piccole stringersi contro la sua schiena, mentre lui era intento a fissarla negli occhi. L'aveva avvertito come un ricongiungimento, come fossero due androgini separati e che ora si riunificavano in un unico corpo, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Tutte le risposte erano venute a galla l'ultima volta che si erano visti, che si erano concessi l'un l'altra senza timore. Il perché si amassero così tanto era sconosciuto persino a loro: ciò che sapevano, era che un legame così forte sapeva essere talmente indomito da aver l'abnegazione di superare persino i cancelli dell'Averno. Creusa era così degna di fiducia che per lui – Enea ne era perfettamente consapevole – ci sarebbe sempre stata. Ed egli l'avrebbe difesa fino all'ultimo suo respiro. O almeno, era ciò che si aspettava da sé stesso.

Uscirono contemporaneamente dopo che si erano rivestiti: anche se apparivano identici a come si erano incontrati, adesso, parevano avere un aspetto nuovo, e una luce che illuminava i loro occhi. Teano fu felice quando li vide, e in cuor suo augurò loro una convivenza serena, pacifica, lontana dai trambusti che poteva riservare. Era sposata da molti anni, e, come accadeva a tante altre donne e uomini, lei e suo marito avevano perso amore e passione anni prima, pur conservando un reciproco e profondo rispetto. Da come vedeva Enea e Creusa, così affiatati, innamorati e sereni, pensò a primo impatto che ciò non sarebbe mai potuto accadere nella loro situazione; tuttavia, il fato sapeva donare a coloro che riteneva immeritevoli sorprese ben peggiori, persino di un allontanamento sentimentale.

Una volta fuori dal tempio, ritrovarono la folla in festa che li attendeva con trepidazione. Un carro sontuoso, rivestito da diverse borchie dorate e coperto da tessuti di colori sgargianti, li attendeva per trasportarli al palazzo, dove gli schiavi avevano già preparato ogni cosa per il ricevimento. Gli aurighi di Enea, un tale di nome Otrioneo e il fido Acate, erano già posizionati sui loro cavalli e pronti a partire alla volta della reggia di Priamo. Dietro il veicolo, decine di nobili fanciulle avrebbero fatto quel che le donne, durante i matrimoni, sapevano fare meglio: indossare espressioni civettuole e lanciare petali di fiori – tra sambuchi, gelsomini e giacinti – dietro i due sposi. Solo, alla fine, i sovrani di Dardano e Troia si sarebbero mostrati, e dietro di loro tutti gli altri invitati al ricevimento.

«Ci sono tutti!» esclamò Enea a quella che ormai era sua moglie, guardandosi intorno con sorrisi sinceri da rivolgere alle persone.

«Troiani, dardanidi, frigi, traci, i tebani di Tebe Ipoplacia...» li elencò Creusa, ricambiando l'espressione di suo marito.

«Non sapevo che tuo padre avesse invitato tutte queste persone. Mi aspettavo qualcosa di più... intimo e personale, ecco,» confessò Enea, più sorpreso che eccitato. Una persona qualsiasi avrebbe fatto i salti di gioia, ma nei momenti più belli e intimi Enea preferiva stare da solo con Creusa, persino senza i suoi migliori amici. Tutti lo apprezzavano per la sua socialità e i valori che non aveva paura di condividere con il mondo esterno; eppure, esistevano dei momenti – come quello vissuto poco prima nel tempio – che avrebbe voluto trascorrere solo con chi, nella maniera più profonda, assaporava la stessa felicità.

«Concorderei, a primo impatto, ma forse tralasci un dettaglio importante: oggi tu e io siamo ufficialmente i sovrani di Dardano, checché se ne dica. Un corteo in grande stile era piuttosto dovuto,» gli fece notare acutamente Creusa, che da quel giorno si sarebbe impegnata a esercitare il potere nella maniera più saggia possibile.

«Quindi ora la situazione dipende da noi...» disse Enea, «sarai al mio fianco quando avrò bisogno del tuo attento consiglio?»

Creusa si voltò verso di lui con fare interrogativo: «Tu, Enea, che hai conquistato strategicamente decine di territori per conto di mio padre, avresti bisogno del mio attento consiglio

Enea ridacchiò, poi, in una frazione di secondo, tornò a guardarla serio: «Hai sempre saputo che apprezzo ogni lato del tuo carattere, e il mio cuore su ciò è più che onesto. Ma c'è una cosa, ammetto, che preferisco rispetto alle altre: il tuo acume e il tuo sincero e sapiente giudizio.»

Quelle parole, sia per il contenuto che per il tono serio ma tranquillo con cui erano state dette, riuscirono a strapparle il sorriso che sperava di poter avere impresso sul volto da quando si era svegliata.

«Io pensavo che voi uomini guardaste solo la superficie di una donna: il suo aspetto, il suo atteggiamento... ecco perché non mi ha mai desiderata nessuno. Almeno non... come mi desideri tu...» ammise, abbassando gradualmente il tono della sua voce. Enea le afferrò una mano e riprese il suo discorso: «Ci sono tante altre cose che noi uomini notiamo in voi, Creusa. E io, in te, oltre che vedere una giovane, bellissima donna... noto anche una persona che farà grandi cose in futuro, che saprà essere un'ottima regina e signora, e anche un'ottima madre. Devi solo notarlo anche tu». Nonostante il suo sguardo vagasse e non fosse sempre legato ai suoi occhi, le sue parole parevano sincere. Creusa non disse nulla, si limitò ad appoggiare il capo sulla sua spalla e a godersi quel momento di quiete, dove, con semplici frasi, Enea aveva saputo colmare molti dei vuoti che l'avevano sempre tormentata. Non importava quali e quante sfide avrebbero incontrato, l'importante era affrontarle insieme. Ripercorrendo per immagini sbiadite la sua vita, Creusa non ricordò che ci fu mai un ricordo più bello.

Il grande portale di bronzo che consentiva l'accesso alla reggia fu aperto da alcune guardie regie non appena il veicolo vi giunse. Gli sposi si lanciarono un ultimo sguardo, poi lo spostarono dietro di loro. Centinaia di uomini marciavano con le fiaccole sempre accese, mentre in casa della sposa, come da tradizione, si teneva il banchetto. I convivali da soddisfare sarebbero stati parecchi: altissimi funzionari regi troiani, re di città vicine e principi guerrieri alleati di Priamo. Persone che la fama aveva innalzato alle stelle, e i cui nomi erano noti al pari dei volti. Molti avevano addirittura avuto il privilegio di crescere nella città di Troia, anche se la sorte li aveva inviati altrove. Il palazzo si presentava spettacolare, ornato di ghirlande floreali e tessuti ricamati a dovere da abili tessitrici, facenti parte tutte del circolo di Teano. Le sale erano illuminate da ampie vetrate e le finestre erano tutte aperte. Le figliolette di Priamo canticchiavano inni di gioia, con quelle loro voci soavi e angeliche.

Creusa sorrise loro con la faccia di chi provava apprezzamento verso ciò che stava ascoltando. Poi prese suo marito per l'avambraccio e gli confidò: «Non ho mai saputo cantare così...»

«Non essere modesta, ti ho sentita qualche volta. Il tuo canto è vagamente simile a quello di un'allodola,» le rispose Enea, sorridendole.

«Perché non di un usignolo? D'altra parte, quando gli usignoli cantano la notte è ancora vivida e...» quella frase fece scoppiare entrambi in una risata comune, soprattutto dopo l'occhiata maliziosa che si erano lanciati l'un l'altra. Qualsiasi forma di pudore era completamente svanito, si sentivano più in confidenza che mai.

Priamo concesse a tutti di prendere il loro posto a casa sua, doveva aver fatto allestire un immenso banchetto con due mense distinte per lo sposo e per la sposa. Per un attimo Creusa credette fosse un gesto di premura, poi si accorse che in realtà, come succedeva nei simposi, gli uomini pranzavano separati dalle donne, e soprattutto a orari diversi. Mentre loro si occupavano di intrattenere la conversazione, gli uomini parlavano di politica espansionistica, dei prossimi tornei che si sarebbero tenuti, e dei giochi commemorativi che ogni inverno venivano praticati.

La sposa era in uno degli angoli della sala più remoti, mentre cercava di osservare per bene i componenti del banchetto e quale tipologia di conversazione potevano intrattenere tra di loro i commensali. Il primo gruppo che scorse era formato da Mnesteo, Acate, Seresto, Sergesto, Agenore e altri figli di Antenore che non riuscì a individuare in un primo momento. Come si aspettava, quello che più di tutti gli altri stava intrattenendo la conversazione era Mnesteo: aveva un ampio sorriso sul volto e dai movimenti delle sue labbra pareva stesse canticchiando una canzone. Sarà sicuramente una di quelle cose oscene che sa solo lui, pensò immediatamente Creusa, ridacchiando. Mnesteo era un ottimo guerriero, ma il suo linguaggio scurrile non risparmiava nessuno. Tuttavia, restava un'ottima spalla a cui potersi affidare. Vide che Acate gli aveva appena dato una pacca sulla schiena: non sapeva individuare se per scherzoso rimprovero o per sostenerlo.

Con lo sguardò passò immediatamente a un'altra mensa, quella che immediatamente le venne da soprannominare "la mensa dei vecchi": lì sedevano il re Priamo, che era impegnato a parlare con Anchise animatamente – probabilmente proprio in riferimento al matrimonio – affiancati da Irtaco e Antenore che invece bevevano del vino e ne sembravano già inebriati. C'erano anche Laocoonte, lo zio di Enea e sacerdote del tempio di Nettuno, Pantoo, che invece presiedeva quello di Apollo e Calcante, il miglior augure mai esistito. Finalmente il suo sguardo incontrò quello dei commensali principali, ovvero lo sposo, i suoi fratelli e i fratelli di lei. La conversazione avrebbe potuto riguardare diversi argomenti, di cui non poteva essere che certa: i tornei, la guerra e le espansioni territoriali. Constatò che con loro c'era anche il re di Arisba, Asio, l'unico a non essere parente così stretto degli altri.

Difatti, se solo Creusa avesse potuto sentirli, avrebbe capito che stava parlando con gli altri delle sue nuove conquiste mentre sorseggiavano del buon vino.

«Ebbene, Asio? Dove ti sei spostato?» gli domandò Ettore in tono provocatorio: Asio era più giovane sia di lui che di Enea, ma governava da solo su ben tre regni, che ora avrebbe elencato. «Mi sono occupato di riconquistare alcuni territori che i miei zii e mio nonno avevano perso tempo fa. Inutile dire che ora li ho in pugno, e che ho scelto già i loro governatori,» rispose Asio, spostando lo sguardo verso Acate e Mnesteo, seduti altrove. «E hai altri progetti?» gli domandò Deifobo, che sino a quel momento non aveva detto nulla. Gli occhi di entrambi si illuminarono quando i loro sguardi si incontrarono.

«Ne avrei uno, sì,» rispose, fingendo di essere distaccato, «conquistare la città di Sesto, situata sul versante greco che si affaccia all'Ellesponto. Mi serve assolutamente qualcuno che mi aiuti, però...» Il tono faceva già presagire un certo desiderio e una predisposizione nello scegliere il suo alleato, ma attese che fosse lui a fare il primo passo.

«Ti serve un nobile cavaliere,» obiettò Echepolo, indirizzando lo sguardo verso Ettore che era sul punto di dire qualcosa. «Mio fratello Deifobo è un ottimo cavaliere e compagno d'avventure,» disse il troiano, «potrebbe accompagnarti lui». Asio, visto il legame che aveva con Deifobo, sussultò, e così fece anche l'altro. Tuttavia, cercarono di darsi un contegno. Deifobo si schiarì la voce e asserì: «Ne sarei onorato», inducendo l'altro a sorridere.

Nel frattempo, la persona più distratta e deconcentrata da quel discorso era proprio Enea: le voci altrui arrivavano sbiadite alle sue orecchie, come se non gli importasse nulla di ciò che si stavano dicendo. Pensava anche lui, dopo aver sentito la parola "regno", a come sarebbe stato il suo. Le insicurezze lo attanagliavano, lo inseguivano, e anche se aveva fiducia nelle sue stimate capacità, sentiva che qualcosa non quadrava. E se non fosse stato una guida saggia? Si meravigliò, in quel momento, della sua abilità nel saper consolare gli altri, come aveva fatto prima con Creusa, e della sua paura e quasi sfiducia nel farsi consolare. Una semplice frase avrebbe potuto mettere via tutto ciò che più temeva, ma allo stesso tempo il pensiero di essere lui quello meritevole di attenzione lo spaventava. L'insicurezza e gli errori che avrebbe potuto commettere erano infiniti.

Ma quando finisce, si stava iniziando a domandare, ormai stanco e avvilito da tutte quelle chiacchiere. Più osservava fuori dalla finestra, e più sperava che il sole tramontasse in fretta, sicché avrebbe potuto rivedere la sua sposa. Solo quando gli uomini finivano il loro pasto, difatti, le donne potevano accomodarsi accanto a loro.

«A cosa pensi?» gli domandò Elimo, scuotendogli il braccio, «Dovresti essere il più vitale di tutti...»

Enea scrollò le spalle e scosse il capo: «Non sono dell'umore giusto per parlare, fratello. Ho paura che da domani le cose per Dardano non saranno più le stesse, e che vada tutto di male in peggio». Elimo lo guardò attentamente, cercando di carpire l'essenza di quell'ultima frase. Quando poi ci arrivò, cinse il collo del fratello minore con un braccio e gli parlò da saggio: «Nostro padre ha scelto te da sempre per svolgere questo incarico, Enea. Tu sarai il re di una delle città più opulente della Troade, e ne sei assolutamente degno. Altrimenti lo avrebbe affidato a qualcun altro, non credi?»

«Ho paura di deludere tutti: Priamo, nostro padre, Creusa...» pronunciò l'ultimo nome con maggiore intensità, come a voler sottolineare l'importanza che quella persona aveva su tutte le altre.

«Se Creusa sarà una buona moglie, allora non ti lascerà mai solo,» gli confidò, voltandosi poi a guardare la sposa che conversava con Alike e Andromaca, «e anche se non la conosco bene quanto te, sono sicuro che lo sarà. Non è una persona indegna per stare sul trono di Dardano, anzi: forse è la migliore, e potrebbe restituire alla nostra città, dopo questo matrimonio, le terre che Priamo ci confiscò prima che nascessimo». Enea annuì: sapeva bene che, molto tempo prima, il re aveva tolto a Dardano molti possedimenti. Sperò che lui li avrebbe riacquistati, conquistando oltremodo la fiducia del re.

«Enea, la sera è giunta», gli fece poi notare, indicando l'esterno e un piccolo accenno di crepuscolo, «adesso inizia il divertimento». Il dardanide si sfregò le mani, vedendo che le donne, escluse dal banchetto per la maggior parte del tempo, prendevano posto accanto agli uomini. Enea scosse il capo: era quasi certo che suo fratello sarebbe andato dritto da Cassandra, che aveva al suo cospetto molti corteggiatori. Ed effettivamente fu così: chissà se prima o poi avrebbe rifiutato la vita ascetica e si sarebbe deciso a conquistarla.

«Cassandra ha così tanti corteggiatori...» dichiarò una voce femminile dietro di lui. La donna gli mise una mano sulla spalla, poi si accomodò accanto a lui: il profumo di sambuco misto a orchidea e l'incarnato diafano delle mani lo indirizzarono al pensiero dell'unica persona che sperava di vedere.

«Perché, tu non ne hai avuti?» le chiese invece lui, che le rivolse di nuovo uno sguardo eloquente, lo stesso che le aveva mandato durante il corteo nuziale. «Non così tanti,» ammise Creusa, spostando la mano dalla spalla sino alla mano di Enea, stringendola dolcemente, «ma alla fine ho scelto il mio preferito». Il ragazzo sorrise, compiaciuto, poi tornò a guardare Cassandra e gli svariati pretendenti che mostravano le loro doti.

«Allora, chi sceglierà la tua ambita sorellina?» domandò Enea, indicandola. Creusa scosse il capo: «Nessuno, Cassandra non si sposerà mai,» affermò Creusa, convintissima delle sue parole, «è troppo concentrata su sé stessa per scegliere un marito: è una delle persone più dolci e buone che io conosca, ma sa incutere timore, e lei lo sa bene. Non vorrebbe che il marito la ripudiasse per il suo modo di essere. E inoltre ha fatto, nel suo cuore, la promessa di verginità.»

«Dovrei allora ricordare a Elimo che non ha alcuna speranza,» disse Enea, «oppure lo lascio in questo suo dolce inganno...»

«Non sarebbe affatto onesto, e lo sai bene,» lo fulminò scherzosamente con lo sguardo, «però forse a dirlo dovrebbe essere Cassandra, prima che lui rimanga celibe a vita». «Oh, è destinato a esserlo,» riprese Enea, «ha fatto voto ad Apollo, come mio zio Laocoonte,» si voltò per guardare il fratello minore di suo padre, «speriamo che almeno lui questo voto lo mantenga.»

Creusa alzò gli occhi al cielo: Laocoonte aveva fatto voto di castità dapprima a Nettuno. Poi, dopo aver predetto alcune sventure, divenne devoto ad Apollo. Tuttavia, si era concesso il privilegio di avere due figli, cosa assolutamente inammissibile: i loro nomi erano Antifate e Timbreo, i cugini minori di Enea.

«Siamo molto in gamba nell'arte dello sparlare, Enea. Non l'hai notato?» chiese lei, per cambiare argomento. Enea rise: «La tua civetteria supera di gran lunga la mia». «Tipico di noi donne... ci piace molto civettare,» dichiarò Creusa, assumendo un tono provocante. «E tutte le donne sono leziose come te quando lo fanno?» chiese il figlio di Anchise, dandosi false arie. Scoppiarono a ridere entrambi: il bello della loro relazione era proprio quello, riuscivano a essere seri e allo stesso tempo due adolescenti che ridevano di gusto. Il loro affiatamento era palpabile nell'aria.

«Grazie per esserti accomodata qui,» disse poi Enea, serio, «mi hai rallegrato la serata».

Creusa sorseggiò un po' di vino diluito con acqua e miele, poi si avvicinò all'orecchio di Enea e sussurrò: «Spero di rallegrarti anche stanotte,» con tono basso e allo stesso tempo esilarante e malizioso.

Il ragazzo non disse nulla; sorrise e si limitò a guardarla, capendo che non avrebbe potuto essere più felice.

Il matrimonio terminò tranquillamente, senza alcuno stravolgimento. Gli sposi erano saliti sul carro insieme, e fuori la popolazione li accoglieva con fiaccole accese: il sole stava calando, e loro si preparavano ad affrontare insieme una nuova vita, un nuovo viaggio. L'amore, quella prerogativa non necessaria quando si costruivano alleanze, tra loro era forte, ardente, intimo. Creusa si chiese se mai ci sarebbe stata una cosa in grado di spezzarlo e impedire a esso di ricomporsi. Era davvero l'amore la cosa più forte al mondo? O prevalevano la guerra, la distruzione, la sofferenza, la... perdita. Non rivedere più l'amore avrebbe spento l'antica fiamma?

No, mai.

Enea si voltò indietro per vedere cosa avvenisse: mentre loro passavano, le fiaccole si spegnevano, creando una sorta di gioco di luci e ombre a cui non potevano restare indifferenti. Il color cremisi delle fiamme contrastava col blu del cielo stellato che si divertiva a costruire figure geometriche e intrecciarle tra di loro. Il corteo astrale riusciva a essere ancora più bello di quello terrestre: la differenza tra l'umano e il divino, il comprensibile e l'inspiegabile era, agli occhi di Enea, che in quanto semidio era sia l'uno che l'altro, sin troppo evidente. Poi fece scorrere lo sguardo sulla donna che aveva accanto a sé: anche lei, ai suoi occhi, era sia umana che divina; anzi, ancor meglio: era un'umana resa divina dalla sua iride, una sorta di apoteosi, di perfezione che non si esauriva mai.

«Sei bella come un angelo, Creusa, bella come un angelo,» disse improvvisamente, cogliendola di sorpresa. In realtà, Enea lo stava pensando, e gli era scappato un sussurro. Creusa arrossì, mostrandosi per la fanciulla pudica che in fondo era: «Hai mai visto un angelo?»

«Un angelo è un demone, un demone è colui che si trova nella via tra l'umano e il divino. Io sono sia umano che divino, e so ben riconoscere chi è sulla via dell'immortalità. Dicono che gli dèi siano creature meravigliose, e lo penso anch'io. Tu diventerai come loro, sono sicuro che sarà così», le confidò, con l'aria di un vecchio saggio.

«Allora tu sei un demone?» gli domandò sua moglie. «Sono un semplicissimo umano, principessa», la rassicurò, afferrandola fra le sue braccia. Le posò un bacio tra i capelli, sul velo: «E in quanto tale, sono fin troppo dolceloquente con chi se lo merita. La differenza più evidente che abbiamo con gli dèi è proprio questa: loro amano chi vogliono perché possono, noi amiamo chi scegliamo di amare, se possiamo. E ringrazio l'Olimpo per aver scelto te». «Sceglierai sempre me?» domandò, un guizzo di insicurezza in quegli occhi cerulei, illuminati dalle fiaccole.

«Sì, se ne avrò sempre la possibilità,» rispose.

Solo quando giunsero alla nuova casa, del tutto simile a un palazzo reale, le fiaccole si spensero. Gli sposi furono condotti nella loro camera da letto da alcuni schiavi, i quali, dopo averli lasciati presso la porta del talamo, se ne andarono. Enea si premurò di chiudere la porta della stanza, poi si voltò verso Creusa e le si avvicinò lentamente. La finestra della stanza era aperta, lasciava entrare tutta la luce stellare assieme a un vento estivo, tipico di quelle zone di montagna. Quella freschezza li avvolgeva totalmente, e regalava loro ulteriori brividi di piacere, come se già i lenti respiri non fossero bastati.

«La regina di Dardano...» sussurrò Enea, posando una mano sulla sua guancia ancora velata, «mia moglie». Con una mano le teneva la schiena, accarezzandola, con l'altra levava il velo dal suo capo lasciandolo cadere a terra, sul pavimento immacolato. Finalmente poté guardarla bene negli occhi, e lei poté individuare nel suo sguardo una sorta di brama, di desiderio, e si chiese se tutti gli uomini avessero la stessa intensità quando vedevano le loro spose. Si sentì molto fortunata.

Mentre pensava, rifletteva, spaziava nella sua mente, sentì che anche i vestiti si sfilavano dal suo corpo, lasciandola nuda, di nuovo. Fu nudo anche lui, si gettarono sul letto, e fecero tutto ciò che le coppie appena sposate solevano fare nella camera da letto. Il loro viaggio da sposi era appena iniziato.


To be continued... 

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