𝐗𝐈𝐈








| 𝗘̀𝗟𝗘𝗡𝗔 |









Era solito giocherellare con l'accendino di suo padre. Era diventata una costante nella sua vita, come la k in matematica, come una ferita che ha lasciato il segno. Gli permetteva di scrivere, di solito, eppure quando la usava nessuna parola usciva dalla sua bocca, solo lacrime dai suoi occhi.
Era da un po' che non giocherellava con il suo accendino. Era diventato un semplice coefficiente, era diventato una seconda ferita che guarirà sì e no tra una settimana e non si capacitava del motivo. Non lo faceva più e basta. Sarà forse un cambiamento? Si chiedeva. Sarà mai giusto? Sarà mai giusto lasciare che la memoria di suo padre svanisca senza una via di fuga? Non lo sapeva e cercava sempre la riposta, ma oggi non era il giorno giusto per trovarla.

Si è alzato ad un orario per lui indecente per poter essere puntale e fare buona figura. Lesse tutti i vari messaggi mentre faceva colazione. Rispose a quello di Alena, rassicurandola che si sarebbero visti e che no, non era scomparso. Aveva una morsa allo stomaco, però. Non sapeva cosa fosse, da dove provenisse, gli faceva male.
Si preparò comunque provando a non farci troppo caso, a lasciarla lì e riprenderla in un secondo momento.
Uscì da casa alle sette in punto. Aveva mezz'ora di tempo per immaginarsi tutti gli scenari della possibile meravigliosa giornata.
Potremmo confidarci molte più cose, oggi.
Potrei ridere veramente.
Potrei conoscere i suoi amici e entrare sempre di più nella sua vita, aggrappandomi a quel minimo di dignità che mi rimane.
Potremo fingere e rinnegare il nostro passato.
Potrei dare ragione a chi crede nell'amore a prima vista.
Potrebbero...

Sono le sette e un quarto e lui si trovava già ad aspettarla. Era tutto ancora chiuso e la morsa nello stomaco avanzava. Sarà la fame, il cervello diceva. Andrà tutto storto? Chiedeva il cuore. E lui non faceva altro se non controllare sempre l'orologio. Disperato, prese il telefono e iniziò a girovagare per trovare qualcosa di utile da fare, ma niente. Controllò di nuovo l'orologio. Erano le sette e ventitré.

Le sette e mezza. Lei doveva arrivare da un momento all'altro.
Dopo cinque minuti, ella arrivò. Era coperta da un'enorme sciarpa, il capello copriva la maggior parte del suo viso dato le dimensioni. Appena arrivò da lui si salutarono con il solito bacio sulle guance.

"Bisogna aspettare un po' perché apre alle otto." Iniziò.

"Perché siamo già qua allora?" Chiese lui un po' annoiato.

"Volevo farti vedere un posto prima." Lo prese a braccetto. Fissò, i primi cinque secondi, il braccio intorno al suo e alla strana posizione che la situazione aveva preso. Non gli era mai piaciuto camminare in questo modo poiché, essendo più alto, doveva sempre camminare con fatica e incurvato. Questa volta non si notava molto, e neanche lui se ne accorse, allo stesso modo non gli piaceva la situazione. Camminarono per altri tre minuti e si ritrovarono dietro al bar nel quale Alma lavorava. Non c'era niente di speciale se non la strada e dei sempreverdi.

"Qui lessi per la prima volta il volantino di un'università fuori dal Texas. Fu la prima volta che capii cosa voglio veramente." Non capiva perché si trovasse in un marciapiede a morire di freddo invece di stare al caldo con un caffè tra le mani.

"Perché mi hai portato qui?"

"Volevo farti vedere cosa significa stare in America." Tossì un po' e poi riprese la parola. "Per me significa realizzare il mio sogno." Lui le sorrise. Era davvero importante che avesse un sogno, magari poteva bastare per entrambi. Si incamminarono di nuovo verso il locale. "Invece dimmi un po', come si chiama quella donna che ti fa soffrire. Almeno so chi devo incolpare." Un altro sorriso si posò sul suo infreddolito volto.

"Maddalena." Lo sussurrò con ritegno. In realtà non voleva che lo sapesse, ma dopo quello che ha fatto, gli sembrava il minimo.

"Bene. Comunque, appena entriamo ti devo presentare una persona. Ti piacerà, vedrai." Lo disse con un sorriso coinvolgente. Era davvero convinta delle sue parole. Ci credeva talmente tanto da averlo convinto. Nel frattempo la morsa distruggeva il suo stomaco fino a farlo diventare poltiglia per i piranha.

Dopo poco entrarono veramente nel locale. Era molto sofisticato, l'atmosfera era davvero molto leggiadra e accogliente. Mentre lui continuava a osservare minuziosamente, Alma era già arrivata e salutò la persona tanto amata, era davvero in pensiero.

"Vieni qui, su. Muoviti." Gli faceva fretta perché era curiosa della sua reazione.

"Arrivo, arrivo." Disse lui con il sorriso ampio.

"Lei è la mia ragazza: Èlena." Si abbracciarono fiere, solo per mettere in mostra l'amore che hanno costruito e per distruggere tutti gli scenari che lui aveva creato. Le guardava con sguardo stranito, confuso.

"Puoi chiamarmi anche Lena." Si mise a ridere. La vita è buffa. Ti prende in giro, capovolge la tua bussola. Ti fa soffrire, cazzo se lo fa. È meravigliosa, sa del sapore amaro e dolce della liquirizia, sa di carneficina appena cotta alla brace, sa della mancanza lasciata dalla polvere, sa del tempo che scorre e ti lascia quell'amaro in bocca che non scorderai mai. La vita gira, si posa prima sulla fortuna di un uomo o sulla sfortuna di una donna, si posa sulla furbizia di un bambino, si posa su di te, eppure gira e gira te la trovi sempre nel culo.

"Perché ridi adesso?" Chiese Lena forse più confusa di lui. Stava iniziando a pensare che la spiegazione alla sua reazione fosse l'omofobia e che la sua ragazza stava davvero esagerando con questo ragazzo. Non ammetterà mai la sua gelosia ingiustificata verso quest'uomo, tuttavia non sembrava bastare questa domanda per placarlo.

"È tutto così divertente." Rise ancora, questa volta più forte. "Prima Alena e lì ho detto non fa niente, sarà casualità. Dopo ci sei tu, Alma e ho detto cazzo finalmente qualcuno che posso conoscere, qualcuno che non mi ricorda quella fottuta donna, ma ovviamente, te ne esci pure tu con Èlena, neanche Elena, ma Èlena come a sottolineare il fatto che ci sia sempre lei ad istigare la mia pazienza." Smise di ridere e si sedette sulla prima sedia che capitò, si abbassò solo un po' verso il tavolo e si rialzò, sistemandosi i capelli, alzò la mano come a far comprendere di star bene, che la sua sanità mentale era ancora lì a bussare alla porta della sua fragilità. "Mi piacerà per questo, vero?" Nessuna riposta. Alma pensò che essere bisessuale non era colpa sua.

No, no mamma non è colpa mia. Non è colpa mia se mi piacciono Sebastian e Charlotte. Non è colpa mia se adesso questo meraviglioso ragazzo sta soffrendo mentre la mia ragazza mi tiene stretta a se. Pensa e ripensa alla sua infanzia. Lei non ha colpe, forse. "Rispondi, cazzo. Alma dillo che mi piacerà perché ricorda Maddalena, dillo. Cazzo, Alma, dillo." Era stanco di urlare, non riusciva a capire. Maledetto lui che ha parlato, maledetta la sua voce che usciva senza permesso e maledetto il suo cuore che batteva troppo forte per non esser preso in considerazione, si doveva sempre intromettere. "Se non vuoi parlare, allora io me ne vado. Non servo a niente se non a farvi fare brutte figure." Si alzò, sbandando un po', sistemò la sedia. Si fermò un po' lì, chiuse gli occhi per riprendersi e cercò confronto nella sua razionalità. Si incamminò verso la porta e la sbatté pure una volta uscito. Alma lo seguì, voleva chiarire, voleva dirglielo che non è colpa sua.

"Aspetta." Si voltò con immediatamente perché in realtà voleva chiarire il tutto, voleva perdonarla, voleva conoscerla veramente.

"Che c'è?"

"Non è colpa mia." Si mise le mani nel viso e nei capelli, era disperata. Non sapeva come sistemare la situazione, come fargli capire che il suo mondo non girava se non conosceva persone nuove.

"Cresci un po', Alma, prendi in mano le tue responsabilità e inizia a capire con chi vuoi stare. Di sicuro la colpa non è mia, neanche volevo venirci qua." Era infuriato. Voleva fare tante cose, eppure la sua testa non leggeva altro che le parole espresse precedentemente da Alma.

"Ti ho portato qua perché volevo capire. Mi interessi."

"Alma, fammi il piacere di essere sincera, soprattutto con quella ragazza là dentro e stai sola fin quando non comprendi cosa vuoi in questo momento."

"Voglio conoscere te, adesso. Ti prego, non andare via dalla mia vita." La guardò frustrato, non sapeva come comportarsi. Non capiva come potessero sentirsi così vicini, così interessati da voler addirittura rischiare e buttare via tutte le certezze.

"Alma." Pronunciò il nome sconfitto. Voleva abbandonare questa conversazione e prendere in mano la sua unica costante: l'accendino di suo padre per ricordare il vero male della sua vita.

"Ti prego. Resta qua. Le parlo, giuro che lo faccio, ma ti prego, resta qua." Iniziarono a scendere delle lacrime. Forse finte per impietosirlo, forse vere per ammettere l'interesse o semplicemente per il dolore che l'ennesima persona in questa città le stava facendo patire.

"Non posso, mi dispiace." Se ne andò senza voltarsi, perché alle certezze - quelle poche che possedeva - non voleva rinunciare.






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La scuola è da poco iniziata e già voglio spararmi. Perché deve essere tutto così stressante?
A quanto pare l'unico rimedio è sfogarmi sui personaggi di questa storia e quindi mettiamocela pure la fidanzata di Alma: Èlena. Ovviamente il nome è un'esagerazione, fatta per esasperare il protagonista. Spero vi sia piaciuto questo capitolo.
Al prossimo.

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