🥀New Family🥀 (Revisionato)

Ride delle cicatrici colui

che non è mai stato ferito.

~2~

Il tappeto persiano sotto i nostri piedi sembrava quasi soffocante, un intrico di colori e motivi che riflettevano perfettamente il mio stato d'animo. Ogni ricamo elaborato pareva intrecciarsi ai pensieri che mi affollavano la mente, creando un groviglio di ansie e presagi. Mi sentivo intrappolata in quella stanza, soffocata dai dettagli e dall'atmosfera che sembrava amplificare ogni mia paura.

"Tutti quelli che frequentano la Rosemary High School provengono da quartieri altolocati, è una scuola di prestigio," dissi infine, cercando di mantenere il controllo sulla mia voce. Tuttavia, il tremolio che si insinuava tra le parole tradiva la tempesta emotiva che si agitava dentro di me, come un temporale che minacciava di esplodere da un momento all'altro.

Di fronte a me, Damon sedeva con una calma disarmante, quasi irritante. I suoi capelli castani, ordinati e impeccabili, riflettevano la luce del lampadario sopra di noi, illuminandone i contorni perfetti. Gli occhi azzurri, freddi come un lago ghiacciato, erano fissi sullo schermo del suo smartphone, come se le mie parole non lo riguardassero. Il suo viso dai lineamenti scolpiti emanava un'aura di controllo assoluto, ma quella calma apparente non faceva altro che alimentare la mia frustrazione.

"E allora?" chiese infine con voce bassa, un tono così misurato da sembrare studiato. Non distolse nemmeno lo sguardo dal telefono, come se le mie preoccupazioni fossero un rumore di fondo.

L'indifferenza dipinta sul suo volto mi irritava profondamente. Avrei voluto scuoterlo, costringerlo a capire che la mia paura non era infondata, che avevo bisogno del suo sostegno. Ma il suo atteggiamento lo rendeva distante, quasi inaccessibile, come una montagna troppo alta da scalare.

"Sento che sta per accadere qualcosa di molto grave," confessai, cercando di contenere l'agitazione nella mia voce. Ogni parola usciva come un sospiro strozzato, il peso della premonizione che mi schiacciava il petto era insostenibile. Da giorni, l'insonnia aveva preso possesso delle mie notti, un'ombra silenziosa che si nutriva delle mie paure. Ogni immagine che la mia mente riusciva a evocare sembrava più oscura e più reale nel silenzio della notte.

Damon finalmente alzò lo sguardo dal telefono. I suoi occhi azzurri, taglienti e impenetrabili, si fissarono sui miei con una forza che mi lasciò senza fiato. Era come se mi stesse leggendo l'anima, come se stesse cercando di dissezionare ogni emozione che avevo tentato di nascondere.

"So che può sembrare difficile, ma non vi accadrà nulla di male. Se è necessario, invieremo delle persone esperte a proteggervi," disse con una calma glaciale. Le sue parole erano perfettamente dosate, quasi fredde nella loro precisione, e il loro impatto su di me fu devastante. La sua sicurezza, anziché rassicurarmi, mi fece sentire piccola, come se la mia paura fosse irrilevante.

Mi strinsi le braccia al petto, cercando di contenere la marea di emozioni che mi stava travolgendo. Il mio corpo tremava, ma non volevo mostrargli quanto mi sentissi vulnerabile. "Lo sai che mi dà fastidio quando ti comporti in questo modo," borbottai tra i denti, incapace di mascherare la frustrazione nella mia voce. "Fai emergere la parte più fragile di me."

Lui accennò un sorriso, un ghigno sottile che sembrava divertirsi del mio turbamento. Era un sorriso che non arrivava agli occhi, ma che accendeva in me una rabbia silenziosa. Era come se conoscesse ogni mio punto debole e lo usasse contro di me senza esitazione.

"Comunque," continuai, cercando di recuperare un minimo di controllo su me stessa, "ho la sensazione che le possibilità che qualcosa di brutto possa accadere siano molto alte. Ma ho giurato a me stessa di non permetterlo."

Le mie parole uscirono più decise di quanto mi aspettassi, come una promessa che non avrei mai infranto. Erano un grido contro la mia paura, un tentativo disperato di dimostrare a me stessa che avevo ancora il controllo.

Damon inclinò leggermente la testa, i suoi occhi azzurri continuarono a scrutarmi con quella calma imperturbabile che mi faceva sentire un enigma sotto esame. "Capisco," disse infine, con un tono così basso che quasi non lo sentii.

"Ecco perché stavo investigando sulla loro famiglia," aggiunsi, la mia voce più sicura. Non potevo permettermi di rimanere inerme. Avevo bisogno di sapere tutto, di essere pronta a qualunque cosa.

Il silenzio calò nella stanza, rotto solo dal ticchettio dell'orologio a pendolo nell'angolo. Ogni secondo sembrava trascinarsi, carico di tensione e aspettativa.

Mi voltai verso Damon, stringendo i pugni lungo i fianchi mentre lo fissavo con uno sguardo pieno di determinazione. "Non importa quanto sia pericoloso. Io non permetterò che le accada nulla di male," dissi, e le mie parole erano un giuramento solenne.

Lui rimase immobile per un momento, come se stesse valutando ogni mia parola. Poi si alzò con un movimento fluido, quasi felino. La luce colpì i suoi capelli castani, rendendoli brillanti, e il suo fisico atletico emanava una forza che mi fece sentire, per un istante, protetta.

"Allison," disse infine, il suo tono più morbido, ma ancora carico di quella sicurezza che lo rendeva inarrivabile, "non sei sola in questo. Non dimenticarlo."

Non risposi. Non perché non volessi, ma perché sapevo che qualsiasi cosa avessi detto non sarebbe stata sufficiente a spegnere il fuoco che bruciava dentro di me.

Mio zio Will sedeva sulla sua poltrona di cuoio scuro, una presenza imponente che dominava la stanza con una gravità innata. I capelli grigi, tagliati corti e perfettamente ordinati, incorniciavano un volto scolpito, dove la barba appena accennata sembrava aggiungere ulteriore severità. Ma erano i suoi occhi azzurri, profondi e scrutatori, che catturavano ogni cosa: sembravano perforare l'anima di chiunque avesse il coraggio di incrociarli. Si sollevarono dai documenti che teneva in mano, esaminati con un'attenzione maniacale, e quando la sua voce profonda risuonò nella stanza, ebbi l'impressione che persino l'aria si fosse irrigidita.

"Dove stai andando?" domandò, con un tono che non lasciava spazio a fraintendimenti. Non c'era curiosità nella sua voce, solo un'autorità inflessibile.

"Vado solo un attimo in camera," risposi, facendo ogni sforzo possibile per mantenere il tono della voce calmo e neutrale. Non volevo rivelare nulla, nemmeno un'ombra di esitazione. Ogni parola mal calibrata poteva trasformarsi in un pretesto per ulteriori interrogativi.

Mentre mi dirigevo verso le scale, sentivo il peso del suo sguardo su di me, freddo e penetrante, come se cercasse di scavare fino in fondo alla mia anima. Il corridoio del secondo piano era avvolto in un silenzio inquietante, interrotto solo dai miei passi soffusi sul tappeto dai motivi intricati. La casa stessa sembrava osservare, ogni suo angolo impregnato di sospetto. I ritratti alle pareti – antenati dai volti austeri e giudicanti – sembravano seguirmi con occhi eternamente critici.

Quando tornai al salotto, Damon era ancora seduto sul divano di velluto color borgogna. La sua vicinanza era tangibile, eppure una distanza invisibile ci separava, come un muro fatto di segreti e silenzi. Il suo aspetto, solitamente impeccabile, era leggermente disordinato: i capelli castani, sempre perfetti, apparivano ora spettinati, conferendogli un'aria quasi vulnerabile, un contrasto sorprendente con la freddezza dei suoi occhi azzurri, che restavano glaciali e impenetrabili.

"Sei sparita per un po'," osservò con un tono apparentemente disinteressato, inclinando appena la testa verso di me. Il suo sguardo, però, mi sondava, cercando di leggere tra le righe.

"Non potevo rimanere seduta a non fare niente," risposi, mantenendo un tono casuale. Ma i miei occhi, quasi per riflesso, si posarono su mio zio Will, seduto nella sua consueta posizione autoritaria. Non volevo che pensasse che stessi tramando qualcosa di troppo audace.

Damon sollevò un sopracciglio, il gesto appena accennato, ma sufficiente a esprimere il suo interesse. Si appoggiò allo schienale del divano con quella calma esasperante che sembrava essere una sua seconda natura. "E cosa hai trovato di così interessante mentre eri via?"

Non risposi subito. Mi sporsi leggermente in avanti, intrecciando le dita sulle ginocchia, come se stessi pesando attentamente le mie parole. "Prima di dirlo... hai mai sentito parlare di Christopher Wilson?" domandai infine, il tono della mia voce fermo, ma con una sfumatura di sfida.

Il sorriso di Damon si allargò appena, ma rimase enigmatico, come una maschera che nascondeva intenzioni più profonde. "Forse sì, forse no," rispose con un'indifferenza studiata. Lasciò una lunga pausa prima di aggiungere, con un sottile accenno di provocazione: "Ma sospetto che tu sappia molto di più di quanto vuoi far credere."

Prima che potessi rispondere, mio zio Will intervenne. La sua voce rimbombò nella stanza, tagliente come una lama. "E avresti ragione," disse, con un tono che trasudava disprezzo. "Ma quel nome non dovrebbe nemmeno essere pronunciato in questa casa."

"Interessante," mormorò Damon, girandosi lentamente verso di lui, mantenendo quella calma esasperante. "Perché tanto odio?"

"Non è odio," ribatté Will, il suo sguardo si fece più scuro, gelido. "È disprezzo. E c'è una differenza sostanziale."

"Disprezzo, certo," replicò Damon, con un accenno di sarcasmo che rendeva ogni sua parola pungente. "Immagino che ci sia una lunga storia dietro tutto questo."

"Una storia che non riguarda te," ribatté Will, tagliando corto. La sua voce era una sentenza definitiva.

"Ma riguarda me," intervenni con fermezza, sollevando lo sguardo per incontrare quello di mio zio. "E voglio sapere tutto. Christopher Wilson non è solo un nome. È una parte di questo intreccio, e io devo capire cosa significa."

Will si voltò verso di me, i suoi occhi azzurri si fecero ancora più penetranti. "Sei davvero sicura di voler sapere?" chiese, la sua voce era un miscuglio di avvertimento e sfida.

"Sì," risposi, incrociando le braccia al petto. La mia determinazione era palpabile. "Perché qualunque cosa stia accadendo, non posso più restare a guardare."

Damon ridacchiò, scuotendo appena la testa. "Sembra che tu abbia già deciso da che parte stare."

"Non si tratta di scegliere una parte," ribattei con forza. Sentivo il calore del sangue pulsarmi nelle vene, la mia voce era ferma. "Si tratta di arrivare alla verità, qualunque essa sia."

Will si alzò lentamente dalla poltrona. La sua figura massiccia sembrava ingigantirsi con ogni movimento, e l'ombra che proiettava sul tappeto ricamato era lunga e minacciosa. "La verità non è sempre un lusso che possiamo permetterci," dichiarò, dirigendosi verso la finestra.

"È comunque un rischio che sono disposta a correre," risposi, senza vacillare.

Il silenzio calò di nuovo, denso e opprimente, finché non decisi di spezzarlo: "Ragazzi, l'ho trovata!" dichiarai, con un entusiasmo che mascherava il tumulto dentro di me. "Sono riuscita ad accedere all'account della compagna di mio padre."

Damon si sporse leggermente in avanti, il suo interesse finalmente evidente. Will rimase immobile, ma i muscoli della mascella tesi tradivano la tensione che cercava di nascondere.

"Che cosa hai scoperto?" chiese Damon, la sua voce bassa, carica di interesse.

"Dalle informazioni che ho trovato, ho scoperto che ha tre figli: Kira, 16 anni; Alex, 18; e Noah, 22," dissi, sforzandomi di mantenere un tono neutrale mentre il peso della scoperta mi stringeva il petto.

Will alzò lo sguardo, i suoi occhi si fecero più scuri, quasi minacciosi. "Il padre di quei ragazzi era Christopher Wilson," aggiunse con una freddezza che gelò l'aria nella stanza.

"Non c'è alcuna informazione su di lui," continuai, cercando il volto di Damon per cogliere qualche indizio.

Damon sorrise, ma il sorriso rimase freddo. "Doveva essere un uomo molto abile per nascondersi così bene," commentò, enigmatico.

Will si irrigidì. "Aveva lavorato per me in passato," disse con un tono duro come pietra. "Ma ora se ne sta nascosto come un cane."

Prima che potessi dire qualcosa, la governante entrò nella stanza. "Signori, la cena è pronta," annunciò con voce gentile, spezzando la tensione.

Ci alzammo uno dopo l'altro, ma la tensione rimase sospesa nell'aria. Sapevo che quella conversazione era tutt'altro che conclusa.

Dopo essermi preparata, sistemai le valigie nel bagagliaio dell'auto con movimenti affrettati, quasi frenetici. Ogni gesto tradiva l'agitazione che mi percorreva come una scossa elettrica. Era ancora mattina presto, il cielo appena rischiarato da una luce pallida e incerta, ma il viaggio imminente sembrava pesare su di me con un'energia tumultuosa che rendeva ogni azione carica di significato.

La colazione fu un momento disordinato e fugace: il clangore delle stoviglie riempiva la cucina di un'eco metallica e ansiogena, mentre bocconi veloci e parole smozzicate si intrecciavano in un'atmosfera carica di tensione. La cucina, solitamente un luogo di calore familiare, sembrava trasformarsi in un campo di battaglia, dove ognuno cercava di mantenere il controllo delle proprie emozioni.

Dopo aver concluso il pasto, ci mettemmo in viaggio per andare a prendere mia madre e mia sorella. Il tragitto fu segnato da un silenzio teso, vibrante come una corda di chitarra pronta a spezzarsi al minimo tocco. Mia sorella Hailey, seduta accanto a me, sembrava assorta nei suoi pensieri; il suo profilo delicato era illuminato dai primi raggi del sole, che disegnavano ombre leggere sulle sue guance.

All'aeroporto, salutammo mio zio e i miei cugini. Gli abbracci furono rapidi, quasi meccanici, e le parole di rassicurazione che scambiammo sembravano più un rituale vuoto che un vero tentativo di conforto. Mia madre rimase con noi fino all'ultimo momento, il volto segnato dalla preoccupazione. Cercava di infondere coraggio con sorrisi incerti, ma il suo sforzo sembrava vano, come tentare di contenere un fiume in piena con le mani nude.

Quando salimmo sull'aereo, la tensione non si allentò. Il viaggio durò appena due ore, ma per me sembrò un'eternità. Mi trovai a fissare fuori dal finestrino, perdendomi nella visione dei grattacieli di Rosemary che si stagliavano all'orizzonte come sentinelle silenziose. Sotto di noi, le auto apparivano come minuscole formiche che si muovevano incessantemente, ognuna parte di un mosaico complesso e inafferrabile.

All'arrivo, il parcheggio dell'aeroporto si rivelò un caos ordinato di veicoli e persone in movimento. I miei occhi vagavano tra la folla, cercando con ansia Alaric. Ogni volto sconosciuto, ogni macchina che passava sembrava aumentare il peso dell'attesa.

"Ti ricordi che macchina aveva Alaric?" mi chiese Hailey, interrompendo i miei pensieri.

"Una Mustang nera," risposi a bassa voce, e poco dopo la individuai. Era parcheggiata a poca distanza, risplendente sotto la luce del sole mattutino, come un angelo custode in un mare di metallo.

"Trovata," annunciai con sollievo, mentre ci avvicinammo trascinando le nostre valigie pesanti.

La portiera si aprì, e mio padre apparve. Alaric era alto e magro, con una presenza raffinata che sembrava studiata nei minimi dettagli. Il suo completo impeccabile enfatizzava il fisico slanciato, mentre gli occhiali da sole, grandi e scuri, nascondevano le sue iridi nocciola, rendendolo quasi estraneo. Ogni suo movimento era calibrato, privo di spontaneità, come se ogni gesto fosse parte di un copione ben memorizzato.

"Ciao Hailey! Allison," ci salutò con un sorriso superficiale, che non raggiunse mai i suoi occhi. Con un gesto meccanico prese le nostre valigie, come se fosse un obbligo più che un gesto di cortesia.

"Ciao Alaric," rispose Hailey, con un tono educato ma distante. Io, invece, rimasi in silenzio, i miei pensieri affondati in un mare di emozioni non espresse.

Le sue domande sul viaggio e sul nostro benessere arrivarono come onde che si infrangono su una scogliera: prive di forza, prive di vera intenzione. Nessuno di noi menzionò il passato, né la scelta di mio padre di abbandonarci per costruirsi una nuova vita. Era come se il silenzio fosse un accordo tacito, un muro invisibile che nessuno osava abbattere.

Ma mentre l'auto si allontanava dal parcheggio, non riuscii più a trattenermi.

"Perché ci fai sempre sembrare degli estranei?" sbottai all'improvviso, la mia voce carica di una rabbia a lungo repressa.

Alaric si voltò verso di me, sorpreso, ma cercò di mantenere la calma. "Non capisco di cosa parli, Allison."

"Non capisci? Davvero?" scoppiai, sentendo le lacrime bruciare negli occhi. "Hai mai pensato a come ci sentiamo io e Hailey? Hai mai pensato a cosa significa per noi vederti comportarti come se fossimo un obbligo, come se fossimo solo un peso nella tua vita perfetta?"

Hailey si irrigidì accanto a me, chiaramente a disagio, ma non intervenne.

"Non è vero," rispose mio padre, la voce fredda. "Sto facendo del mio meglio per voi."

"Del tuo meglio?" ribattei con un'amarezza che non riuscivo più a contenere. "Il tuo meglio è andartene senza guardarti indietro? Il tuo meglio è chiamarci solo quando ti conviene? Non ci sei mai stato, Alaric. Mai."

L'auto si riempì di un silenzio pesante, rotto solo dal rumore monotono del motore. Mio padre serrò le labbra, gli occhi nascosti dagli occhiali, ma potevo percepire il disagio che traspariva dalla sua postura rigida.

"Non sono perfetto, Allison," disse infine, la voce tesa. "Ma non ho mai smesso di preoccuparmi per voi."

"Preoccuparsi?" sussurrai, incredula. "Non basta. Non è mai bastato."

E mentre le lacrime finalmente mi rigavano il viso, mi voltai verso il finestrino, guardando le strade sconosciute di Rosemary sfilare accanto a noi.

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