🥀L'Oscurità Ci Perseguiterà🥀
La vita mi ha
voluto sensibile.
~25~
La mattina seguente mi alzai dal letto ancora assonnata, stiracchiandomi lentamente.
I ricordi della sera precedente riaffiorarono nella mia mente come un incubo persistente, un'ombra che si allungava su ogni angolo della mia consapevolezza.
"Che due palle!" esclamai, mentre mi strofinai gli occhi con la punta delle dita, irritata e imbarazzata per la situazione che avevo vissuto.
"Ma come ho potuto dire quelle assurdità?" mi rimproverai, ributtandomi nel letto e affondando la testa nel cuscino, urlando frustrata come se volessi seppellire il mio dispiacere.
Questo è solo un matrimonio combinato. Io non provo nulla per te, ripetei mentalmente, cercando di convincermi che le parole che avevo detto fossero vere, mentre il mio cuore si contorceva al pensiero di quanto fosse falsa quella dichiarazione.
Il peso della verità, schiacciante come un masso, sembrava premere su di me, un fardello insostenibile.
I ricordi della notte mi travolsero come un'onda violenta, Damon che urlava con furia, la tensione palpabile nell'aria e la mia resistenza vacillante come un fragile equilibrio.
Quindi tu vuoi dirmi che fino a poco fa stavi fingendo!? Che quando mi hai confessato i tuoi sentimenti era una farsa!? Eh!? La sua voce arrabbiata mi colpì come una serie di schiaffi, ogni parola un pugno nello stomaco.
Damon si avvicinava minacciosamente, il suo sguardo incendiato di rabbia e io indietreggiavo fino a quando la mia schiena non si scontrava con la porta, come un animale braccato.
Sì. In che diavolo di situazione ci siamo cacciati. Non funzionerà mai. È stato un grosso errore, risposi, con il cuore in tumulto che batteva come un tamburo impazzito.
La mia voce tremava e il mio stato d'animo era un groviglio di ansia e disperazione.
Hai ragione. Ho paura. Tra il matrimonio e la mafia, sono fuori di testa, diceva lui, il suo respiro era affannato e irregolare mentre cercava di mettere in ordine i pensieri confusi, come se volesse ricostruire un puzzle distrutto.
Non ci siamo ancora sposati e mio zio aspetta solo quello.
Cosa pretendi che faccia!? Mi hai appena detto che non mi ami. Ma...
Ma, cosa!?
Ma so che è una bugia, Allison! Ti conosco e so per certo quando menti.
"..."
Non dici più niente? Perché lo sai che ho ragione. Non è così? Il suo viso era così vicino al mio che sentivo il calore del suo respiro, un calore che era allo stesso tempo confortante e opprimente.
Quella vicinanza era paralizzante e io non riuscivo a distogliere lo sguardo, incatenata alla sua presenza.
Con un fremito di angoscia, mi alzai dal letto e iniziai a camminare avanti e indietro per la stanza, il pavimento sotto i miei piedi sembrava tremolare come se il mondo stesso fosse instabile.
Mi fermai improvvisamente e avvolsi il mio viso fra le mani, come se potessi nascondere il dolore e la confusione che mi assalivano, come una fragile maschera che non riusciva a celare le mie fragilità.
"Per fortuna, Damon si è alzato prima di me e non mi ha vista in questo stato," pensai ad alta voce, cercando di trarre conforto dalla sola idea.
La semplice immagine di Damon fuori dalla mia vista era una piccola ancora di salvezza in quel mare di disperazione.
Improvvisamente, delle braccia robuste mi avvolsero la vita, e la testa di Damon si appoggiò delicatamente sulla mia spalla.
"Cosa non dovrei aver visto?" mi chiese, la sua voce morbida e rassicurante come una carezza mentre mi baciava il collo, il suo tocco era come un balsamo per la mia inquietudine.
"Mhm, nulla," risposi, chiudendo gli occhi e godendomi questo momento di intimità, come se potessi rifugiarmi nel calore del suo abbraccio. Poi, aggiunsi, "Come mai ti sei alzato così presto?"
"Per chiamare gli altri, così da metterci subito al lavoro," rispose, accarezzandomi la pancia con una tenerezza che mi fece sentire al sicuro, come se fossi avvolta in una coperta protettiva.
"A proposito... Come stai? Mhm?" chiese con una voce che sembrava voler abbracciarmi, un tono di preoccupazione che mi toccava profondamente.
Il mio cuore si sciolse a sentire quella domanda, e sentii le lacrime salire agli occhi, pronte a tracimare.
Cercai di riprendermi, voltandomi per fissare i suoi occhi penetranti. "No. Non sto bene. E tu sai il perché," gli risposi con un lieve sorriso, mentre il peso della verità mi schiacciava come una coperta di piombo.
Mi fece male anche il fatto di nascondergli i miei poteri.
Non stavo bene, perché non sapevo più cosa ero.
Avevo letteralmente incontrato e dialogato con un Demone, e non sapevo nemmeno se potessi fidarmi di lui.
Inoltre, mia sorella era scomparsa e quel dannato Demone mi aveva detto che dovevo imparare a usare la magia.
Ma come facevo se non sapevo nulla di questa "magia" e di me stessa?
Non stavo affatto bene e se te lo dicevo, pensavo che mi avresti presa per pazza, come minimo.
Da quell'incidente, la mia vita era andata a rotoli, come una giostra impazzita che non riusciva a fermarsi.
"Icy, tutto bene?" La domanda di Damon mi distolse dai pensieri tormentati, come un faro che squarciava la nebbia.
"Sì," risposi, schiarendomi la voce mentre mi preparavo a lasciare la stanza, il mio stato d'animo, un mare in tempesta sotto la superficie.
"Ehm. Vado a farmi una doccia," dissi, dandogli un bacio sulla guancia e dirigendomi verso il bagno, come se quel gesto potesse sciacquare via le mie angosce.
Dopo essere entrata nel bagno, chiusi la porta alle mie spalle e mi appoggiai ad essa, cercando di trovare un momento di calma.
Le mie mani iniziarono a tremare come se stessi vivendo una crisi nervosa, ogni battito del mio cuore era come una dolorosa eco del caos interiore.
Mi sfilai il pigiama e lo gettai sul pavimento, come se volessi liberarmi di tutta la mia angoscia, un atto disperato di abbandono.
Mi guardai nello specchio, osservando il mio riflesso.
Ero pallida, gli occhi lucidi e un mal di testa atroce mi accompagnava, un compagno indesiderato.
Poggiai le mani sul lavandino, il petto si sollevava e si abbassava a un ritmo disumano, come se stessi cercando di respirare sotto un peso opprimente.
Provavo tanta rabbia, un'emozione bruciante e incontrollabile.
La rabbia era come un vomito mentale, come se avevi ingurgitato qualcosa che non andava e tutto il tuo essere psicologico voleva espellerlo.
La società imponeva di controllare la rabbia perché spesso si tendeva a scaricarla sugli altri, un inganno sociale che limitava il libero sfogo dell'emozione.
Non c'era bisogno di vomitare la propria rabbia sugli altri.
Potevi andare in bagno, potevi fare una passeggiata.
La rabbia indicava che c'era qualcosa dentro di te che aveva bisogno di liberarsi attraverso un'attività intensa, potevi fare un po' di Kick Boxing e la sentivi scaricarsi.
Oppure prendevi un cuscino e lo picchiavi, litigavi con esso e lo mordevi finché le mani e i denti non si erano rilassati.
Con cinque minuti di catarsi ti sentivi scaricata, e una volta imparato questo espediente, non avresti mai più gettato la tua rabbia su qualcun altro, perché era assolutamente stupido.
Il primo passo nella trasformazione era esprimere la rabbia, ma non contro qualcun altro.
L'idea di aggredire qualcuno, di infliggere danno o di fare del male era impensabile.
Avresti voluto mordere e graffiare, ma queste azioni erano impossibili da realizzare senza conseguenze.
Ebbene, per liberarti da questa furia interiore, c'era un modo alternativo, il cuscino.
Il cuscino, nel suo silenzioso e inanimato splendore, era come una figura divina, sempre disponibile a ricevere la tua aggressività senza rispondere.
Non avrebbe mai reagito, non ti avrebbe trascinato in tribunale, e non sarebbe diventato tuo nemico.
Al contrario, il cuscino avrebbe accolto ogni colpo con una sortita di impassibile accettazione, come se fosse stato felice di aiutarti a sfogarti.
Era come un confidente paziente, che si faceva carico del tuo malessere senza protestare, un'ancora di tranquillità in un mare tempestoso.
In quel momento, però, non trovavo sollievo né nel cuscino né nel suo infinito abbraccio di stoffa.
La mia auto-comprensione vacillava, la mia auto-accettazione sembrava a pezzi.
La rabbia, che ardeva dentro di me come un fuoco incontrollabile, aveva trovato un campo di battaglia contro me stessa.
Ogni pensiero, ogni sensazione di impotenza sembrava lanciarmi verso un abisso di odio verso la mia stessa esistenza.
Non era solo la rabbia a consumarmi, ma anche un profondo sentimento di auto-disprezzo.
Mi odiavo per la mia incapacità di gestire la situazione, per la mia fragilità e per la confusione che mi avvolgeva come una nebbia impenetrabile.
Ogni volta che mi guardavo allo specchio, la mia immagine riflessa sembrava un cruel ricordo di quello che ero diventata, una giovane donna, pallida e segnata, con occhi lucidi e un mal di testa pulsante che non mi dava tregua.
Ero come un vaso di cristallo, apparentemente intatto ma in realtà incrinato, in bilico tra l'apparenza di normalità e il caos interiore.
Ogni lacrima, ogni singhiozzo, sembrava essere un capitolo di un racconto incompleto, una storia che non riuscivo a scrivere fino alla fine.
In quel preciso istante, l'auto-compassione si intrecciava con l'auto-disprezzo in un drammatico balletto, mentre cercavo disperatamente una via d'uscita da questo labirinto di emozioni tumultuose.
Il cuscino, con tutta la sua semplicità, rappresentava una via di fuga momentanea, una concessione al mio bisogno di scarico senza giudizio.
Eppure, nonostante la sua accoglienza passiva, il cuscino non poteva alleviare il profondo senso di odio e di frustrazione che provavo verso me stessa.
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