00, prologo

Passo dopo passo, l'eco risuonava a vuoto tra quelle mura metalliche arrugginite. C'era bisogno di affrettarsi, e Almak lo sapeva. Per questo la sua andatura era spedita, imperterrita, e il suo sguardo fissato di fronte a sé, con un'espressione leggermente corrucciata. Si muoveva in una precisa linea retta, come se nulla potesse mai influire sul suo moto, e produceva un ritmico ticchettio ogni volta che la sua gamba metallica incontrava il pavimento opaco.

L'unica fioca luce che illuminava quel percorso lontano dall'umanità proveniva dalle piccole finestrelle lungo la parete alla sua sinistra, vicine al soffitto. Una luce soffusa, che avrebbe, a chiunque, imposto di dover spalancare gli occhi per potersi orientare in quell'oscurità.

Ma non ad Almak. Lei pareva sapere dove stesse andando. Era come guidata da una forza esterna alla sua volontà, una guida fantasma, una mano direzionatrice sulla spalla. Abitudine, probabilmente. All'occhio attento non sarebbe sfuggita quella sfumatura di riconoscimento, per quanto doloroso, che le brillava nelle pupille mentre scorrevano lungo quei corridoi.

Un giro a destra, poi un altro. Un passo solenne, e un altro ancora. Poi, il silenzio.

Davanti alla giovane donna c'era un muro. Niente di più, niente di meno, soltanto una parete spoglia, che rimandava qualche riflesso degli scarsi bagliori che la raggiungevano. Il metallo di cui era fatta non era nuovo, né lustro, ma non era nemmeno arrugginito, a differenza di quello delle sue vicine. Era come sospeso temporaneamente nel suo processo di degradazione: non brillante ma neanche scuro.

Almak continuò a guardarsi di fronte per qualche istante, prima di chiudere lentamente gli occhi. Prese un respiro profondo, cercando di estraniarsi da quello che si trovava intorno a lei. Necessitava di riflettere. Il suo piano non era semplice. Per niente. E anzi, forse non era nemmeno un piano, soltanto un'idea. D'altra parte però, non c'era davvero altro modo di procedere. La realtà non regala chance di salvezza, pensò. Bisogna prendersele. Il deperire evidente di quell'edificio, come di quelli dell'intera zona, ne era quasi la riprova.

Le sue palpebre si rialzarono, ma non tornarono nella loro posizione di serietà accigliata; prima, seguirono la sua mano sinistra intrufolarsi sotto alla copertura che la sua giacca da Guardia Reale offriva al petto. Tastando là sotto, trovò l'anomalia che cercava, una piccola tasca scucita alla bell'e meglio di nascosto qualche tempo prima. La usava per tenere al riparo da occhi indiscreti ciò che non desiderava venisse visto apertamente — le cose il cui valore sarebbe senza dubbio stato fonte di attenzioni non desiderate. Ma là, nella fredda solitudine dell'abbandono più totale, nessuno poteva vederla, e perciò poteva permettersi tranquillamente di tirarne fuori i contenuti. Ne sfilò, con un movimento lungo e lento, un pezzetto di carta scarabocchiato.

Non era comune, la carta. Almeno, non su Synfo-Nui, e non di quei tempi. Una delle più importanti invenzioni del passato era ormai vicina all'estinzione.

Non perché il suo tempo sia finito, no.

Ne era, prevedibilmente, ormai stato bandito l'utilizzo anche nella vita quotidiana, nelle lettere, nelle pratiche più umili. Veniva considerata prova incriminante di insubordinazione, di una disobbedienza particolarmente grave, e nel caso qualcuno venisse scoperto, avrebbe subito ripercussioni non indifferenti. Chissà, tortura, incarcerazione? Non c'era nessuno che potesse testimoniare cosa accadesse veramente dietro quelle pesanti quinte.

Se l'obiettivo è il controllo totale, allora intralcia la segretezza. Strategia intelligente.

Quei pensieri avevano un gusto particolarmente amaro, e a dirla tutta, portavano con sé un brivido non identificato, forse di irritazione, forse di qualcosa di più profondo. Dopotutto, riuscire a bandire una cosa così universale come la carta non era un'impresa che si verificava senza uno sbilanciamento di potere, ed uno grande, per giunta. Come sospinta da quella riflessione, riprese coscienza di ciò che aveva intorno, ed accorgendosi del frammento, lo osservo, cercando di inclinarlo verso la luce per vederlo meglio.

Mirae. Vega Daweyt. F. Naida Nema.

Lesse quella grafia illeggibile nella sua testa, osservando come si stendesse poco elegantemente da un bordo all'altro. Il suo significato sarebbe stato nullo per chiunque altro, o perlomeno indecifrabile, ma per lei rappresentava... qualcosa, e nemmeno lei sapeva cosa, ma sapeva invece che era di valore inestimabile. Era un ricordo, nero su bianco, del fatto che, per quanto disperate, scalcagnate, rovinate fossero, c'erano persone disposte a rischiare tanto, anche tutto, per un tentativo di fare la cosa giusta. Le loro motivazioni potevano essere dubbie e contorte, ma stavano compiendo azioni non banali, che lo intendessero o meno. E quel foglio era una specie di simbolo, un pegno della sua motivazione. Non era nulla di più che una lista di quattro nomi, neanche, eppure sembrava fatto d'oro da come Almak lo manovrava con una delicatezza lontana dai suoi modi abituali.

Boom.

Proprio mentre osservava distrattamente quelle parole, un rumore assordante le riempì le orecchie, facendola voltare di scatto. Il muro alla sua sinistra tremò, vacillando. Poi, silenzio di nuovo. Mantenendo la calma, prese un attimo per pensare. Al di là della parete c'era la strada, ed era da là che era venuto il suono. Doveva essere stata un'esplosione, o uno sparo di qualche tipo, forse neanche diretto verso quell'edificio. In ogni caso, il fracasso le ricordò che non aveva molto tempo. Decise di non dargli troppo peso — insomma, il Distretto di Bronzo non era noto per il suo pacifismo — ma era comunque arrivato il momento di muoversi. Infilò nel suo riparo il foglietto, e prese un respiro profondo. Allungò la mano libera verso il muro davanti a cui si era fermata, e ve la appoggiò sopra, a palmo disteso.

Il contatto provocò una forte vibrazione, come se il metallo avesse in qualche modo riconosciuto la presenza di lei. Almak stette ferma, e dopo pochi secondi, l'impronta della sua mano prese a brillare di un blu acceso.

Fu come se l'edificio, da consunto fino in fondo, prendesse vita da un momento all'altro. Una miriade di meccanismi nascosti alla vista prese vita in una reazione a catena che poteva solo essere sentita, mentre si spostava da sotto la donna alla parete davanti a lei. Almak si aspettava tutta questa serie di avvenimenti, ma non la pesantezza che il suo cuore dimostrava in quell'esatto momento.

Staccò finalmente la mano dal muro. L'impronta rimase. La parte centrale dello strato opaco si ripiegò in un disegno perfetto a spirale spigolosa, su sé stessa, aprendo un piccolo varco. Quell'apertura, riconducibile ad una porta, dava su un buio corridoio, lungo cui correvano due sottili linee di luce fredda ma familiare. Si diede un breve sguardo alle spalle, per salutare l'illuminazione bianca di quei vetri sporchi e per controllare che nessuno l'avesse seguita, e poi si piegò un poco per farsi avanti. L'entrata le si richiuse dietro con un click.

Raddrizzandosi, spalancò gli occhi per adattarsi a quella piacevole oscurità. Le era mancata, si accorse. Si mosse, metallo contro metallo, tensione contro apatia, e camminò senza pensare più. I passi rimasero regolari, mentre il battito accelerava. Se c'era qualcuno, sarebbe stato tutto più difficile. Sperava di non doversi complicare la vita. La penombra si apriva al suo passaggio e si richiudeva dietro la sua sagoma in movimento. Le fioche luci ai suoi fianchi si interrompevano poco più in là. Era quasi arrivata.

Superò il termine dell'illuminazione, senza rallentare. Adesso era il buio a circondarla. Contò i passi. Dieci, undici, dodici... tredici. Un ventaglio di led rossi, ad altezza d'uomo, squarciò le tenebre, passandole attraverso, dall'alto verso il basso e poi di nuovo su. Dopo qualche secondo, finita l'identificazione, si spense, e due fotocellule oscurate si aprirono davanti ad Almak, rivelando ciò che tenevano di guarda ed inondandola di un chiarore più caldo. Strizzò gli occhi, e si fece avanti.

Si trovava in una piccola stanza, riconducibile ad un cubo. Non sembrava avere nulla a che fare con l'ambiente che si era appena lasciata dietro. Quel corridoio al buio sembrava averla portata molto lontano, quasi in un altro Distretto. L'infrastruttura era sempre metallica, di proporzioni geometriche e precise, ma era... brillante. Non nel vero senso della parola, anche quel posto aveva visto giorni migliori, ma era pulita, asettica. Sembrava meno vissuta. Non vi era molto, là dentro: l'arredamento si riduceva ad una grossa sedia dietro ad una scrivania, uno scaffale di quelli vecchio stile, grigio e dotato di cassettini, e una specie di cassaforte alla sua destra, incastonata nel muro. Le pareti erano soltanto tre: quella di fronte all'entrata era di vetro, e da lì proveniva la luce.

Una silhouette di donna adulta si stagliava contro la vista delle strate decadenti, imponente quanto rassicurante. In piedi dietro sedia e scrittoio, con le spalle all'ingresso, sembrava osservare una commozione che stava avvenendo di sotto. Almak spalancò gli occhi, poi li alzò al cielo. Esalò, sconfitta. L'ostacolo che le si era parato davanti non era tanto materiale, quanto nella sua testa, il che lo rendeva peggiore di molti altri scenari che si era prefigurata.

Riportò l'attenzione alla donna. Contemplava un movimento lineare su quei ciottoli consumati. C'era silenzio totale. Là fuori, si distendeva la grigia griglia di edifici del Distretto di Bronzo, nella quale, come al solito, stava avvenendo una qualche rappresaglia. Non si era voltata al rumore che l'entrata della giovane aveva provocato, come se sapesse, anche senza guardare, chi avesse appena fatto capolino.

Fu Almak ad avvicinarsi a lei. Superata la scrivania, la affiancò, e guardò dove guardava lei. La donna non distolse lo sguardo dalla strada, in basso.

Una combriccola di persone stavano correndo, tutta nella stessa direzione. Non c'era motivo visibile per cui si dovessero catapultare così di fretta da alcuna parte. Si fiondavano, uno dopo l'altro, a gruppetti, in massa, disordinati, tutti verso lo stesso incrocio. C'erano gli individui più vari: da bambini, più piccoli e più grandi, che si affrettavano a seguire la moltitudine, a coppie che si muovevano in sincrono, tenendosi per mano o stretti l'un l'altro, e ancora a solitari imponenti o elusivi, massicci o subdoli. Si scambiavano, muovendosi a scaglioni e creando una rete di intrecci tra di sé. Continuavano a correre, a gambe reattive.

Almak non ebbe bisogno di aprire bocca, perché l'altra lo fece per lei. Senza distogliere lo sguardo dalla scena sottostante, la sua voce grave e piena riempì l'aria.

«Mentre la notte scende, il Sistema tira avanti» disse Maya Hethur, gli occhi rivolti ad un orizzonte costellato di grattacieli e palazzi, dove luci e led cominciavano a spuntare, facendosi strada sulla città di Evaris. In lontananza, il confine con il Distretto d'Argento, e quasi invisibile se non per i bagliori anche quello con il Distretto d'Oro, erano evidenti nel loro segnare divisioni convenzionali ma spontanee, in linee perfettamente concentriche.

La donna prese un respiro profondo, e si voltò, finalmente, a guardare la giovane in volto. I suoi capelli bianchi, a contrasto con la sua pelle scura, tradivano la sua avanzata età, che veniva in qualche modo compensata dai suoi tratti somatici: reattivi e saggi, le conferivano un'aura quasi eterna. Dagli occhi e dal portamento, però, traspariva un'inevitabile stanchezza velata. Stanchezza che, all'incrocio tra i due sguardi non fece che aumentare il peso che Almak percepiva dentro.

«Non so cosa tu mi stia per dire, ma so che se sei qui, è per chiedere il mio permesso» proseguì.

Almak esitò un attimo, forse proprio per l'espressione che Maya Hethur le aveva appena rivolto. Ma non era il momento di perdere coraggio, proprio quando era nel bel mezzo dell'atto. Le decisioni le aveva già prese, e non sarebbe tornata indietro sulla parola data. Aprì bocca per parlare.

«Prima che tu chieda, sappi che puoi fare quello che vuoi, e che non ti impedirò di portare a termine quello per cui sei venuta qui». La voce della donna la interruppe sul nascere. Il suo sguardo tornò sulla strada, che diventava progressivamente più buia. «Stanno evacuando una delle case di Broul qua vicino». Disse, dopo solo un attimo di pausa, lasciando apparentemente perdere l'altro discorso.

La gente continuava a correre sul selciato. Improvvisamente, sullo stesso lato da cui Almak aveva sentito l'esplosione poco prima, un lampo di luce invase il passaggio con un forte rumore, seguito da grida di dolore e paura, ovattate dal resistente vetro della finestra. Quindi è per questo che scappano, rifletté la giovane, un attacco.

Broul, barbuto signore sulla cinquantina, era uno dei recenti protagonisti della scena del Distretto di Bronzo: da qualche tempo, ormai, forniva vitto e alloggio ai bisognosi nei trasandati edifici che stava cercando di rimettere in condizioni decenti. Faceva del bene in cambio dei sorrisi delle persone, nulla di più, e non aveva mai torto un capello a nessuno. Almak non aveva mai capito perché continuasse a stare lì, in quella topaia, invece di partirsene per qualche posto in cerca di una vita migliore. In ogni caso, non era un uomo violento, e si teneva alla larga dai conflitti interni della zona, motivo per cui l'intera vicenda sembrava alquanto bizzarra. Chi, tra gli sciagurati di quell'area decadente, se la sarebbe mai presa con una persona così buona di cuore quando dalla sua presenza avrebbe tratto solo beneficio?

Maya sembrò intuire i suoi dubbi, e diede una risposta, apparentemente irrilevante, ma che invece, seppur incompleta, le fece capire cosa stesse realmente accadendo.

«Non c'è più differenza tra qua e le ville dorate, ormai».

Un bambino cadde per terra, inciampando. Il tempo attorno a lui sembrò fermarsi per un attimo, gli schiamazzi acquietarsi per un secondo. Mentre piangeva, cercando i genitori che potessero dare sollievo ai graffi sulle sue ginocchia, occhi spalancati lo guardavano da ogni lato, addolorati e colmi di compassione. Quella che sembrava sua sorella, poco più avanti, non lo vide, e continuò a scapicollarsi senza preoccupazioni.

Poi si udì un altro botto.

Ed ecco, finalmente, il caos; chi era ancora sano di mente perse cognizione delle circostanze, correndo per la vita; chi già si dimenava in preda alla follia aumentò il passo; chi perdeva i compari di fuga non si fermava per più di qualche attimo. Nessuno si guardava più alle spalle, anzi stava attento a non incespicare in chi cadeva abbandonato dall'anima.

Una donna fu colpita, e la sua corsa solitaria fu arrestata prima che riuscisse a raggiungere le mani tese della comitiva che la aspettava all'angolo, poco più in là. Lo stesso accadde a un ragazzo, le cui dita non riuscirono a stringere quelle del compagno abbastanza forte da tenerli insieme. Un altro uomo prese in braccio la figlia, tenendosela stretta al petto e dando la schiena al fuoco mentre continuava a muoversi, per evitare che venisse in qualunque modo ferita.

«La speranza è l'ultima a morire» parlò ancora la voce profonda, «ma pare che possa essere arrivato anche il suo momento».

C'era qualcosa di finale in quelle parole, qualcosa di consapevole. La comandante Hethur, ex Capoguardia della Casa Reale di Synfo-Nui e Prima Comandante della Resistenza, poteva non conoscere le esatte intenzioni della sua complice, ma sapeva che, quale che fosse la pazzia che aveva in mente, si trattava proprio dell'ultima spiaggia. La sua non era altro che una spinta, un colpetto risvegliatore.

Almak non distolse lo sguardo da quell'inferno neanche una sola volta. I suoi occhi erano lucidi. Il suo respiro era alterato. I suoi pugni erano stretti. Il foglio di carta le rimbombava in petto con ogni battito del cuore, testimonianza di come quella stessa speranza fosse invece ancora viva e vegeta. Corse allo scaffale, e si piegò, leggendo le etichette dei cassetti. Il suo dito si fermò su quello con la scritta 'Bottoni di May'. Lo aprì di scatto. Ne scosse il contenuto, cercando qualcosa. Le bastò poco per trovare quello che cercava: un sacchetto con degli oggetti dalla forma circolare, contrassegnati da strani simboli incisi sulla loro superficie. Ne prese uno, lo osservò sbrilluccicare per qualche secondo, e lo strinse nel palmo della mano. Richiuse il cassetto e si rialzò. Il suo sguardo era ancorato a quello della donna, e si addolcì per la prima volta in molto tempo.

«Finché vivo anche solo io, puoi stare tranquilla che non morirà».




Sdraiata sul tetto di una vecchia automobile sfasciata, Vega ammirava con occhi nuovi una vista conosciuta.

La notte stava calando, finalmente, e Myria aveva appena ricominciato a mostrare il suo manto puntellato e lucente. Quella postazione era buona, per trovarsi nel Distretto di Bronzo: la strada non era una delle più strette, e perciò la volta celeste era ben visibile, e anche se quel veicolo accartocciato era un po' arrugginito, si prestava bene come appoggio. Almeno, sicuramente meglio della fredda strada di zona, incrostata di sangue e rifiuti ad ogni centimetro.

Era tutto regolare, nella norma, in quel cielo. Ped e Pad stavano per lasciare un momento di tregua al pianeta ai lati opposti della visuale, come ogni giorno, dandosi il cambio con una calma disarmante. Vega sbuffò tra sé e sé, contrariata. Perché una cosa così bella come la notte doveva durare così poco su quello stramaledetto pianeta? Una mezz'ora o poco più non erano sufficienti a dimostrare al mondo la pura magia che conteneva quella trama di scie luccicanti, dai colori più vari e dalle tinte più diverse. Durante il giorno, erano a malapena visibili, a malapena riconoscibili dall'occhio nudo, sbiadite dalla potenza delle stelle gemelle.

E poi c'erano loro, le stelle, ma tutte, non solo le due più importanti, tutti i miliardi di astri là fuori. Erano proprio belle. I loro disegni non erano precisi, ma forse era proprio questo che le rendeva così affascinanti. E pensare che molte di loro, probabilmente, sarebbero potute essere delle risorse di vita, punti di riferimento per ipotetici altri sistemi. Un potenziale così grande, tale da far sentire chiunque minuscolo al loro cospetto.

In lontananza, la massa verde di Borion riluceva, rimandando riflessi di tonalità verdi dalle chiome della sua foresta illuminata. Anche a quella distanza, la sua coltre verdeggiante sembrava muoversi un poco, viva, intoccata. Lo sguardo di Vega si spostò un po' più indietro, lungo una linea pressoché retta, e si concentrò su una piccola sfera azzurra, circondata da una moltitudine di impercettibili strati. Una delle poche atmosfere visibili conosciute dall'evoluzione scientifica del Sistema Telyota. Immaginò i mari di Zeraphia, in balia di quelle maree di cui aveva mai sentito soltanto racconti inafferrabili. In quel pensiero, si trovava nella sua stessa posizione, ma distesa nelle acque chiare di quel paradiso. La sua mente passò agli altri due pianeti del Sistema, non visibili da dove si trovava. Qursao, e Axi'ogou.

Un ricordo si intrufolò nella testa della ragazza, furtivo e senza preavviso. Un altro cielo si sovrappose a quello che la sovrastava, offrendole un'ulteriore prospettiva.

Si vedeva tutto, da sopra la collina della sua memoria. Era il punto dove preferiva andare per osservare la maestosità dello spazio quando era più piccola, sul suo pianeta natale. Qualche nuvoletta viola faceva da cornice al perfetto allineamento delle componenti del Sistema, accompagnate da sprazzi neon non identificati che svolazzavano tutt'intorno. Accanto a lei percepiva il respiro del suo amico cervo alato, frequentatore assiduo della prateria stellare dietro la sua casa. Era tutto così vivo. Se si concentrava, riusciva quasi a sentire l'odore delle piante di quell'ambiente dimenticato, come il gelsomino, che permeava sempre l'atmosfera.

Poi, un battito di ciglia, e tutto se n'era andato. Si tirò su, mettendosi a sedere con le ginocchia sollevate. Con lei, soltanto la fredda aria di Evaris, che le scompigliava i lunghi capelli dietro le spalle. Stette in silenzio. Si asciugò una lacrima invisibile.

Provò a scendere da dove si trovava, ma non appena spostò il peso di qualche centimetro, sentì l'appoggio mancarle. Saltò prontamente, atterrando poco più in là, mentre il tettuccio sfondava dentro la cabina con una cacofonia di scricchiolii.

Prese un secondo per respirare. La nuvoletta di polvere che si alzò dal rottame le tirò fuori una mezza risata. Quella poteva anche essere stato una bella macchina un tempo, una Gradisev di terza generazione, notò, ma non ne era rimasto niente se non un relitto.

Con i residui di un sorriso sulle labbra, Vega si voltò, raddrizzando la postura e sgranchendosi le membra. Cominciò ad incamminarsi, i passi che con le loro scosse rimuovevano dai capelli qualsiasi traccia di ruggine.

Qualche isolato più in là, un ragazzo era appeso con una mano ad un davanzale, e si passava l'altra tra i capelli biondi, controllando di sfuggita che fossero a posto in una delle poche schegge rimaste del vetro di quella finestra. Soddisfatto del proprio operato, fece leva col braccio senza troppa fatica, e cominciò ad arrampicarsi. Non era lontano dalla cima dell'edificio, e avrebbe avuto una migliore visuale da lassù, quindi per una benedetta volta era giustificata, la fatica.

Con un paio di mosse svelte ed esperte, le sue suole atterrarono sulla copertura di metallo, facendo rumore. Strofinandosi le mani sui suoi pantaloni da uniforme militare, sollevò la testa per dare una veloce occhiata a ciò che c'era sotto di lui.

Il tetto era piccolo, e non c'era nulla, neanche un'antenna che lo coprisse. Di sotto, la griglia dei vicoli del Distretto di Bronzo lo faceva sembrare al centro di un labirinto, disperso in mezzo a strade senza sfondo e false uscite. Gli sembrò un posto niente male.

Non c'erano luci artificiali da nessuna parte nelle vicinanze. Anche quello era uno dei divisori più evidenti tra Distretti: in lontananza, quello d'Argento era rischiarato da qualche lampione, mentre quello d'Oro scintillava a giorno, più dietro ancora. Nel frattempo, appena sotto di lui, i viottoli erano illuminati solo da qualche fonte naturale, come una torcia, o un piccolo incendio. Erano frequenti gli incidenti, anche se definirli tali era un'enorme generalizzazione. Molto spesso si trattava di un qualche attentato, un affronto deterrente, una pacifica mossa per dissuadere qualcuno dal fare qualcosa. Solo raramente diventava qualcosa di più di una piccola rappresaglia.

Dietro di lui, distante, sentiva qualche urlo, insieme ad un rumore incessante di passi, ma non si girò per investigare. Anche se sembrava un avvenimento di scala relativamente più larga del solito, non aveva tempo da perdere. E poi, sarebbe stato inutile. Che cosa ne avrebbe guadagnato?

Mentre il suo sguardo continuava a girovagare, la testa seguiva il movimento degli occhi con velocità altrettanto elevata. Era stato convocato da quella donna, come si chiamava? Alma? Ayma? Non se lo ricordava, e non gliene importava di ricordarlo. I contatti erano stati isolati, e spesso erano avvenuti di sfuggita. Gli importava solo di lei. Era l'unico biglietto che aveva racimolato per cercare di raggiungere i suoi scopi. Certo, magari avrebbe fatto una rotta panoramica per arrivare alla sua destinazione, ma era sicuramente meglio che rimanere fermo in quell'angolo dimenticato dal mondo. Nel Distretto d'Oro non poteva entrare, non senza un qualche permesso. Forse non sarebbe neanche stata una mossa particolarmente strategica, dato che aveva appena da poco detto uno spensierato ciao ciao alla sua pattuglia dell'ordine del Tiranno. Non devono averla presa troppo bene, quei babbei, pensò.

E poi, forse non era pronto a rivedere quella casa.

Da qualche minuto, i suoi occhi si erano posati su quel miraggio distante che era il centro di Evaris. Una sola costruzione si stagliava massiccia in quell'esatto punto: la sede del Consiglio Charidio: il palazzo Onira. Fatta di vetro, la sua forma spigolosa, dotata di infiniti angoli e spunzoni irregolari, restituiva la luce dell'area circostante, dove si concentrava una grande quantità di robot sentinella aleggianti. La sua cima dorata, piatta, lanciava un raggio verso l'alto, che si perdeva nel buio di quella corta notte. Una bellezza di lontananza irraggiungibile.

Qualcosa di vicino attirò la sua attenzione, allontanandolo da quella serie di pensieri così distaccati.

Nella strada da cui era partito per salire, niente più di una strettoia, una donna si stava aggrappando con tutte le sue forze ad una specie di borsa, che un altro uomo le aveva evidentemente tentato di sfilare con scarsa abilità. Un sorrisetto si formò sul volto di Mirae, che si mise comodo per osservare meglio la situazione.

«Ti prego, ne ho bisogno! Pensa ai miei figli, ne ho davvero bisogno!» piagnucolava lei. Sembrava che stesse lottando per la sua vita, come se il contenuto di quella sacca fosse di inestimabile valore per lei. Lui, in tutta risposta, diede uno strattone più forte del solito, e riuscì ad impossessarsi dell'oggetto di contesa. Nell'atto sgarbato però, uno degli angoli si strappò, facendo fuoriuscire una cascatella di pietruzze azzurre.

Gli occhi di Mirae si ridussero a due fessure, mentre analizzava attentamente quel flusso. Non c'era dubbio, era una raccolta di marel. Una risorsa tanto redditizia sul mercanto, quanto utile da tenere per sé. Perché quella donna lo avesse, questo lo ignorava, ma sicuramente non lo aveva ottenuto con un'attività particolarmente legale. Su Synfo-Nui era introvabile, e l'unico mandante che lo faceva importare per l'uso settimanalmente erano le fucine del Distretto d'Argento. Un furto? Probabile. Magari necessario, data la disperazione con cui lei aveva cercato invano di difendere quei sassolini.

L'uomo, intanto, si era allontanato immediatamente, incurante della perdita che il suo bottino stava subendo mentre correva impacciato verso l'angolo più vicino. Mirae alzò lo sguardo verso il cielo, calcolando quale fosse l'orario preciso. Se il suo subconscio aveva contato bene, erano passati solo tre minuti da quando Ped era scomparsa. Aveva tempo.

Come se avesse le molle sotto i piedi, scattò in un movimento improvviso, provocando una nuova ondata sonora che spaventò la donna, rimasta da sola a compiangere la sua perdita: alzò lo sguardo impaurita, ma non vide niente: il giovane non c'era più.

Mentre l'uomo correva, Mirae si muoveva con tranquillità sul bordo dei fabbricati diroccati, senza paura di perdere l'equilibrio. Ogni tanto faceva qualche salto, oscillava da tetto a tetto, schivando impedimenti in maniera agile e utilizzando qualunque cosa come strumento a proprio vantaggio.

Sembrava quasi un rapace, che sorvolava la città senza paure o preoccupazioni. Man mano che la velocità aumentava, i salti diventavano più alti e più lunghi, quasi balzi. Era un guizzo, una macchia impossibile da inquadrare per più di qualche secondo. Ogni volta che i suoi piedi si staccavano dalla terraferma, era come un battito d'ali che lo portava più in alto, o, in questo caso, più lontano.

E poi, adocchiata una viuzza minuscola, decise finalmente che era il momento di porre fine a quel volo. Con l'eleganza di un falco reale che piomba sulla preda per poi ripartire in salita, il corpo del giovane si lanciò con una spinta in picchiata, temerario, i piedi che facevano da freno spingendolo verso un muro, verso l'altro, avanti e indietro.

Fu un attimo. All'altezza giusta, una mano di Mirae agguantò il sacchetto, mentre l'altra faceva da perno su un tubo di scappamento orizzontale, rilanciandolo in su. Con la realizzazione di quell'energia potenziale che lo catapultava verso l'alto, non gli ci volle molto a riprendere una posizione favorevole; una presa al muro, un paio di salti, ed era di nuovo sul tetto da cui era sceso. L'uomo non ebbe neanche il tempo di capire cosa fosse appena successo. Tutto ciò che vide fu un lampo di azzurro, un sorriso sbarazzino, e il ricavo delle sue spregevoli azioni si era volatilizzato.

Il ragazzo era già lontano, sacchetto in tasca e respiro già regolare. Quattro minuti. Non male, per essermela presa con calma.

Adesso era veramente giunto il momento di andare, però. Si scrocchiò le dita, e ripartì con la sua corsetta, ad un'andatura più lenta. L'incontro non era lontano, non c'era fretta.

Mancava soltanto qualche isolato, quando un'altra vista lo fece rallentare ulteriormente. Qualcuno, una giovane donna dalla pelle scura, stava camminando nella sua stessa direzione, ormai da un po'. Non le aveva dato peso prima, non si degnava mica di fermarsi per tutto e tutti, quell'uomo era stata un'eccezione, ma adesso anche lei cominciava ad interessarlo. Cosa ci faceva un'Axiogena in quei dintorni? Silenziosamente, con una furtività quasi felina, si lasciò scivolare lungo un tubo pluviale, raggiungendo terra in un attimo. Lei non sembrò accorgersi di niente. Stando attento a non fare rumore e muovendosi nell'ombra, la mente di Mirae continuava a lavorare. La strada che stavano percorrendo era identica. Doveva per forza essere stata convocata insieme a lui. Oltre che la sua natura, che non le avrebbe permesso di passare più di una giornata inosservata là dentro, dall'aspetto non sembrava per niente una regolare: non poteva esserlo, o le sue apparenze non sarebbero state così curate. Nel riflettere, però, si era forse avvicinato un po' troppo alla ragazza, lasciando perdere le precauzioni. Non se n'era ancora accorto, ma lei sembrava essersi resa conto della presenza di qualcuno alle sue spalle, e pareva impaziente di levarselo di torno.

Con un respiro profondo e la mano pronta, Vega si girò, agitando il braccio con precisione letale per assestare un bel colpo a quel tipo fastidioso che continuava a seguirla da almeno mezzo minuto.

I riflessi di Mirae erano come un sesto senso, sempre pronti a risparmiargli una bella manata sul naso, e anche se era parzialmente distratto, riuscirono a risvegliarlo, facendogli schivare il pugno di lato.

Lei non si arrese, tirando in ballo anche l'altro arto superiore, mirando a uno schiaffo in viso. Un po' sciatto per la sua abilità, ma quel tipo l'aveva schivata con una facilità snervante. Ancora una volta, il colpo non andò a segno, bloccato dall'avambraccio sinistro di Mirae. Forse come automatismo, quello stesso suo braccio si mosse verso di lei, per restituirle il tentato favore.

Dal momento in cui partì il contrattacco, quel mezzo diverbio da due soldi diventò una vera e propria lotta. Partì una raffica inarrestabile di colpi da parte di Vega, mentre lui cercava di pararsi da ogni lato. Sembrava essersi resa conto che davanti a lei non c'era soltanto un fastidio, ma un potenziale pericolo. Dopo poco si scambiarono i ruoli: adesso era lui a tentare la sua fortuna, mentre la ragazza sfruttava l'ambiente circostante per difendersi. Nessuno dei due sembrava capace di raggiungere il bersaglio che era l'altro. Troppo veloci l'uno per l'altra, avrebbero già messo gran parte dei combattenti del Pianeta a terra, ma non il loro avversario corrente, e proprio per questo nessuno dei due era intenzionato ad arrendersi.

Vega tentò un calcio alla tempia, ma la mano di Mirae le afferrò il polpaccio, girandolo per farle perdere l'equilibrio. Lei lanciò il suo intero corpo, con tutto il peso, nella direzione opposta del biondo, e riuscì a neutralizzare la presa, rimettendosi in sesto con un'elegante ruota. Lui fischiò, sorpreso. Lei si compiacque un poco, ma aspettò forse un solo attimo di troppo, e il suo avversario fu veloce: passandole sotto con una scivolata improbabile, le prese una gamba, rialzandosi e bloccandola. Adesso la giovane si trovava in una posizione difficile. Aveva una gamba bloccata, sotto il braccio di lui, e si stavano guardando, faccia a faccia.

Forza Vee, hai visto di peggio di questo qua.

Improvvisamente, tentò un calcio con l'altra gamba, rinunciando al suo ultimo appoggio per terra e atterrando alla bell'e meglio. La mossa, però, fu vincente, perché arrivò finalmente a contatto con la guancia del rivale, facendogli lasciare la presa. Si tirò velocemente in piedi, mettendosi in posizione combattiva.

Poi le si attivarono i neuroni, e Vega ci mise poco ad intuire la situazione. Non c'era nessuno in giro a parte loro, in quella zona. Era pur sempre il Distretto di Bronzo, dove la vita usciva fuori di notte, ma quel quartierino completamente distrutto non era interessante nemmeno per gli abitanti del luogo. Doveva essere lì per il suo stesso motivo. Almak le aveva detto che ci sarebbero state altre persone. Si rilassò.

Entrambi ansimanti, carichi di adrenalina, avevano ancora lo sguardo fissato, ma adesso si erano finalmente fermati. Anche lui sciolse l'atteggiamento concentrato, scrollando le spalle e cominciando a sorridere.

«Cazzo se ci sai fare, bellezza» disse quasi ridendo, massaggiandosi il punto colpito.

Lei alzò le sopracciglia, divertita all'assenza completa di filtri, ma non se la prese, anzi. «Ma grazie, caro» replicò. «Anche tu non sei per niente male, sai?».

Lui non perse tempo a rispondere con un perfetto inchino. Quando si tirò su, aveva un'espressione sorniona stampata sul viso. «Spero avremo modo di scontrarci ancora» disse, con gli occhi che gli brillavano. «Poche persone possono affermare di avermi colpito senza ricevere ALMENO una conseguenza terminale».

Lei rise, un bellissimo sorriso, prima di dare una risposta. «Sono certa che ne avremo l'occasione».

Colse la palla al balzo. «Hai un appuntamento qua vicino, non è vero?» domandò. Ne era quasi certa, ma non si sarebbe mai perdonata se avesse portato un nemico al suo ritrovo per errore. «Tombola! Com'era? 'Dove la stella brilla vicina'?» rispose lui, ricordando giocosamente le istruzioni dategli da Almak, le stesse che gli erano parse alquanto idiote, dato che chiunque fosse stato per più di dieci minuti in quelle strade avrebbe saputo decifrarle (o meglio, chiunque con un cervello funzionante — la quantità di decerebrati che giravano era impressionante, ricordò). Nel sentire quelle parole, la giovane poté tirare un sospiro di sollievo. Aveva ragione.

Allungò una mano. «Io sono Vega».

Lui la prese e le fece il baciamano, al che lei scoppiò a ridere sonoramente. Quel tizio era riuscito a irritarla, impegnarla e divertirla nel giro di una decina di minuti. Un record.

Anche lui si presentò, una mano sul petto. «Piacere, Vega. Puoi chiamarmi Mirae». La frase fu accompagnata da un occhiolino, senza il quale forse la presentazione non sarebbe stata completa.

«Quindi... vieni qui spesso?» continuò lui, facendola piegare dal ridere ancora una volta. Beh, almeno capiva l'umorismo quello buono.

Piano piano, come se si conoscessero da tempo, e come se quello fosse soltanto un ritrovo tra vecchi amici piuttosto che un primo incontro, i due si avviarono sulla loro strada.




Quando un fiore viene travasato, e le sue radici si trovano posate in una terra sconosciuta, spesso è facile individuarlo tra la massa. Non importa se è stato ripiantato in natura oppure è finito in un vaso: a confronto con la flora che lo circonda, se ce n'è, sarà sempre diverso in qualche maniera.

Così la fluttuante camminata di Naida formava un contrasto troppo grande per essere descritto con ciò che le si parava davanti e le passava intorno. Sembrava lasciare una scia dietro di sé, come un lungo filo brillante che offriva una qualche forma di calma al cuore di chi la incontrasse. La sua pallida pelle, illuminata solo dalle stelle lontane, mandava bagliori ad ogni suo movimento, un lucernario di purezza che graziava il dolore atroce di quelle strade.

Alla sua destra, un bambino seduto da solo sotto un portico sì girò a guardarla, a bocca aperta. Il candore di quella creatura che gli passava davanti doveva essere un bel salto da ciò che era abituato a vedere: tra aggressioni e brutti ceffi, solitamente preferiva nascondersi dietro la porta scheggiata. Era bella, e niente del suo aspetto sembrava indicare che avesse alcuna cattiva intenzione.

Il piccolo pensò a sua mamma. Forse tra le persone che aveva mai visto solo lei era bella quanto la donna misteriosa che vedeva.

La vide camminare, passargli vicino, lanciargli un sorriso che aveva qualcosa di melancolico, e poi scomparire nel nulla, dietro un angolo.

Naida sentì un brivido correrle lungo la schiena. Non seppe se fosse stata la vista del bambino, o l'oscurità che la aspettava nella strada successiva. Si sentiva in colpa per non aver fatto nulla se non avergli regalato uno sguardo addolorato. Riusciva ancora a vederlo, su quel gradino, da solo, anche se era andata avanti.

Aveva paura? Forse un poco, o forse non propriamente paura, soltanto ansia, apprensione, qualcosa del genere. La combinazione del luogo dov'era e di ciò che doveva fare non era certo rassicurante, almeno non in partenza. Si sentiva una pressione addosso, come se una serra intera le stesse crollando addosso, vetrate, alberi e recinti, tutto insieme. Non la percepiva così forte da tempo, ormai.

Ma quando un fiore è in difficoltà, o ha paura, non può far altro che continuare a fare quello che sa fare meglio: crescere, nella sua normalità alterata. Un girasole continuerà a voltarsi verso il suo punto di riferimento massimo, sempre e comunque, anche se una mano dovesse minacciare di coglierlo. Un ramo d'edera non smetterà di arrampicarsi se un attrezzo cercasse di sradicarlo. Così, Naida non poteva far altro che continuare sul suo sentiero, a dritto. Era l'unico modo che conosceva per insegnare al resto che appassire non era un'opzione, né doveva diventarlo. Se non fosse andata per questa strada, molto probabilmente più persone sarebbero morte. Era l'unica soluzione che conosceva.

Tutto intorno, il Distretto di Bronzo cadeva a pezzi. Legno? Marcio. Metallo? Scalfito. Pietra? Corrosa. Una piccola nuvoletta coprì la parte più luminosa di cielo, e il suo cammino si oscurò. Era adesso completamente al buio, e adesso aveva tutti gli strumenti per capire.

Non provava paura. Quella che sentiva era una sofferenza per le anime di quelle rovine, sofferenza per altri, ma che sentiva sua. Loro stavano male, e lei stava male con loro. Non era neanche una questione specifica, ma una di principio — aveva il sentore che quelle fossero le regolari condizioni del Distretto, nulla di straordinario rispetto alla norma — e questo le alimentava un sentimento indicibile dentro. Aumentò il passo, e la nuvola se ne andò, rischiarandola nuovamente.

Superò un altro incrocio. Nelle orecchie le rimbombò un suono, che non era neanche troppo forte, ma che sentì come se fosse stato a un centimetro dalla sua testa.

Sussultò. Il pianto di una donna.

Fu combattuta per un secondo, nemmeno. Fece dietrofront, tornando all'intersezione per vedere cosa stesse succedendo da dietro lo spigolo.

Una donna era raggomitolata per terra, e singhiozzava a sé stessa, abbracciandosi le ginocchia. I suoi capelli sporchi, distesi, erano incoronati da una miriade di minuscole perline azzurre, sparse disordinatamente il pavimento circostante. La spettatrice sentì una stretta al cuore. Si avvicinò, con cautela. La donna la sentì, ma non si mosse, rimanendo pietrificata dov'era. Lei si sedette per terra, in silenzio, con occhi carichi di pena.

Con una delicatezza amorevole, Naida alzò una mano, e la passò nella chioma della donna, ripetutamente. Fu tentata di usare la sua magia, ma non avrebbe avuto senso; la poveretta soffriva d'animo, non fisicamente, e non sarebbe stata meglio grazie all'arcano. Quella vicinanza era più che sufficiente. Il carburante che dà l'amore è difficile da esaurire.

Passò del tempo. Naida non sapeva quanto. Ad un certo punto si alzò, e diede un'ultima occhiata alla disumana scena che aveva incontrato. Fece per andarsene, ma prima che potesse svoltare strada, sentì una voce flebile e rotta raggiungerla.

«Grazie». Una parola soltanto, un sentimento infinito.

Naida non si voltò. Sentì la serra sopra di lei alleggerirsi, almeno di un po'. Ripartì.




Il ritrovo per la riunione non era molto lontano. Almak aveva suggerito un'ora ed un luogo precisi per scritto, ma aveva chiesto, nel parlato, di usare un'espressione, se qualcuno avesse mai chiesto dove ciascuno dei destinatari era diretto. Chi era della Resistenza avrebbe capito, e in caso contrario avrebbe probabilmente alzato le spalle, credendoli fuori di testa.

Dove la stella brilla vicina.

Un modo semplice per indicare un piccolo crocicchio noto a pochi, immerso nella periferia di Evaris. Dato che aveva sbocco su cinque strade, visto dall'alto pareva una stella stilizzata, dotata di cinque punte di dimensioni diverse. Per quanto riguardava l'orario dell'appuntamento, era sufficiente ricorrere alla logica: le stelle brillano più forte di notte, o perlomeno questo è ciò che noi percepiamo.

In mezzo a quella confluenza di cammini, siedeva una figura, in ginocchio, intenta in un compito difficile da vedere. Il suo corpo, piegato sul terreno, copriva quasi del tutto la sua attività, come l'uomo tende a fare quando cerca di proteggere ciò che ha a cuore da attenzioni straniere. Ogni tanto, i suoi lineamenti si alzavano, pensosi, a lasciarsi illuminare dalla luce naturale che permeava quel crocicchio come un alone. Si guardava intorno, con espressione concentrata, per poi tornare all'opera.

Era in quei momenti che il brillare delle stelle colpiva con indiscrezione la pulita pagina di colore bianco che soggiaceva allə giovanə. Era priva di alcuna deformazione: niente spiegazzature, nessuna macchia o incongruenza erano visibili sulla sua superficie. Quel foglio sembrava avere un valore quasi sacro per ələ suə proprietariə, che lo maneggiava con una cura ed una delicatezza tali da far apparire il suo tocco quasi come fluttuante.

Quella facciata, destinata a qualcuno, era in gran parte riempita da parole, nonostante ci fosse ancora posto per qualche frase. L'incipit, più ordinato rispetto al resto, ed evidentemente più riflettuto, leggeva così;

Cara Skadi,

è passato ancora un altro giorno da quando ci siamo salutati. La fiducia che hai dimostrato nei confronti di Almak è molto forte, e sai quanta ne provo nei tuoi. Penso di essere in buone mani.

Ciò che seguiva era una lunga linea di pensieri dei più disparati, che Faelyan continuava, man mano che gli venivano in mente, a scrivere sul suo prezioso documento. Aveva chiesto come stavano i suoi fratelli, quale fosse la nuova missione dello Xian'hin, e anche di come stesse la comandante in persona. Non voleva sprecare risorse però, e aveva ancora molto da dire, e perciò stava riflettendo su cosa aggiungere là in fondo, negli ultimi spazi rimasti.

E poi, Skadi gli mancava, più di quanto avrebbe voluto ammettere, sia ad altri che a sé stessə. Era la sua famiglia, una delle poche ancore che gli erano rimaste, e non poteva far altro che sperare di rivederla il prima possibile. Non era mai statə lontanə da facce conosciute per così tanto tempo di seguito.

Era anche vero che la sua situazione corrente si era rivelata decisamente migliore di alcune altre del suo passato, ma non riusciva a scrollarsi di dosso quel grave peso di responsabilità che percepiva da quando si era affidato alla guida della Guardia Reale che lo aveva convocato lì quella notte.

Decise finalmente di buttare giù una frase che sentiva il bisogno di espellere dal suo sistema. Sarebbe stato meglio pronunciarla, o ancora meglio urlarla ai quattro venti, ma per il momento trascriverla doveva bastare.

Non so cosa sto facendo.

Era la verità. Stava cercando di non dare a vedere il suo sentirsi un pesce fuor d'acqua, ma stava fallendo miseramente.

Bastava guardare al suo atteggiamento nei confronti dei suoi dintorni. Synfo-Nui era, nella sua città di provenienza, una leggenda urbana, un paradiso terrestre mistico e dolce quanto irraggiungibile per gli abitanti di Qursao. Evaris, nello specifico, era un nome che circolava senza sosta nei viottoli di Lyuk, volando veloce sulle bocche dei bambini dai grandi sogni. Non ricordava molto della sua giovanissima infanzia, ma ricordava benissimo il volto di una delle sue coetanee vicine di casa che si ravvivava notevolmente ogni volta che sussurrava eccitata racconti avventurosi di quella città divisa in Distretti. Non erano poi granché, soltanto aneddoti per sentito dire, ma per le piccole vittime di quella società rovinata erano il miglior carburante per fantasticherie.

Anche lì, per terra nella putrefazione più totale, tra una miriade di schegge, si sarebbe dovutə trovare a suo agio, per quanto possibile; un'altra delle sue sparse memorie era proprio la distruzione della sabbiosa periferia del suo antico passato che ricopriva gli spazi comuni, le strade, le infrastrutture. Ma così non era.

Faelyan rilesse l'ultima frase. C'era qualcosa che non andava, ma non sapeva come aggiustarlo.

Pensò ad Almak. Immagini ələ pervasero la testa. Skadi che stringeva la mano a quella donna, con un grosso sorriso genuino. Lei che ələ faceva salire su un minuscolo satellite per portarlə con sé alla volta della loro temporanea base. La breve esplorazione che avevano condiviso una volta arrivati in quell'area urbana senza paragoni. Il discorso, l'unico, la sola conversazione che avevano avuto.

Non era stato del tutto convinto del piano, all'inizio. Credeva che Skadi avesse una visione non esattamente realistica di Almak, piuttosto una ideale. Non ələ sembrava capace di prodigi particolari, a dire la verità. L'unica caratteristica visibile che suggeriva il contrario era la sua innegabile forza di volontà. Sembrava davvero intenzionata a compiere follie per ciò che credeva giusto. In verità, doveva per forza essere anche ambiziosa. Altrimenti, non avrebbe mai neanche intrapreso l'idea di una rivoluzione così grande. Forse stava ingigantendo pure ləi le cose, o forse l'impegno di quella quasi-sconosciuta era davvero degno di approvazione. Sì, doveva essere questa la verità.

Quando aveva sentito quelle parole, e quella inevitabile somiglianza con la fidata Skadi, si era convintə che non c'era altra strada per ləi da seguire. Dove andare altrimenti? A chi rivolgersi? A nessuno, ecco a chi. L'unico cammino viabile era quello. Cercò affermazioni in sé stessə, e stranamente, le trovò senza grandi fatiche.

L'inchiostro del minuscolo pennino tascabile stava per finire, ma fu lo stesso sufficiente a partorire un messaggio sonoramente più speranzoso rispetto a quello di prima.

Non so cosa sto facendo, ma so che è la cosa giusta.

Annuì, soddisfattə.

Si alzò, il foglio che faceva una leggera guerra alla sua presa, dimenandosi tra le sue dita nella speranza di ottenere la libertà sull'onda della brezza.

Sarebbe bastato un soffio più forte degli altri a farlə volare via, ma qualcosa continuava a tenerlə vivə, in movimento, scaricando adrenalina illimitata nelle sue vene.

Prima di metterlo via, lo piegò due volte, una per lungo e una per largo. Poi lo infilò nella manica, a portata di mano. Finché non fosse arrivatə in un luogo dove avrebbe trovato i mezzi per mandare quel messaggio, intendeva tenerselo stretto al cuore.

Così cominciò, anche per Faelyan, l'attesa. Non che prima non stesse aspettando, ma adesso non aveva più niente da fare per occupare il tempo, se non camminare avanti e indietro, e di nuovo, e ancora, da un angolo all'altro di quel deforme astro cementato. I suoi passi non facevano alcun tipo di rumore, stranamente; forse soltanto un fruscio, provocato dai suoi abiti quando il movimento accellerava o rallentava, ma nessun battito ritmico a indicare la sua presenza. Pareva invisibile, solo un'immagine.

E lo sarebbe voluto diventare, non appena udì il suono inconfondibile di passi puntati su quel terreno artificiale. Erano ordinati, leggeri, ma percepibili, il che significava che chiunque li stesse compiendo era già troppo vicino per i suoi gusti.

Privə di idee sul da farsi, scelse la strada facile. Tra una fuga, sconveniente dato che l'appuntamento era vicino, e un nascondiglio, l'ultima opzione era la più accessibile. Imboccò appena una delle cinque vie, oscurata più delle altre dall'altezza del palazzo che la sovrastava. I suoi lineamenti, nel buio, erano tesi, un'espressione di attenzione e concentrazione complete. La sua nuca assorbiva, nel mentre, il freddo che il metallo dietro di ləi irradiava, lanciando brividi lungo tutta la lunghezza del suo corpo. Il cuore batteva più forte di prima, e il respiro trattenuto desiderava soltanto rompere quella barriera impostagli e lasciare che l'aria riempisse di nuovo i polmoni ormai esalanti.

Una figura angelica si faceva strada con eleganza verso il centro di quell'incrocio, ad una velocità rilassata. Là in mezzo, la luce proveniente dalle stelle sembrava concentrarsi in un unico grande raggio di luce, che la inondò senza pudore nel momento in cui arrestò la sua camminata nel punto di convergenza di tutte quelle strade. C'era qualcosa di magico nell'aria, di surrealmente bello. Troppo bello, per quel luogo. La polvere che impregnava l'atmosfera assumeva le sembianze di briciole di stella attorno a quello spettacolo di splendore, vorticando attorno alla sconosciuta. Lucciole in cerca di compagnia, si incrociavano e ritrovavano in maniera aleatoria, creandole una lieve nube lucente attorno.

Faelyan, sorpresə da quanto la persona fosse diversa dalle sue subconsce aspettative, fece un passo fuori dall'ombra, dubbiosə, per cercare di rubare un'occhiata più dettagliata di lei e capire cosa ci facesse là, ma nel fare ciò, attirò immediatamente l'attenzione della donna, i cui occhi scattarono ad incontrare i suoi.

Naida pensava di essere sola, ma a quanto pareva non era così. Il suo movimento fu improvviso, voltò di scatto con la testa, girandosi verso l'individuo che era spuntato dall'oscurità. Quando lo vide, però, non si ritrasse, rilassando le spalle. Non le pareva pericoloso, men che meno aggressivo, perciò non vedeva alcuna minaccia alla sua sicurezza nell'avvicinarlo un poco.

«Ciao», lo salutò con semplicità, come se stesse parlando ad un bambino. Le pareva recidivo, e partire con una domanda sarebbe stata una mossa troppo diretta.

Ləi non rispose, ritirandosi nella sua condizione di isolamento. Non sapeva cosa ci facesse quella donna lì. Almak ələ aveva detto che ci sarebbero state altre persone all'incontro, ma non aveva offerto né nomi né descrizioni. Era probabile che lei fosse una dei convocati, ma anche se lo fosse Fae non aveva una particolare voglia di interagirci. Senza alcun riferimento noto (ed Almak lo sarebbe stato, per quanto la conoscesse da poco) si sentiva alquanto spaesatə.

«Stai aspettando Almak, vero?» chiese Naida con tono leggero mentre si guardava intorno, confermando a sé stessa di essere nel luogo giusto.

Ah. Dunque era veramente lì per il suo stesso motivo. Per non sembrare scortese, senza però addentrarsi troppo in una possibile conversazione, annuì quasi impercettibilmente.

Lei sorrise. «Io sono Naida».

Non allungò la mano, né fece capire, neanche in modo sottinteso, che pretendeva una risposta. Ələ offrì invece un piccolo sorriso gentile. Faelyan si sentì subito meglio. Sembrava una persona sensibile, la sconosciuta, e questo non poteva far altro che rassicurarlə.

In sottofondo, si accesero come dal nulla dei suoni smorzati di lotta. Qualcuno stava combattendo. Colpi, qualche grido, impatti ripetuti si propagavano nell'aria, provenienti da poco distante. Il nervosismo di Faelyan salì nuovamente.

Non sei al sicuro.

Eccola, la vocina. Per una volta che non si era fatta sentire per un po', sperava che si fosse presa una pausa. E invece era di nuovo lì.

Poi i rumori si interruppero, e con loro l'eco nella sua testa. Adesso, l'unica cosa che si sentiva era una risata cristallina. Ləi e Naida si scambiarono uno sguardo, prima di voltarsi verso la fonte del clamore.

In fondo alla strada più stretta delle circostanti, orientata verso ovest, due persone si stavano avvicinando con fare disinvolto mentre continuavano a parlare fra di loro, scoppiando occasionalmente in una risata condivisa.

Del duo fermo a contemplarli, nessuno parlò, e nessuno fece alcun cenno per farsi notare. Aspettarono semplicemente finché gli altri due non fossero abbastanza vicini da essere sentiti.

«...e poi parliamone, onestamente. Il tuo pugno è potente, bello, ma nulla di impossibile da evitare».

«Senti lì! La signorina ti-calcio-anche-senza-piedi-per-terra ci va giù duro con i commenti».

«Non è colpa mia se ho allenato tanto la mia agilità. Mi pare normale che io riesca a tirare fuori mosse un po' più interessanti e, non ti offendere, decisamente più forti delle tue senza neanche sforzarmi troppo. Te l'hanno mai detto che se alleni solo i muscoli e non i riflessi finisci a terra prima di riuscire a ribattere anche solo una volta?».

«Sì, sì, va bene, quello che vuoi. Ma sappi che è andata così soltanto perché non mi hai neanche dato la chance di risponderti. Guarda che anche la mia di agilità non va sottovalutata, mi ci vorrebbero meno di trenta secondi per batterti».

«Uh-uh, certo. Che carino che sei».

Mirae stava per ribattere ancora una volta, quando lui e Vega giunsero finalmente alla destinazione, dove lo scambio di botta e risposta si arrestò bruscamente. L'interesse di Mirae verso le persone che stavano immobili come statuine in quella circoscrizione aveva improvvisamente superato quello nei confronti della discussione in corso, e la sua risposta in quello scambio non sarebbe mai arrivata. I suoi occhi erano ormai impegnati ad analizzare a fondo chi si trovava davanti.

La sua espressione era temporaneamente fossilizzata su quel suo piccolo sorriso divertito, anche mentre osservava da cima in fondo la figura di Faelyan. Era belloccio, gli pareva, e, cosa ancora più spassosa, sembrava spaventato. Osservò la sua tenuta scura, chiaramente indicativa di un passato militare: doveva essere stato un mercenario di qualche tipo, perché non c'era traccia di emblemi. Quel pensiero faceva quasi un po' ridere, in realtà. Dal suo atteggiamento sembrava soltanto un ragazzino che desiderava più di ogni altra cosa tornare a casa. Di certo non pareva aggressivo, figuriamoci pericoloso.

Quando ritenne di averlo investigato abbastanza a lungo, il suo sguardo si posò sull'amabile aspetto di Naida. Il suo occhio sembrava averla inconsciamente evitata il più a lungo possibile, ma ora che era finalmente arrivato il momento di rivolgerle l'attenzione, si forzò a volgersi in quella direzione.

E, come il suo spirito si era aspettato, gli si fermò il respiro per un attimo, lasciandolo a bocca aperta.

La carnagione della donna era chiara, luminescente. Era eterea, con quei grandi occhi azzurri fissi ma privi di durezza nella loro tinta marina. Lungo i lati del collo, delle piccole fessure spuntavano dalla copertura mediocre che offriva il suo fazzoletto legato in modo preciso, a confermare ciò che la sua apparenza tradiva forse troppo esplicitamente per quei dintorni.

L'occhiata che le rivolse si interruppe molto presto. Qualcosa gli faceva male, e non era la tempia colpita da Vega poco prima.

Quella serata si stava confermando insolita. Era passato dalla quotidiana adrenalina della malefatta, al divertimento del combattere contro l'Axiogena accanto a lui, e poi quella sensazione. Non la provava da molto tempo, ma non gli era mancata affatto.

Vega si accorse immediatamente del fatto che il comportamento di Mirae in quell'attimo fosse insolito, considerato come le si era appena presentato, a fuoco e scintille. Non riuscendo a caperne il motivo, pensò semplicemente che avesse visto qualcosa di suo gradimento. Gli tirò una gomitatina nel fianco, come a risvegliarlo, e lui si riscosse, scuotendo la testa.

Lei, invece, era alquanto eccitata al pensiero di conoscere quei due individui. Sembravano così... interessanti! E poi erano sicuramente lì per il loro stesso motivo. Non aveva incontrato nessuno, se non il biondino, per più di qualche centinaio di metri a quella parte. Senza pensarci due volte si affrettò ad avvicinarsi velocemente, con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.

«Ciao!» salutò, offrendo una mano ciascuno contemporaneamente. «Io sono Vega!».

Naida la accettò senza opporsi, come se fosse, nella sua testa, sulla stessa lunghezza d'onda della ragazza. Le regalò un'espressione dolce, e rispose al gesto con un'eleganza insolita, pronunciando il proprio nome. Invece, ələ ragazzə accanto a lei non era così convintə. Eppure prima o poi ələ sarebbe comunque toccato presentarsi.

«Faelyan» rispose piano semplicemente, stringendo la mano della ragazza per qualche secondo, prima di ritrarre subito la propria. Aveva una stretta forte, notò Vega prima di proseguire.

«E quello» si voltò, «è Mirae».

Il biondo si avvicinò. «Adesso ti presenti pure al posto mio? Sei incorreggibile» affermò ridacchiando. Vega alzò gli occhi al cielo, fingendosi offesa, ma sulle sue labbra c'era un sorriso traditore. Si stava divertendo un mondo.

Gli occhi dei quattro si incrociarono in silenzio, scrutandosi ognuno alla propria maniera: chi con curiosità, chi con diffidenza, chi assorto e chi attento. Era come se nessuno sapesse cosa dire, neanche i più loquaci, e quel silenzio fosse un po' una pausa di riflessione collettiva.

Non ci fu bisogno che nessuno dicesse nulla, però, perché da dietro un angolo, come se fosse stata là da molto tempo, spunto Almak, frettolosa ma composta. La sua espressione era tesa, ma non appena vide che c'erano tutti, sembrò rilassarsi.

Non uno dei presenti parlò alla sua apparizione, ma la osservarono raggiungerli sveltamente prima di fermarsi in loro prossimità.

Il clima, da alleggerito, sembrò appesantirsi di nuovo.

«Buonasera» esordì la donna, mostrando in modo implicito con un'espressione assimilabile ad un'ombra di sorriso la sua gratitudine per la loro presenza. Il fatto che fossero tutti lì significava tanto per lei.

«Spero vi siate già presentati» disse, a mo' di domanda retorica. Vega voleva dire qualcosa, forse rispondere, e aprì la bocca per farlo, ma bastò uno sguardo di Almak per farle mantenere il silenzio.

«Sono sicura che avrete delle domande» proseguì, guardandoli ad uno ad uno. Aveva soltanto spiegato loro qualche dettaglio, l'impresa-scheletro, ma finché non era stata sicura di metterla in atto aveva preferito evitare troppi passaggi di informazione. Ora, però, era giunto il momento.

«Non abbiamo molto tempo, e vi pregherò di pormele tutte dopo, quando ne avremo occasione. Per il momento vi dirò soltanto l'essenziale».

Senza attendere altro, cominciò. «Come tutti sapete, siete stati convocati qui per un motivo. Ognuno di voi è qui perché possiede qualcosa, qualcosa di valore inestimabile. Un talento, un'abilità, qualcosa che vi distingue dal resto dei rimasti. Quel qualcosa è prezioso» disse. Ma questo lo sapevano già. Decise di non girare attorno al punto, e di colpire il bersaglio con un colpo diretto.

Il gruppo si mise in posizione d'ascolto. Mirae si accovacciò, Faelyan incrociò le braccia, Naida prese un respiro profondo e Vega assottigliò gli occhi.

«Siete qui perché qualcosa è cambiato» affermò, guardandoli negli occhi per qualche secondo ciascuno. «Lo so che lo percepite anche voi».

Erano tutti così diversi, ma c'era qualcosa che li accomunava in quell'attimo. Una vulnerabilità, forse, non sapeva bene.

Con un ampio gesto, indirizzò la loro attenzione agli edifici che li circondavano. Non una lampada o fuoco erano accesi. Nessuna presenza. «Guardate queste strade. Fino a qualche mese fa, erano piene zeppe di gente. Adesso non c'è neanche una sola persona».

Almak prese un respiro profondo, ma continuò con lo stesso tono austero di prima. «C'è una presenza che aleggia, in giro, un po' ovunque. Non piace a nessuno pronunciarne il nome, ma se non lo facciamo noi allora chi, giusto?».

«Il Tiranno».

«Ci sono addirittura varie ipotesi che girano sul suo conto, ma non sono altro che vociferi. C'è chi dice che sia la prole di Krupta, finalmente risvegliata, alcuni invece accusano gli altri pianeti giusto per sentirsi anche solo un poco più sicuri».

Sbuffò. «Tutte cazzate».

«C'è qualcuno, di cui non si sa nulla, che è avido di potere, e non ha paura di dimostrarlo. Sono anni che si aggira nel Sistema, e sono sicura che qualcuno di voi debba essercisi scontrato almeno una volta, ma in questo momento non è importante. Non importa quale sia il potere che voglia, lo ricerca da tempo senza alcun tipo di scrupolo. E adesso, si è finalmente fatto quella pubblicità spudorata che serviva a prendere il controllo di uno dei centri più importanti».

«Nessuno l'ha mai visto» disse, e in quel momento, se non si fosse trattenuta, sarebbe partita con uno sproloquio carico di veleno quanto il morso di un serpente. Che scegliesse il nome che gli pareva, e mettesse le maschere che desiderava. Sarebbe solo rimasto una creatura schifosa.

Ricomponendosi, mise in mostra ancora una volta un'espressione ferma, in modo da stressare ulteriormente le sue parole. «C'è qualcosa di strano in corso. Qualcosa di incomprensibile. Un nessuno senza volto che dal nulla raccoglie un'approvazione senza precedenti, predicando solo odio, paura, rancore? Ha accumulato abbastanza potere da fare quello che nessuno in passato è mai riuscito a fare».

«Ha rotto l'equilibrio politico del Sistema».

«Lasciate che vi racconti una storia» proseguì. Sapeva che tutti loro già la conoscessero; aveva corrisposto, o parlato di persona, con ognuno di loro nell'ultimo periodo, e aveva già riportato i fatti accaduti, anche prima che diventassero di dominio pubblico.

«Due settimane fa, la Casa Reale aveva programmato un grosso evento sociale, forse per cercare di deviare l'attenzione da questo grosso neo che era l'opposizione popolare insorta recentemente — già a quel punto molti, in queste zone, erano stati portati dalla parte del Tiranno, che fossero costretti o consenzienti, ma lì per lì quello era ancora soltanto un dato fastidioso, nulla di preoccupante. Il re Huls, insomma, aveva annunciato la celebrazione del matrimonio della principessa Nerissa, che si sarebbe svolto in piazza. Dal nulla, però, arrivò una soffiata, cominciò a girare una voce, che diceva che sarebbe successo qualcosa di brutto durante l'evento, probabilmente un'azione di natura politica. Allora l'annuncio venne ritratto, e si decise di celebrare invece con una piccola cerimonia privata nel salone, riservata ad ospiti selezionati».

«Quel giorno, nel palazzo dalla sicurezza blindata, l'intera famiglia reale, insieme a tutti gli invitati, è stata trucidata. Non è rimasto nessun testimone: non una guardia, non un servo. Tutti morti. Due ore dopo la notizia, sette dei nove membri del Consiglio Charidio hanno pubblicamente annunciato che supportano in tutto 'il Tiranno e la sua avanzata ideologia sociale'. Degli altri due non si sa ancora nulla».

La tensione era palpabile.

«Vi avevo detto, quando vi ho reclutato, che avrei avuto bisogno di voi per un viaggio». Si accorse del fatto che forse non era la parola adatta, e decise di correggersi. «Un viaggio con qualche clausola, certo. Non si tratta di una gita o di una scorribanda» ricordò.

Almak si prese una piccola pausa prima di cominciare la sua conclusione.

Faelyan non pensava, perché aveva paura che se l'avesse fatto, la sua compagna vocina nella testa avrebbe preso il sopravvento.

Mirae si passò una mano fra i capelli che già perfettamente gli incorniciavano il viso. Aveva un'espressione indecifrabile, che spaziava dal divertimento all'attenzione più totale.

Vega era seria come nessuno poteva affermare di averla vista in molto tempo. Non aveva un sorriso, e neanche un'espressione tranquilla, ma i suoi occhi erano là, fissi, presenti.

Naida sentiva lo sguardo venire coperto da lacrime al pensiero del dolore che doveva aver sentito il bene in quella città. Un momento di felicità come un matrimonio, l'amore, che veniva sopraffatto da un odio così grande. Non riusciva a spiegarselo se non con la crudeltà, che le faceva paura quanto ribrezzo.

La voce di Almak interruppe il volo di ogni pensiero.

«Voglio ricordarvi che questa è una scelta. Non vi sto costringendo né imponendo niente: la decisione sta a voi. Sappiate però che se anche soltanto uno di voi si tirerà indietro, non ci sarà nessuna partenza. Ho bisogno di ciascuno per poter proseguire con un'impresa di questa portata».

Sembrava che avesse finito, ma riaprì la bocca per dire una sola cosa finale. «Lungi da me influenzare la vostra posizione... ma vorrei aggiungere un'ultima cosa». Esitò, come raramente faceva.

«Una saggia donna mi ha detto, una volta» dichiarò, «che la speranza è l'ultima a morire».

«Se guardandovi intorno non la vedete» parlò, prima di interrompersi per un attimo, il silenzio dopo le parole che rimbombava assordante, «significa che siete voi l'ultima spiaggia».











A / N

CUORI STELLE MIE.

c'è un motivo per cui è tutto così descrittivo... c'è un motivo per cui lo volevo solenne. scoprirete (questo e tante altre cose)

DITEMI SE VI È PIACIUTO, SE HO SCRITTO BENE/MALE I VOSTRI PERSONAGGI E IMPRESSIONI. VI PREGO DAVVERO DITEMI QUALUNQUE PENSIERO.

contate anche che doveva esserci una roba in più (due robe in più) ma sarebbe stato troppo lungo e mi parevano di troppo.

PERDONATE ERRORI E RIPETIZIONI SE CI SONO, HO APPENA CERCATO DI LEVARLE TUTTE MA PER FARE VELOCE POTREI AVERNE PERSA QUALCUNA.

VI AMO

IT'S HERE

IT'S STARTING

AAAAAAAAAAAAAAAAA


GABE

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