| 𝐞𝐦𝐦𝐚






















──── 𝐧𝐨𝐭𝐞 𝐚𝐮𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞
Parto dal presupposto che questa oneshot è lunga, parecchio. Credo di non aver mai scritto così tanto in tutta la mia vita, quindi mettetevi comodi. È anche molto "intensa" - per così dire - e in qualche modo personale.
Io ne sono veramente soddisfatta, non scrivevo così da parecchio e mi sembra di essere tornata ai vecchi tempi (good old days vibes).
Spero piaccia anche a voi,
Laura.















› 𝐞𝐦𝐦𝐚 : solitudine.





C'erano tante cose che Emma non sopportava della sua vita, ma le lezioni all'università di lunedì pomeriggio erano sempre state al primo posto della sua classifica. Almeno fino al giorno dopo, quando intavolava una discussione con i suoi o litigava con le sue amiche per futili sciocchezze. Allora, lì, le priorità cambiavano e la classifica si aggiornava.

Le lezioni all'università di pomeriggio, però, erano davvero snervanti e neanche tutte le sigarette che fumava nelle pause che si concedeva praticamente ogni trenta minuti, riuscivano a calmarla e a far sembrare quella giornata meno di merda. Ma infondo, come si può trasformare un lunedì in una bella giornata? Praticamente impossibile. Neanche quando il suo compleanno ricadeva in quel giorno della settimana riusciva a farselo andare giù.

Ma, come dicevamo prima, c'erano anche tante altre cose che a Emma proprio non andavano giù della sua vita. In primis, il rapporto con i suoi genitori. Emma aveva vent'anni ed un temperamento vispo costante. Aveva il cervello più maturo di qualche anno e i bronci sulle labbra che la facevano sembrare una bambina. Ma soprattutto, Emma era testarda. Da morire. E suo padre e sua madre non si dimenticavano mai di farglielo notare, ogni giorno, con un certo fastidio nella voce. Come a dire cambia, Emma, che non vai più bene. E allora la ragazza si chiedeva se per loro fosse mai andata bene veramente.

L'altra cosa che proprio non sopportava della sua vita, era la facilità con cui lei e le sue amiche riuscivano a litigare - per piccole stronzate - e a trasformare il niente in un tutto catastrofico e devastante. Perché Emma, a Lea e Cara, voleva così tanto bene che a volte le scoppiava il cuore. Si conoscevano da quando erano bambine e, da che si ricorda, erano sempre state solo loro tre. Considerarle amiche sarebbe stato riduttivo, migliori amiche anche di più. Loro erano sorelle, ma anche quello spesso sembrava non bastare per descrivere tutto quello che erano. Emma era figlia unica e da tutta la vita aveva sempre contato solo e soltanto su di loro. Non su sua madre, non su suo padre. Solo e soltanto su di loro.

Quindi, quando quel tutto veniva riempito di crepe da una parola sbagliata, un gesto poco coscienzioso o una stupida gelosia, a Emma si spezzava il cuore. Come potevano loro ridurre tutto a questo? Come potevano sgretolarsi sempre di più. Emma se le sentiva scivolare via dalle mani come granelli di sabbia mentre una strana sensazione di solitudine le squarciava le membra.

Perché Emma, senza di loro, era sola al mondo.

E qui, viene fuori la quarta cosa che Emma odiava della sua vita: quel senso di solitudine che l'accompagnava da quando era una bambina. Perché si era così tanto affidata agli altri da dimenticarsi di mettere al primo posto se stessa. Di proteggersi in caso di urto, di sapersi bastare da sola, di non avere paura del buio che accompagna la solitudine. Di essere solo Emma.

Ma l'apice della solitudine le aveva attanagliato le membra quando, pochi mesi prima, l'unico ragazzo della sua vita - l'unico in grado di smuoverla dal torpore della sua routine - si era allontanato da lei, per sempre. E lei, era stata troppo testarda per combattere, per sentirsi abbastanza, per riprenderselo. L'aveva lasciato scivolare dalle sue mani senza rendersi conto che lui avrebbe solo voluto vederle addosso la determinazione di tenerlo stretto. Non c'era riuscita. Era stata una vigliacca e adesso il letto era sempre un po' più freddo da quando il suo calore non c'era più. Le giornate erano sempre un po' più nere, il suo umore sempre più sotto le scarpe e il lunedì faceva sempre un po' più schifo.

Le strade di Londra alle otto di sera erano ancora abbastanza affollate e trafficate, come fossero state le otto di mattina. Emma camminava con le mani infilate dentro le tasche di un cappotto color grano e gli occhi puntati sulle punte delle sue scarpe. Aveva sempre avuto il vizio di non guardare avanti, di non vedere cosa la circondava. Lei guardava giù, controllava che i suoi piedi fossero ancora in grado di muoversi, di portarla nella direzione giusta - nonostante sentisse le gambe cedere, a volte intorpidite dal freddo, a volte solo troppo deboli.

Aveva le cuffie nelle orecchie, dove una canzone di Travis Scott le faceva esplodere i timpani a tutto volume distraendola dai pensieri che le affollavano la testa e non si decidevano a lasciarla andare. Muoveva appena la testa, a seguire il ritmo di Butterfly Effect, mentre le labbra mimavano impercettibilmente parole di cui non arrivava il suono.

Faceva un po' freddo, il vento d'inizio Novembre le sbatteva contro il viso arrossandole le guance e rendendo la pelle candida sempre più screpolata e sensibile. Anche le labbra iniziavano a patire le prime temperature invernali e lei aveva dovuto subito ricorrere ad un po' di burro di cacao prima di ritrovarle spaccate in più punti.

Con il passo veloce di chi è da solo e vuole scappare dalla realtà, camminava fra i passanti con il bisogno di arrivare presto alla fermata della metro. In realtà, non aveva voglia di tornare a casa, ma neanche di subire tutto quel freddo senza - evidentemente - un equipaggiamento adatto per combatterlo. Infatti, sin da quando era uscita da casa, si era pentita di aver scelto una leggera maglietta bianca da infilare all'interno di una gonna a scacchi. Sì, c'era il cappotto e c'erano pure le calze pesanti, ma quello non era comunque un abbigliamento così adatto per il freddo che faceva a Londra.

Quando con la coda dell'occhio incrociò la familiare insegna della metro Russel Square non si trattenne dallo sbuffare un piccolo sospiro di sollievo. Anche perché, cominciava a perdere la sensibilità alle dita delle mani. Non aveva la forza neanche di cambiare canzone, anche se di sentire una vecchia hit di Lady Gaga, al momento, non aveva tanta voglia. Ma dovette accontentarsi.

Scese velocemente le scale della metropolitana ricevendo giusto qualche spinta da chi, come lei, aveva fretta e che si dirigeva nella direzione opposta. Quando arrivò alla banchina, per aggiungere un pizzico di negatività a quel lunedì pomeriggio, si vide sfilare davanti la metro che - guarda caso - era proprio quella che doveva prendere.

Gonfiò le guance come una bambina prima di sbuffare rumorosamente, la mano destra che innervosita si era tolta dal riparo della tasca per cambiare finalmente canzone. Non appena Emma sentì le prime note di Blow Your Mind partire dalle cuffiette, si sentì subito più rilassata. Arresa al fatto di dover aspettare almeno cinque minuti - questo è quello che diceva il tabellone - individuò un posto libero accanto ad una coppia di signori anziani e si affrettò ad occuparlo prima di un ragazzo che, le sembrava, non aveva più di quindi anni. Colpevole, gli sorrise guadagnandosi un'occhiataccia da parte sua.

Con una scrollata di spalle smise di prestare attenzione al ragazzo, appoggiando le spalle contro il muro un po' umido della metro ed iniziando a battere il piede destro a ritmo della canzone. Ogni tanto, lanciava occhiate impazienti al tabellone senza però trarne alcun beneficio: i minuti scorrevano lenti e la metro non sarebbe arrivata prima che ne fossero passati almeno altri tre. Ennesimo sbuffo.

Quando la metro decise finalmente di farsi viva sulle rotaie della stazione di Russel Square - non senza qualche minuto di ritardo - la banchina si era decisamente affollata di più ed Emma stava letteralmente odiando la calca che si stava formando per entrare fra le porte. Rimase in disparte dando modo alle persone più frettolose di salire, per poi appoggiarsi contro la porta senza neanche cercare un posto libero. Tanto era inutile.

Nelle cuffie c'era ancora un'altra canzone a farle compagnia mentre i suoi occhi vagano fra le persone che occupavano la metro. Tutti i posti erano presi, c'era qualcuno in piedi come lei ma, per il resto, non era così affollata come altre volte in cui, davvero, non riusciva neanche a respirare. Questa piccola considerazione riuscì a farle almeno vedere un po' di positivo in tutto quel nero.

Ma la sua temporanea ed effimera positività venne presto spazzata via quando, nel suo campo visivo, si palesò l'immagine di una giovane coppietta. Emma puntò lo sguardo su di loro senza preoccuparsi minimamente di risultare invadente, i due - comunque - erano impegnati a fare altro e di sicuro non si stavano preoccupando delle sue occhiate. Agli occhi di Emma, quei ragazzi sembravano avere più o meno la sua età, qualcosa di più qualcosa di meno. Il ragazzo teneva un braccio incastrato fra il sedile e le spalle di lei, il viso accostato verso il suo collo, a sussurrarle qualcosa che ad Emma non era dovuto sapere, e le labbra piegate in un sorriso genuino che - a quanto pare - stava facendo sorridere anche la vecchia signora seduta proprio di fronte a loro. La ragazza, dal canto suo, era quasi del tutto rannicchiata contro di lui, le mani che fingevano di sfiorare casualmente la coscia del ragazzo e gli occhi pieni di una luce che ad Emma sembrava così familiare.

Tutto d'un tratto, il suo viso, aveva assunto un'espressione seria. Tanto seria quanto la morsa che le aveva attanagliato lo stomaco. Sentiva il cuore accelerare di battiti, lo sentiva rimbombare nelle orecchie, lì dove neanche le note della canzone riuscivano più ad arrivare. Emma era totalmente ed inesorabilmente presa da quella scena.

Ma lei non sorrideva come quella vecchia signora, non ne era intenerita. Si stupì, piuttosto, di esserne gelosa, invidiosa. La realizzazione delle sue sensazione la fece sussultare appena. Gli occhi erano ancora incollati su di loro, le labbra tremavano un po' e non per il freddo, il cuore non cessava la sua corsa infinita.

La ragazza si voltò verso di lei giusto in tempo per sentire la voce meccanica della metro annunciare la sua fermata. Emma indietreggiò come scottata da una fiamma invisibile, quasi inciampò sui suoi stessi piedi sentendo, vagamente, la mano di qualcuno reggerla per la schiena. Si voltò di scatto incontrando gli occhi di un uomo dell'età di suo padre che la guardava con una vaga preoccupazione. Non riuscì neanche a sorridergli, semplicemente gli voltò le spalle incespicando ancora un po' sui suoi passi e fuggendo letteralmente dalla metro.

Il cuore ancora batteva, questa volta forse per la consapevolezza di essere stata vista ad osservare una scena di un'intimità che non era la sua. Ma poco le importava adesso, voleva solo mettere quanta più distanza fra lei e le sensazioni che quella scena aveva rievocato nella sua testa, nel suo cuore, nei suoi ricordi. Quello che aveva fatto scattare.

Risalì le scale della metro in fretta, permettendosi di respirare di nuovo solo quando si ritrovò catapultata nel caos di Piccadilly Circus. In qualche modo, quel via vai caotico, quelle luci, quei rumori, riuscirono ad infonderle un senso di sicurezza. Ci si sente meno soli quando si è fra la gente. E per Emma, quella era l'unica consolazione che riusciva a farla stare a galla.

Riprese a camminare mentre sentiva i battiti del suo cuore tornare ad un ritmo normale, il respiro non era più affaticato e lei sentiva il bisogno di accendersi una sigaretta - anche se presto sarebbe tornata a casa, anche se i suoi non dovevano saperlo. Frugò nella tasca del suo cappotto tirando fuori una Marlboro stropicciata e un accendino rosso fuoco. Non appena la fiamma iniziò a bruciare la carta, lei si sentì subito meglio. Stringeva il filtro fra il pollice e l'indice con un'intensità che quasi la spaventava. Le boccate di fumo che prendeva erano più efficaci di quelle d'ossigeno che era costretta a prendere. Piano piano, si stava rilassando.

Ma un pensiero fastidioso ancora le frullava nella testa e non c'era nessuna canzone della sua playlist da cinquecento brani in grado di farle smettere di pensare a Chase.

Improvvisamente, si fermò. Arrestò i suoi passi esattamente in mezzo al marciapiede. Almeno cinque persone le vennero addosso in malo modo, lanciandole imprecazioni addosso. Ma lei aveva ancora le cuffie nelle orecchie e nessuna intenzione di starli ad ascoltare. In più, non aveva neanche idea di che cosa stesse facendo in mezzo alla strada. Aveva solo sentito il bisogno di fermarsi, di frenare i suoi pensieri, di smettere di fingere di avere un posto felice dove tornare, di respirare.

Sentì gli occhi pizzicare per un secondo e si diede della stupida, mentre un piccolo broncio - il solito - le si formava sulle labbra. Allora riprese a camminare, ma questa volta con meno fretta, senza meta. Non sarebbe tornata a casa per ora. Si allontanò dal caos di Piccadilly Circus e si rilassò solo quando i rumori cominciarono a diminuire insieme alle persone.

Adocchiò una panchina libera su una delle vie secondarie del centro e vi si sedette decisa. Si tolse le cuffiette dalle orecchie e il mondo ricominciò a prendere vita. La sua bolla scoppiò e lei si sentì solo più vulnerabile. Prese un grande respiro e un'altra sigaretta dalla tasca.

Staccò le cuffie dal telefono e rimase a guardarlo per interminabili secondi, i denti affondati nel labbro inferiore e una crescente e devastante sensazione ad attanagliarle il petto. Infilò le cuffie nella borsa e strinse con entrambe le mani il telefono, le nocche bianche per la presa e per il freddo.

Mosse il pollice sullo schermo del suo vecchio IPhone cliccando sulla casella dei contatti. Automaticamente i suoi movimenti la portarono ad evidenziare un contatto in particolare: non c'era nome, solo l'emoticon di un cuore spezzato.

Trattenne il fiato mentre la sigaretta si consumava un po' nei suoi polmoni e un po' nell'aria. Smise di respirare per qualche secondo, e di pensare. Poi cliccò sul contatto ed avviò la chiamata con il cuore che aveva ripreso a martellare prepotente contro la gabbia toracica.

Ogni squillo che sentiva rimbombare nella orecchie era una piccola stilettata al petto, un buco nello stomaco che diventava sempre più una voragine. Ne servirono esattamente cinque - lunghi e pietosi - prima che, al di là del telefono, qualcuno rispondesse.

«Pronto?» Quella che rispose, però, non era affatto la voce di Chase. Era una voce femminile, a tratti stridula, mischiata ad una risata cristallina che le si disintegrò addosso.

Rimase in silenzio, il labbro che aveva ripreso a tremare e gli occhi fissi su un tombino poco distante. Inerme mentre sentiva il petto esplodere in tanti piccoli pezzi, vetri che si espandevano in tutto il corpo. Una scarica di brividi la percorse tutta facendole mancare il respiro, di nuovo.

Attaccò nell'esatto momento in cui la voce femminile si faceva sentire di nuovo - questa volta un po' più stranita per non aver ricevuto nessuna risposta.

Emma rimase con il telefono fra le mani, lo stava letteralmente stritolando, e la sua anima sciupata che aveva perso un'altra tonalità di colore. Non si ricordava quanto facesse male. Non ricordava quanto facesse male pensare a Chase.

Non volle neanche ipotizzare a chi apparteneva quella voce, in quel momento voleva solo dimenticare. Rimase seduta sulla panchina ancora per un po' perché di andare a casa non aveva ancora voglia, di conforto invece si. Ma aveva litigato con Lea e Cara quello stesso pomeriggio e il suo orgoglio ferito non le permetteva di mandare loro un messaggio per farsi raccogliere i cocci del cuore.

Una vibrazione catturò la sua attenzione, gli occhi scivolarono sullo schermo con foga, la presa aumentò sul telefono. Sullo schermo, lampeggiava in modo chiaro quel cuore rotto così simile al suo. Non rispose.

Si alzò in piedi dopo pochi secondi, instabile sulle sue stesse gambe intorpidite dal freddo. Non aveva neanche più voglia di sentire la musica. Ormai il contatto con la realtà c'era stato e si era rivelato più brusco del previsto.

Una nuova vibrazione colpì il telefono, era breve: un messaggio.

Un nuovo messaggio: ore 20.37
Da: 💔
"Emma"

Semplice e conciso. Emma rimase ad osservare il suo nome scritto, evitando di guardare i messaggi precedenti che risalivano a tre mesi prima. Troppo doloroso. Non rispose. Continuò a camminare.

Un nuovo messaggio: ore 20.45
Da: 💔
"Ti prego"

Quella supplica le colpì il cuore con una foga tale da farla incespicare sui suoi stessi piedi. Si sentiva le guance andare a fuoco, per il freddo e per quel mix di emozioni che la stava distruggendo piano piano. Tremò come una foglia mentre si mordeva l'interno della guancia così tanto forte da sentire il sapore ferroso del sangue sulla lingua. Un guizzo le prese le sopracciglia solo a testimoniare il lieve dolore.

Un nuovo messaggio: ore 20.59
Da: 💔
"Fallo"














Esattamente venti minuti dopo Emma stava camminando per le vie sempre meno affollate del quartiere di Brixton. Aveva dovuto prendere di nuovo la metro per raggiungere quella parte di città e l'aveva fatto nonostante fossero ormai le nove passate, i suoi l'aspettavano a casa da più di mezz'ora.

Un'altra vibrazione al telefono le fece fremere il cuore improvvisamente. Si affrettò a guardare per vedere se fosse di nuovo Chase, infondo lei non gli aveva risposto, anche se adesso stava camminando proprio per raggiungere casa sua. Quando lesse il mittente, però, un'altro tipo di ansia si impossessò del suo corpo.

Un nuovo messaggio: 21.26
Da: Mamma
"Dove sei?"

Ed Emma sapeva perfettamente che dietro quel messaggio si celava tutto fuorché preoccupazione. Fra quelle parole poteva percepire solo indignazione e fastidio. Rabbia. Ma preoccupazione, no. Emma era sicura di poter sparire per intere ore per ritornare a casa e beccarsi solo e soltanto sguardi furiosi. Era già successo.

Ignorò il messaggio e ripose il telefono nella tasca del cappotto proprio nell'esatto momento in cui la villetta a schiera di Chase si faceva spazio nel suo campo visivo. Ancora una volta trattenne il fiato mentre restava ad osservare una finestra in particolare del secondo piano, dove sapeva perfettamente esserci la stanza del ragazzo. Era concentrata a guardare l'ombra maschile che si scorgeva oltre il vetro, i denti di nuovo a trattenere il labbro e il freddo a renderla sempre più congelata.

Quando le tende si spostarono leggermente, per Emma fu involontario abbassare la testa. Era qui, eppure ora si nascondeva. Quanto vigliacca poteva essere? Si vergognò di se stessa.

Fortunatamente il più saggio fra i due era sempre stato Chase che, dopo circa una decina di minuti, aprì la porta uscendo al freddo di quella serata di Novembre.

Emma tentò inutilmente di mantenere lo sguardo sulle punte consumate delle sue scarpe ma, dopo poco, i suoi occhi vennero richiamati - neanche fossero attratti da una calamita - verso la figura del ragazzo. Guardarlo le fece più male del previsto. Era bello, di una bellezza tutta sua - e di Emma. Indossava un pantalone della tuta grigio e una felpa nera senza zip, eppure Emma era convinta di non aver mai visto una persona più affascinante di lui. Nonostante la tenuta un po' troppo sportiva. I capelli neri erano arruffati sulla testa quasi si fosse svegliato adesso. Un pensiero trafisse la mente di Emma dolorosamente, ma decise di ignorato per mantenere un minimo di integrità personale.

Lui la stava guardando mentre lei tremava dal freddo, con gli occhi lucidi per il vento - o per altro - e le guance rosse. «Stai congelando», disse solo compiendo qualche passo verso di lei ma senza avvicinarsi troppo.

Lei si strinse nelle spalle fingendo di stare bene, giusto per non dargli la soddisfazione di avere ragione. Giusto per sentirsi meno stupida. Continuava solo a guardarlo, non spiccicava parola. Gli occhi erano troppo concentrati ad osservare tutti quei particolari che lo rendevano così unico e meraviglioso si suoi occhi. Il piccolo neo vicino al sopracciglio, il tatuaggio sulla mano, quello che spuntava dal colletto della felpa, le mani grandi, il bracciale in cuoio intorno al polso. Tutto.

«Era Phoebe - lui tossì appena mentre s'infilava una sigaretta in bocca - al telefono, prima», si giustificò senza che nessuno gliel'avesse chiesto.

Emma annuì nascondendogli il sospiro di sollievo che si era liberato nei polmoni dopo quell'informazione. Sapeva benissimo che Phoebe era la sorella di Chase. Si chiese come avesse fatto a non riconoscere la sua voce. Gelosia, le rispose presto la sua mente traditrice.

«Mi hai chiamato - Chase la guardava ancora e fumava avido - Perché?»

Era sempre stato lui quello più loquace fra i due. Emma faticava ad esprimere i suoi pensieri, le sue paranoie, i suoi sentimenti. Era enigmatica quanto un cubo di Rubik e, probabilmente, aveva lo stesso numero di combinazioni, di facce. Chase poteva vantarsi di averle conosciute tutte, di averle amate tutte.

Emma si prese il suo tempo, con le mani ancora in tasca e i pugni stretti nascosti dal tessuto. Almeno, aveva smesso di mordersi il labbro con la paura di ritrovarselo spaccato.

Chase percepì il suo nervosismo e, con un sospiro sommesso, le si avvicinò piano. Non fece nulla per toccarla ma le trasmise sicurezza nel solo sentire il suo profumo più vicino. Chase aveva l'odore di tanti altri ragazzi, un misto di dopobarba e fumo che faceva impazzire tutte. Ma a Emma piaceva il profumo della sua pelle, quello che sentiva dopo averlo tenuto a sé per tanto dopo, dopo averci fatto l'amore, dopo essersi svegliati insieme. Aveva un profumo che era mischiato al suo. Ed era una fragranza inimitabile.

Si ritrovò di nuovo ad abbassare gli occhi sulle sue scarpe, incapace di rivivere i momenti passati. Perché, a quella vicinanza, lo sentiva in una maniera destabilizzante. Le sembrava ancora suo.

«Emma», lui la chiamò di nuovo con un tono docile e pacato. Lei rispose accendendosi un'altra sigaretta, nervosa. Il suo nome pronunciato da lui era miele sulle sue labbra. Così invitante.

E lui continuava a guardarla, a consumarla e la vedeva cadere in pezzi davanti ai suoi occhi. L'unica cosa che avrebbe voluto fare, in quel momento, era prendere quei pezzi e ricucirli uno ad uno, bacio dopo bacio, carezza dopo carezza. Lo voleva così tanto che non poteva farlo. Non poteva annullarsi ancora per lei. Lei che non era in grado di chiederglielo. Di lottare contro quel buio che aveva intorno all'anima e che lui, piano piano, aveva cercato di allontanare sempre di più.

Con un sospiro arreso, Chase incassò il colpo e si arrese di nuovo. Abbassò lo sguardo puntandolo sulle punte delle sue Nike consumate e gettò il mozzicone con un gesto nervoso. Emma trattenne il fiato, consapevole di ciò che sarebbe avvenuto dopo.

Come a confermare le sue dolorose ipotesi, Chase le voltò le spalle con un movimento bruco e cominciò ad incamminarsi di nuovo verso casa.

Emma riprese a mordersi l'interno della guancia in un gesto automatico prima di chiudere gli occhi e prendere un respiro profondo, la sigaretta ormai consumata dal vento. Guardare le spalle di Chase allontanarsi era così doloroso, la riportava indietro a ricordi che aveva preferito dimenticare. Ma questa volta non voleva che andasse così.

«Chase», lo richiamò con il tono di voce flebile, la voce uscì fuori un po' roca perché quella era probabilmente la prima parola della giornata - escludendo il Buongiorno masticato verso i suoi genitori.

Lui si fermò ma continuò a darle le spalle, impedendole di osservare la sua espressione. Quella sul viso di lei invece, Emma era sicura fosse completamente devastata.

«Aspetta», una supplica che risultava coraggiosa alle orecchie di entrambi. Lui aspettò, ma continuò a non voltarsi. Voleva che lei facesse qualcosa. Che lottasse.

Allora lei si fece carico di una forza che non le era mai appartenuta, avanzò di qualche passo fino ad allungare tremolante la mano. Gli cinse il polso con le dita sottili e fredde, pallide come il suo viso. Trattenne il fiato mentre il contatto con la sua palle le provocava una serie di emozioni indecifrabili per la sua povera e provata mente.

Fu lui a fare il passo successivo, perché sapeva che per Emma quello fosse già più di quanto potesse fare. Si divincolò dalla presa delle sue dita, provocando una fitta di dolore al centro del petto della ragazza che si alleviò solo quando lui iniziò a sfiorarle le dita, per poi incastrarle con le sue.

Al contrario di Emma, lui aveva la mano calda e confortevole - non aveva patito il freddo come lei. La ragazza sospirò piano, gli occhi puntati contro le sue spalle e un sapore amaro in bocca. Lui rimase ancora immobile perché, in cuor suo, sapeva che Emma aveva bisogno di questo. Aveva bisogno di affrontare le sue paure senza fronteggiarle direttamente, con solo un misero ma significativo contatto a farla restare a galla. Glielo dimostrava la presa ferrea con cui gli stava stringendo le dita.

«Perché mi hai chiamato?» Tentò di nuovo lui con il tono arrendevole e gli occhi fissi davanti a sé, lontani da quelli di Emma.

Lei prese un respiro profondo che gli fece bruciare i polmoni, prima di compiere un altro passo in sua direzione. Gli si avvicinò fino a che il suo profumo non le invase completamente le narici. Con gesti misurati e timorosi, poggiò la fronte contro la schiena di lui che, comunque, emanava un calore tale da metterla a suo agio - come aveva sempre fatto. Gli sentì liberare un respiro strozzato mentre anche lei fremeva sotto quel contatto che le era mancato così tanto. Allungò la mano per afferrargli le dita della mano libera e rimase in silenzio, mani unite e fronte sulla sua schiena.

Lui tremò appena e non era per il freddo, Emma questo lo sapeva perfettamente. Tremava anche lei della stessa paura.

«Non c'è più nessuno - mormorare quelle parole le costò una fatica immane - Sono sola»

E si promise di non farsi sfuggire neanche una stupida lacrima dagli occhi grigi, non poteva rendersi ancora più debole - anche sotto lo sguardo di chi, quelle debolezze, le conosceva tutte e aveva provato a curarle.

Lui respirò ancora rumorosamente prima di voltarsi, le abbandonò per qualche secondo le mani ed Emma si stupì di sentirsi così vuota senza il suo tocco addosso. Quella sensazione, comunque, fu abbastanza breve. Chase, infatti, non le riprese più le mani perché le sue si andarono ad incastrare fra i capelli disordinati di Emma.

Lei che aveva lo sguardo ancora basso e nessun coraggio di cercare i suoi occhi. Glielo impose lui, comunque, dopo qualche secondo di silenzio. Fece pressione con le dita per farle alzare il viso, il pollice a sfiorare la linea della mascella e le altre dita a massaggiarle leggermente il collo.

Quando Emma alzò il viso si rese conto che erano così vicini che quasi faceva male. Sentiva il suo respiro contro le labbra e le sembrava di respirare il suo stesso ossigeno. Quello, sicuramente, era meglio del fumo che tanto la consolava.

«Emma», le sussurrò il suo nome vicino all'orecchio, le labbra che sfioravano il lobo, tremiti in tutto il corpo.

«Devi smetterla», era tutto un sussurro. Quasi avessero paura che qualcuno potesse ascoltare parole troppo intime, solo per loro. Ma Emma glien'era grata, aveva ricostruito la bolla e ci aveva incluso Chase. La realtà non le apparteneva e il lunedì faceva un po' meno schifo.

«È nella tua testa», lui le parlò ancora, un mantra che le arrivava alle orecchie e le spezzava in due l'anima. Le lasciò un bacio a fior di labbra vicino al collo prima di allontanare il viso e tornare a guardarla. La teneva ancora stretta.

Emma annuì piano perché lo sapeva. Quante volte lui aveva cercato di farle capire che non c'è bisogno di essere soli, che la solitudine là si può combattere. Che una mano, ogni tanto, la di può accettare.

«Non mi lasciare sola», l'ennesima preghiera che scheggiò il cuore ad entrambi. E Chase si morse le labbra perché diavolo, no che non la voleva lasciare sola. Ma lei doveva imparare ad affrontare le sue paranoie senza l'aiuto di nessuno.

«Emma - di nuovo, calmo, mentre le infondeva un po' di sicurezza continuando a lasciarle carezze sulla nuca - Tu puoi farlo», puoi sbocciare. Senza l'aiuto di nessuno. Voleva convincerla a tutti i costi perché non avrebbe potuto amare una persona che non amava se stessa.

«Vieni qui», le mormorò poi di nuovo all'orecchio mentre se la stringeva di più al petto ed affondava il viso nell'incavo del suo collo. Perché le era mancata così tanto anche lei. Ma doveva arrivare a questo, doveva sentirla ribellarsi alle catene invisibili che la costringevano a terra. Emma doveva spiccare il volo ma lo doveva fare da sola.

Sentì una piccola lacrima salata bagnare le labbra di entrambi nell'esatto momento in cui quelle si unirono per suggellare un patto, una promessa. Quella di iniziare a bastarsi da soli per poi incastrarsi come pezzi un puzzle mancante.

Un nuovo messaggio: ore 22.35
Da: Papà
"Emma. Dove diavolo sei?"






















6 novembre 2019 © slutindie

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