Embarrass Me 'Cause You're Lost And Hopeless

C'erano tanti... Davvero, tanti ricordi nella sua mente: dai più vividi ai più vaghi, alcuni futili altri indelebili nella sua vita.
È normale.
Tutti abbiamo ricordi.
Cosa ci dovrebbe essere di tanto diverso nei suoi?
Beh, una cosa che cambia tra tutti i ricordi è decisamente il contenuto: tutti i nostri ricordi sono diversi, il contenuto cambia da persona a persona. Ciò implica che l'impatto di determinati ricordi su qualcuno scatenano reazioni differenti in un individuo.
Detto ciò...
C'era un ricordo: un ricordo davvero pessimo, su tutti i punti di vista esistenti. Un ricordo talmente pessimo che, al solo pensiero, gli veniva da star male.
Ma, nonostante ciò, non poteva scordarsene,nonostante lo avrebbe desiderato ardentemente.
Cos'è questo ricordo, vi chiederete; per saperlo, conviene tornare nel lontano 2000: quando ancora Pannacotta Fugo poteva dire di avere una vita, tutto sommato, tranquilla. Certo: era pur sempre un membro della mafia, ma ciò non gli impediva troppo di viversi la vita che Bucciarati gli aveva concesso.
Aveva una casa, un ristorante dove gli piaceva mangiare, degli amici o, forse, meglio definirli "famiglia" per quanto all'epoca non avesse ancora notato quanto fossero importanti per lui.
La sua vita era okay.
E poi ci fu quel giorno.
Non il giorno in cui un ragazzo dai capelli dorati si presentò come loro "nuovo membro della Gang", no; stiamo parlando di circa un anno prima quell'avvenimento.
Fu il giorno in cui la razionalità che distingue Pannacotta Fugo svanì per via dei ricordi.
L'unico dannato giorno in tutto il suo passato.
Ora.
Prima di raccontarvi questo pessimo, orribile, ricordo, permettetevi di esporvi chi sia questo ragazzo.
Pannacotta Fugo è un ragazzo razionale; e quando dico "razionale" intendo quasi vicino al limite del cinico. È quel tipo di persona che mette la logica davanti a qualsiasi cosa, che mette da parte i suoi ideali ed emozioni in qualsiasi momento, dotato anche di un' intelligenza più alta del comune.
Un tipo che non si lascia trasportare, insomma.
Ma.
C'è una sola emozione che può far scomparire tutta la sua logica e razionalità; che può mandare a puttane tutto ciò che la sua intelligenza ha da offrire.
E questa emozione è l'ira.
Una volta che quel sentimento prende possesso della sua mente, le situazioni non contano più nulla: non conta il luogo, le persone, il tempo... Semplicemente, l'unica cosa che conta in quei momenti è sfogare quella voglia di violenza che si è insediata nel suo corpo e che gli preme la testa tanto da farlo impazzire.
Ed era imprevedibile sapere quando e come questi scatti potessero verificarsi. A volte capitava che venissero provocati anche da cose futili, cose stupide che però gli facevano saltare i nervi in una maniera esponenziale.
Pannacotta Fugo era una persona irascibile.
Era una persona razionale e irascibile.
Una dualità fatta ragazzo.
Detto ciò, torniamo a quel brutto ricordo: il giorno in cui al ragazzo in questione venne affidato uno dei tanti compiti di un mafioso dal suo fedele capo Bruno Bucciarati.
Un compito che all'inizio poteva quasi risultargli banale, ma che col senno di poi sarebbe diventato un vero calvario per la sua mente.
Camminava tra le-stranamente- vuote strade di Napoli: forse perché il tempo, in quella giornata, sembra peggiorato e dava indizi sul fatto che avrebbe piovuto un po', o forse perché faceva più freddo del solito.
Beh, c'era da dire che il meteo non gli avrebbe impedito di portare a termine la missione appena assegnatogli.
E,appunto, mentre camminava per strada ripeteva a mente cosa esattamente stava per andare a fare in quel momento; non perché fosse insicuro o perché aveva paura di scordarsi qualche dettaglio, no no: era solo un modo per... Far passare qualcosa nella sua testa.
Comunque, dicevano... Ah già, la missione che doveva svolgere, di che si trattava? Mettiamola così: è il classico lavoro che viene affidato ad un mafioso.
In quel giorno freddo, avrebbe dovuto "mettere in guardia" un uomo: un uomo di cui Fugo ora ripudia il solo nome, di cui crede che una damnatio memoriae nel suo caso sia una pena riduttiva. Un uomo la cui vera pena, a parer suo, doveva essere la completa eliminazione dalla memoria collettiva dell'universo stesso.
Ebbene, quest'uomo il cui nome non verrà mai pronunciato era uno dei piccoli capi delle Gang dei più bassi ranghi di Passione; lo stesso rango di Bucciarati, per intenderci. Questo individuo, durante i mesi precedenti, aveva causato vari problemi con il mercato e l'organizzazione ed era diventato abbastanza scomodo: per questo, da ordini superiori, Bucciarati aveva ricevuto l'incarico di occuparsene e, di conseguenza, lo aveva affidato a Fugo dato che entrambi lo consideravano "un lavoro da nulla".
Quindi, in quel momento, il ragazzo si stava avviando proprio da questo "capo di basso rango" per dargli qualche avvertimento.
Faceva davvero freddo quel giorno.
Avrebbe dovuto mettersi dei guanti.
Gli era stato detto che quell'uomo bazzicava spesso nella zona delle vecchie fabbriche abbandonate vicine al porto: ci andava sempre ad intervalli di un'ora e, essendo la zona abbandonata, nessuno lo notava e nessuno sapeva di preciso perché o cosa facesse lì ogni volta.
Se non fosse che...
Giravano delle voci, su quell'individuo: voci diverse, ma tutte simili tra loro.
C'erano tanti tipi di malavitosi che componevano la mafia, quindi non c'era troppo da stupirsi; ma Fugo doveva ammettere che pensare a quelle voci gli faceva davvero venire il vomito.
La fedina penale di quell'uomo era già macchina ed i reati commessi erano principalmente su pedofilia e molestie sessuali su minori.
Disgustoso, pensava il ragazzo.
Li odiava quegli uomini.
Li odiava con tutto sé stesso.
Fosse per lui, un inferno per loro non sarebbe bastato a punirli.
Approfittare dell'ingenuità dovuta alla giovane età per sfogare i propri istinti...
Avrebbe voluto ucciderli uno ad uno con le sue mani.
Dopo un po' di minuti di camminata, finalmente giunse alla sua destinazione.
Un posto inquietante, dove si udivano giusto lo stridio dei gabbiani ed il leggero rumore dell'acqua di mare.
Un posto grigio, spento, morto.
Pannacotta guardò la fabbrica coi suoi occhi gelidi: un posto davvero inquietante, degno del peggior film dell'orrore. Doveva essere una vecchia fabbrica d'armi abbandonata verso la fine degli anni 40. Era malconcia ed isolata da tutto; un luogo dove nemmeno i ragazzini osavano girare.
Non c'era però nulla di insolito all'esterno della fabbrica.
Guardò l'orologio al polso sinistro: l'obbiettivo sarebbe arrivato tra poco meno di 20 minuti.
Meglio sbrigarsi.
Si avvicinò all'entrata della fabbrica, osservandola con attenzione: era chiusa a chiave, con tanto di robusto lucchetto extra. Beh, se l'era aspettato;
Non era di certo uno sprovveduto.
Fece il giro dell'edificio, fino ad arrivare alla parte laterale: molte finestre era già rotte e lasciavano molta possibilità d'entrata, rendendo inutile il chiudere la porta principale.
"di certo non ho a che fare con un tipo sveglio" pensò Fugo, mentre scavalcava ed entrava dalla finestra rotta.
Come poggiò i piedi al suolo, il rumore rimbombò per tutto l'enorme posto.
Era scuro,
Polveroso,
E vuoto.
Il luogo più oggettivamente vuoto che avesse mai visto.
Vi erano giusto delle grosse scatole di legno piazzate in alcuni punti, specialmente gli angoli, e dei grossi ganci di ferro appesi un po' in modo casuale.
Il soffitto era alto e l'ampiezza del posto davvero speventosa: pareva molto più piccola dall'estero che dall'interno.
L'eco era qualcosa di permanente, tanto che ogni piccolo passo che il ragazzo faceva, si faceva udire più che bene.
Ma, del resto, non sembrava esserci nulla di anormale in quel luogo.
Fece qualche passo avanti, tossendo un po' per l'incredibile quantità di polvere e sporco in generale;
L'umidità lì dentro era da far paura e c'era odore di ruggine e muffa: un odore giustificabile per un posto simile e per di più-
No.
No, un attimo.
Con più attenzione, annusò l'aria circostante, cercando di concentrarsi: sembrava... Sembra esserci un altro odore. Non era forte come gli altri, ma da quella distanza era percepibile: era un odore che gli risultava familiare, conosciuto. Una puzza. Una puzza disgustosa, simile all'odore di un metallo.
Sì, conosceva per bene quell'odore.
Sulle prime rimase stranito, poi, per capire da dove provenisse, mosse qualche passo verso sinistra, guardandosi attorno: non... Non sembrava esserci nulla di strano. Catene, vetri rotte, scatole di legno...
E poi lo vide.
Mentirebbe dicendo di non essere rimasto shockato già alla prima vista.
Aveva sentito il cuore perdere un battito.
Gli occhi si erano poco a poco spalancati.
La sua bocca si aprì, ma senza far uscire alcun suono.
Dietro alcune delle enormi e pesanti casse di legno che si trovano in quel luogo, spuntava qualcosa: delle piccole e magroline gambe con rispettivi piedi di piccola misura, di cui uno di essi senza una scarpa. Erano pallide e non facevano il minimo movimento.
Forse il suo cervello in quel momento si rifiutò di accettare la situazione e fece credere a Fugo che magari era un bambino entrato lì per giocare e che magari si era fatto male gravemente.
Iniziò a sudare freddo.
<<o-ohi! Tutto bene?>> disse a voce alta, facendo rimbombare la sua voce per la fabbrica. Corse verso quelle piccole gambe, preoccupato senza neanche sapere l'effettivo perché.
La preoccupazione è una delle nemiche della razionalità e lui era una persona razionale.
Ma, al momento, quel ruolo non gli stava uscendo molto bene.
<<e-ehi! Ehi tu! Stai bene? Hai bisogno d'aiuto? >> continuò, mentre correveva per l'enorme spazio di quella fabbrica fantasma.
Arrivò vicino a quelle enormi scatole in legno oramai vuote, intento ad avvicinarsi a quelle gambine sporgenti, ben nascoste in quello spazio abbastanza stretto.
<<o-ohi, st->>
Le parole gli morirono in gola.
I suoi occhi si sgranarono.
Qualsiasi movimento gli si bloccò in un istante.
Non ricordava di aver provato nulla di peggio fino a quel momento, fino a quella visione.
I suoi polmoni si rifiutavano di prendere aria.
Fu il momento in cui tutta la freddezza e razionalità che lo avevano accompagnato fino a quel momento svanirono nel nulla.
Una visione che sembrò trafiggerlo con mille aghi ma che, nonostante ciò, non riusciva a smettere di guardare.
C'era un bambino, lì, dietro quelle scatole ammuffite: era straiado a terra, non si muoveva. La parte inferiore del corpo non era coperta da nulla, lasciando la zona genitale scoperta. Gli effettivi pantaloni erano stati buttati lì di fianco, mentre la maglietta ancora addosso era stropicciata e tirata su. Era minuto, piccolo, con i capelli totalmente arruffati e sporco.
Sporco di polvere.
Sporco di saliva.
Sporco di sangue.
L'odore orribile di prima si era fatto più forte, ora: era l'odore del sangue, sangue che usciva dalla parte inferiore del corpo del piccolo.
Non proferiva movimento.
Sembrava una bambola rotta.
Le gambe di Fugo avevano cominciato a tremare, anzi forse l'intero corpo.
L'aria, per quanto si sforzasse, non riusciva ad entrare nei polmoni.
Passarono brevi attimi di silenzio.
Poi, una misterioso istinto, lo fece scattare verso il bambino, inginocchiandosi e reggendolo dalle spalle;
forse, nella sua testa, voleva credere che fosse ancora vivo.
<<O-OHI! RESISTI! ANDRÀ TU->>si interruppe di nuovo, non appena vide il viso del bambino: era sporco di cenere e saliva in alcuni punti, la bocca semi-aperta come per esalare un misero ed ultimo respiro; gli occhi erano semi chiusi, spenti, morti.
Non stava respirando.
Non stava respirando già da un bel po'.
Con mano tremante posò l'indice ed il medio sulla piccola gola di quel ragazzino, per poi averne la conferma.
Era morto.
Non avrebbe più respirato.
Ed ora che ne aveva la conferma poteva giurare di sentire il freddo di quel corpo.
All'improvviso, Pannacotta sentì una forte richiesta di aria nei polmoni.
Stava affannando col respiro.
Provò come la sensazione di sentire i suoi organi interni ripiegarsi su sé stessi, mentre tremava ed osservava con occhi scioccati il corpo martoriato che teneva tra le braccia.
<<n-no...no...no,no no! Non... N-non può essere vero!>> esclamò tra sé e sé.
Razionalità? Freddezza? Calma? Non c'era più niente di tutto ciò in lui. Ma perché fargliene una colpa?
In quel momento, forse, Fugo tornò semplicemente... Un ragazzino di 15 anni: un ragazzino che non aveva mai assistito ad un orrore del genere e che mai avrebbe voluto dover assistervi.
Voleva evitare quella realtà a tutti i costi, perché non voleva doverne ricordare l'esistenza.
Troppe emozioni diverse erano in circolo dentro di lui, così tante da non poter nemmeno nominare ciascuna di essi.
Osservò ancora quel corpo che teneva tra le braccia: era leggero, ruvido al tatto e a dir poco malconcio.
Era stato violentato, non c'erano più dubbi.
Era ricoperto da ferite e lividi, molti di cui erano relativamente recenti: era stato picchiato con violenza, probabilmente per non farlo dimenare e lottare per salvarsi.
L'atto in sé era stato molto violento, il che spiegava la fuoriuscita di sangue dalla parte inferiore.
Doveva avergli fatto davvero male.
Le sue piccole mani erano totalmente rovinate: sia per via delle cicatrici, sia per via di unghie spezzate. La mano sinistra era anche leggermente sporca di sangue; Fugo intuì che il piccolo doveva aver graffiato con forza il suo assalitore, dato anche dalla piccola quantità di pelle rimastagli sotto le unghie.
Poi, attorno al collo, vi era un grande livido: probabilmente era stato strangolato, cosa che lo aveva portato alla morte. C'era però da dire che, ad intuito, il piccolo non era morto prima dell'aggressione, ma almeno a metà dell'atto, o peggio: ad atto concluso.
Poi c'era il volto: aveva un livido sulla guancia e vari tagli qua e là. Del resto, come già detto, il viso era sporco di saliva.
Ma la saliva non apparteneva al bambino.
Non riusciva più a mantenere la calma, non riusciva nemmeno a percepire cosa avesse intorno.
L'unica cosa certa era che guardare quel bambino morto che ora aveva tra le braccia gli stava portando alla mente altri vecchi ricordi; il ricordo che, se non fosse stato per la sua ira violenta, a quest'ora poteva essere esattamente come il piccolo che aveva davanti.
Non aveva bisogno di immaginarsi cosa fosse successo a quel bambino, perché metà delle cose che gli erano accadute Fugo le aveva già sperimentare.
Delle viscide e grandi mani che percorrevano la pelle;
Uno sguardo perverso, orrido;
La sensazione di paura;
Il desiderio che tutto possa finire;
Conosceva tutto ciò.
Ma, a differenza di quel ragazzino, lui era provvisto di un dizionario di quattro chili ed una indole violenta ormai sul procinto di scoppiare.
Forse, avrebbe voluto piangere.
Forse, in qualche modo, desiderava di poterlo ancora salvare.
Ma le persone non si possono riportare in vita,
Giusto?
Strinse quel corpicino tra le braccia, tremante, mentre ancora si chiedeva ingenuamente perché il mondo doveva essere così crudele.
Voleva scappare da quel posto, voleva fuggire e dimenticare ogni cosa appena vista...
Ma non ci riusciva.
Non riusciva a fuggire.
Rimase con quel piccolo corpo stretto tra le braccia per altri dieci minuti, completamente in silenzio, a contemplare solo delle lacrime che comunque non riuscivano ad uscire dai suoi occhi.
Certe volte si chiedeva perché non poteva essere una persona normale: perché non poteva ridere per qualcosa di stupido, non arrabbiarsi per delle sciocchezze, piangere per cose tristi o seguire i suoi sentimenti.
Perché, nonostante l'ira, Fugo rimaneva una persona razionale.
E una persona razionale non può permettersi di fare queste cose.
Un rumore metallico giunse alle sue orecchie, fermando qualsiasi pensiero stesse vagando per la sua mente in quel momento.
Subito dopo la porta della fabbrica si aprì.
Pannacotta non aprì bocca, si limitò semplicemente a girarsi a malapena per vedere chi stesse entrando.
In ritardo di 4 minuti.
All'ingresso vi era un uomo: non aveva meno di sessant'anni, era in sovrappeso ed indossava vestiti eleganti, degni di qualsiasi capo mafioso.
Era da solo, i membri della sua Gang non erano presenti.
L'uomo aveva fatto qualche passo all'interno dell'edificio prima di fermarsi a guardare Fugo con quel bambino morto tra le braccia; e, in effetti, sembra essere più basito dalla presenza del ragazzo che dal cadavere che teneva tra le braccia.
Il suo sguardo era preoccupato, la sua fronte grondava di sudore freddo.
Il suo bersaglio era arrivato decisamente in un momento poco opportuno.
Ma Fugo, guardandolo, non tornò a pensare al suo lavoro, bensì ad un'altra cosa.
Qualcosa di quell'uomo aveva attirato la sua attenzione.
Sussultò.
Sulla guancia di quell'individuo vi erano dei graffi, simili a quelli che lasciavano i gatti: era recente, lo si deduceva dal fatto che non si fosse nemmeno asciugato del tutto.
Ricordò la manina del bambino tutta rovinata e leggermente sporca di sangue, con un po' di pelle sotto le unghie,
Come se avesse graffiato l'assalitore per proteggersi.
Il ragazzo non ci mise molto ad unire i punti e a fondere quella situazione che aveva trovato e le voci che giravano attorno a quell'uomo.
E, in un attimo, tutto si fermò.
Tutti quei pensieri incasinati che gli affollavano la mente sparirono nel nulla.
Di quelle emozioni sconnesse non vi era più traccia.
I suoi occhi rimasero fissi su quell'uomo, spalancati, come un predatore punta la sua vittima.
Se prima dentro di lui vi era un misto sconnesso di mille sentimenti e pensieri, ora tutto quello che rimaneva era solo una cosa.
Oh cara, cara mia vecchia ira.
Quella rabbia che lo etichettava da sempre si era formata dentro di lui, ed era una di quelle volte in cui era più grande e mostruosa del solito.
Una perfetta bomba ad orologeria.
In una situazione come le altre avrebbe forse percepito un minimo di preoccupazione prima di uno scatto d'ira, perché sapeva che avrebbe rischiato grosso anche lui se non avesse controllato le sue emozioni; ma, in quella situazione, non provava neanche la minima esitazione.
In quel momento non stava nemmeno considerando la sua stessa incolumità.
Questo perché Pannacotta Fugo possiede qualcosa di terrificante;
Un potere distruttivo ed incontrollabile che, proprio come la sua rabbia, esplodeva portando morte ed agonia, e poi spariva come una tempesta passeggera.
Ed, in effetti, quel potere era proprio la rappresentazione del suo essere, della sua ira violenta e distruttiva;
<<Purple Haze>> quello era il nome che gli aveva dato, al suo stand, alla sua furia, pronunciandolo a tono basso, mentre le sue mani si facevano rigide ed il suo sguardo voglioso di sangue.
Di colpo, poco distante dal ragazzo, apparve una creatura: si poteva dire che aveva fattezze umane, ma no; quell'essere di umano non aveva un bel niente. Il suo aspetto pareva quello di un gladiatore dalle tonalità viola ma, allo stesso tempo, di un'orribile fantoccio con cucite delle stoffe vivaci a rombi ma che, su quell'essere, trasmettevano tutto fuorché simpatia. La sua bocca perennemente distorta da un grigno e sbavante era come cucita da dei fili di ferro, mentre gli occhi erano solo delle sfere vogliose di uccidere.
Purple Haze, lo stand di Fugo, era uno dei più pericolosi stand mai stati creati dalla freccia; anche lo stesso Fugo faceva fatica a controllarlo e, come tutti gli stand, rappresentava il suo portatore; era una macchina furiosa con un potere terribile in mano, capace di uccidere chiunque gli fosse vicino, che fosse amico o nemico. Questo essere, per l'appunto, possedeva delle piccole capsule attaccate alle mani contenenti un virus letale che, una volta che queste capsule venivano rotte, fuoriusciva e, tramite inalazione o contatto cutaneo, provvedeva a far marcire la vittima dall'interno, causandogli la peggior morte mai vista.
Nonostante la sua forza, però, Fugo non lo evocava mai, perché lui stesso ne aveva paura.
Non sapeva controllarlo del tutto, tanto che ormai non stava più in una stanza con la porta chiusa da quanto avesse paura di ritrovarlo lì con lui senza controllo.
Perché nemmeno lui era immune al suo stesso potere e, come un normale essere vivente, non desiderava morire.
Gli unici motivi per cui tirava fuori quell'essere erano i seguenti: si trovava con le spalle al muro o era parecchio furibondo.
E, ovviamente, ora era la seconda motivazione.
Quell'uomo non era palesemente un portatore di stand, tanto che aveva iniziato a borbottare cose rivolte a Fugo come "come hai fatto ad entrare?", "chi sei?", "sei un membro della mafia?"...
"come mi hai scoperto?".
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Piano, lasciò il bambino morto al suolo, per poi alzarsi e fissare con aria furiosa quell'uomo che lui vedeva soltanto come feccia.
Portare il suo lavoro a termine nella maniera indicata? Non poteva fregargliene nulla.
Strinse i pugni, mentre quello ancora parlava di cose futili: cose che le orecchie di Fugo nemmeno volevano captare.
<<sei stato tu... >> la sua voce era bassa e roca, piena di una rabbia che stava per esplodere.
L'uomo fece qualche passo indietro.
5 metri.
Una distanza perfetta.
Purple Haze si alzò dal punto in cui era seduto, per poi stringere i denti e guardare anch'esso l'obbiettivo dell'ira del suo portatore.
Poi, la scintilla scoppiò.
Gli occhi di Pannacotta si spalancarono, alzando la testa e rivelando tutta la sua rabbia in volto.
<<MUORI! >>
A quelle parole, il suo stand scattò contro il bersaglio, lanciando un urlo: un urlo disumano, mostruoso. Lo colpì in pieno volto con una forza disumana e, come se già non bastasse, una delle capsule sulle nocche di Purple Haze si ruppe, portando alla fuoriuscita del virus. Immediatamente il virus penetrò nell'organismo della vittima, cominciando a farlo marcire ad una velocità spaventosa, mentre l'uomo urlava di paura e dolore.
Il mafioso iniziò a sciogliersi in un ammasso di carne, ossa e organi marci sotto gli occhi furibondi di Fugo. Nonostante stesse già per morire però, lo stand aveva ripreso a colpirlo con violenza, mentre il ragazzo, a distanza di sicurezza, stringeva i denti rabbioso;
<<CREPA, CREPA, CREPA!!! >> Urlava più rabbioso che mai, mentre osservava quella feccia morire sotto i continui colpi del suo potere.
Lo colpí per due minuti di fila, tanto da non star neanche più colpendo un essere umano, ma solo una poltiglia di carne ed ossa.
Eppure, ancora non si sentiva soddisfatto; la sua ira non era stata ancora dissetata.
E, forse, in quel momento raggiunse l'apice della furia: quell'apice che non si dovrebbe nemmeno sfiorare, ma che in quel momento era stato abbracciato da Pannacotta Fugo.
Quell' apice che lascia che sia la pazzia a sovrastare l'ira.
Con tutto il fiato che aveva nei polmoni, urlò ancora, ancora e ancora...
<<CREPA BASTARDO!!! >>
E, a quelle parole, accadde qualcosa che spezzò qualunque cosa: pensieri, emozioni, fiato.
Purple Haze urlò più forte, spalancano la bocca e, nonostante avesse dei fili di ferro a cercare di tenerla chiusa, riuscì ad addentare quella carne marcia, iniziando a divorarla ferocemente.
A quella visione, Pannacotta Fugo si rese conto dove si era spinta la sua rabbia.
La razionalità tornò nel suo cervello.
E con lei, la paura.
Vedere quello stand, quel mostro, se stesso, divorare quella carne appartenuta ad un uomo con quella ferocia gli fece salire una paura innata; un senso di nausea, terrore e panico tutto insieme.
Fu in quel momento che le sue gambe ripresero a funzionare e che, istintivamente, lo portarono a correre via di lì, sorpassando il suo stand ormai fuori controllo, uscendo dalla fabbrica e chiudendo la grande porta di ferro che lo separava da quell'orrore.
Si poggiò al muro, sentendo la testa girare; ripensare a quella visione gli fece agitare lo stomaco, vomitando poi in seguito, senza potersi fermare. Si accovacciò lì, con la schiena al muro e tremante, con la paura che gli annebbiava la mente.
I rumori del suo stand erano ancora udibili all'interno dell'edificio.
Poche volte nella sua vita aveva avuto veramente paura per qualcosa, ma, in quel momento, era peggiore di qualsiasi paura avesse mai provato.
Non riusciva nemmeno a parlare; era così terrorizzato ed impanicato che neppure riusciva ad aprire bocca.
Cosa diavolo era appena successo?
Che aveva fatto?
Cosa diavolo aveva fatto con quella carne marcia?
Il cielo si era fatto di un grigio scuro.
Piccole gocce iniziarono a cadere dalle nubi; prima due o tre, poi un vero acquazzone.
E Fugo se ne stava lì: immobile e rannicchiato, con l'acqua che gli scorreva addosso.
Passarono minuti: minuti che man mano scivolavano via assieme alla pioggia.
Dall'interno della fabbrica non si sentiva più alcun rumore.
Aveva smesso.
Il ragazzo se ne accorse, voltando lentamente lo sguardo verso la porta metallica.
Il cuore gli batteva a mille.
Non sentiva più Purple Haze esposto.
Lo aveva richiamato.
Si alzò cercando di rimanere dritto in piedi, per poi avvicinarsi con lentezza spaventosa alla porta di quel luogo.
I suoi occhi la fissarono pieni di terrore.
La sua mano titubante si avvicinava, con l'intento di aprire quella porta.
Il cuore sembrava stargli esplodere nel petto.
Le gambe sembravo essere diventate molli, facendo fatica a farlo rimanere in piedi.
Silenzio.
Poi, finalmente, aprì la porta.
Ciò che trovò davanti a lui non fece che giustificare ancor più la sua paura.
C'era una poltiglia di carne sul pavimento: una poltiglia dall'aspetto vomitevole. Era già malconcia di suo, ma in più si potevano notare bene dei morsi in esse: come se la più feroce delle belve l'avesse divorata con foga.
E nel vederlo, nel realizzarlo, lo stomaco gli si contrasse e quel senso di nausea aumentò ancora.
L'idea di quella carne marcia divorata ed entrata nel corpo del suo stand, nel suo corpo, lo fece assalire da un senso di sporco nauseabondo.
Il bambino morto era ancora lì, dove lo aveva lasciato.
Missione fallita.
Pessima giornata.
Uscì fuori nuovamente, chiudendosi la porta alle spalle: per poi camminare via sotto la pioggia, in un luogo che lo facesse sentire sicuro.

Non gli piaceva il rumore della pioggia.
Le gocce scendevano lungo il suo ombrello, strisciando come serpenti, per poi cadere giù e schiantarsi velocemente al suolo.
Vi erano già grandi pozzanghere per le strade, con altra pioggia che non faceva altro che ingrandirle ancora di più.
Sta di fatto che quel rumore liquido gli dava parecchio fastidio. Ed era strano: molte persone trovavano i suoni liquidi rilassanti e piacevoli; eppure a Narancia continuavano a dare fastidio.
E Narancia era pur sempre un sempliciotto: strano che trovasse fastidio in una cosa tanto particolare.
Dei brividi di freddo gli percorsero la schiena, facendogli stringere più forte i sacchetti della spesa che aveva in mano di riflesso. Anche se, ad essere sinceri, li aveva stretti più forte anche per un altro motivo, oltre al freddo che percepiva a causa delle spalle scoperte: l'ultima cosa che voleva era far cadere la spesa sul suolo bagnato o in una pozzanghera, ma non tanto perché importasse a lui, perché diciamocelo: a parte qualche imprecazioni e qualche credenza nella sfortuna, non è che si sarebbe fatto poi chissà quale problema, no no: c'era un altro motivo per cui teneva la spesa ben stretta a sé, un motivo molto più singolare. E pensare ad un Fugo arrabbiato a fargli la ramanzina perché aveva fatto cadere la spesa non lo esaltava più di molto.
Aumentò il passo verso un condominio poco lontano da lui, sentendo i piedi ormai fradici dentro le scarpe, cosa che peggiorò passando in mezzo a qualche pozzanghera sulla sua via.
Una volta sotto la piccola tettoia posta sopra al cancello del condominio, Ghirga chiuse l'ombrello ormai al riparo dalla pioggia, tirando poi fuori una chiave dalla tasca, per poi aprire il portone ed entrare.
Il piano terra non era molto spazio: dava giusto il posto alla portineria, l'ascensore e le scale. Narancia guardò anche all'interno della finestrella della portineria per vedere se quella simpatica signora, la portinaia, fosse al suo interno, ma la trovò vuota; un po' ci rimase male, perché avrebbe volentieri voluto salutarla e magari scambiarsi quattro chiacchiere in napoletano, ma non essendoci proseguì avanti a lui.
Fortunatamente, l'ascensore era libera ed al piano terra, il che fece credere al ragazzo di essere minimamente fortunato, anche se il concetto di superstizione non gli si addiceva molto, no no: quella era più cosa da Guido Mista.
Entrò all'interno di quella stretta cabina, per poi cliccare il pulsante per il quinto piano; le porte si chiusero, mentre lui si poggiò ad una delle pareti ed iniziò ad osservare la spesa appena fatta.
"Fugo sarà già tornato a casa?"
Questo fu un pensiero che gli passò immediatamente in testa, specialmente perché altrimenti non avrebbe avuto la scusa pronta per fargli mettere a posto la spesa. Essere coinquilini, dopotutto, voleva anche dire spartirsi i lavori.
...
Sì, coinquilini. Fugo e Narancia erano coinquilini, il che fa strano da pensare, specialmente quando erano spesso ad attaccare briga tra di loro. Eppure, era così: era stata una scelta su cui entrambi erano stati d'accordo.
Forse perché entrambi sentivano di dover iniziare a crescere e di non poter dipendere troppo da Bucciarati anche per un posto dove dormire, per cui si erano decisi a trovare un appartamento; e, un po' per la situazione in sé, un po' perché sentivano che la loro accoppiata poteva essere utile ad entrambi, decisero di diventare coinquilini. Forse perché Narancia aveva bisogno di una persona responsabile a tenerlo d'occhio ed aiutarlo un po' in casa e forse perché Fugo aveva bisogno di una persona che lo aiutava nel caso il suo stand fosse andato fuori controllo in un luogo chiuso come una casa. Sì, litigavano spesso, ma c'erano anche molti momenti in cui andavano d'accordo e passavano pomeriggi divertenti e serate tranquille.
Anche se il loro rapporto era a tratti complicato, entrambi ormai erano diventati qualcosa di indelebile nella vita dell'altro: non ci pensavano mai, ma sapevano nel profondo che era così.
Le porte dell'ascensore si aprirono.
Narancia tirò uno sbadiglio, afferrando le chiavi e uscendo da quella cabina. Camminò per il corridoio pieno di porte che componevano il piano, pensando a quanto volesse riposarsi un po' sul divano. Si avvicinò alla porta di casa, già pronto per infilarci la chiave, ma subito si fermò.
Era stanco sì, ma aveva notato qualcosa: la porta non era chiusa ma addirittura semi aperta.
Sul pavimento c'erano delle tracce di bagnato che andavano fino dentro casa.
Appena notato ciò, Narancia si mise in guardia: aveva un brutto presentimento.
Aprí la porta con calma, causando un leggero cigolio: sembrava tutto tranquillo dentro casa, ma non c'erano luci accese in salotto o in stanze nelle vicinanze. Osservò le traccie d'acqua sul pavimento, notando che queste attraversassero tutto il lungo corridoio.
Ghirga poggiò il sacchetto della spesa a terra e piano si chiuse la porta alle spalle; non aveva paura, anche perché con il suo Aerosmith non avrebbe dovuto temere molto per la sua vita, ma era ugualmente preoccupato.
Richiamò il suo stand, facendo in modo di far apparire il piccolo radar che captava l'anidride carbonica nelle vicinanze: se ci fosse stato un essere vivente nelle vicinanze se ne sarebbe di sicuro accorto. Il suo potere dalla forma di un aereo da caccia iniziò a percorrere il corridoio, con Narancia che lo guardava in silenzio e che piano gli stava dietro.
Iniziò involontariamente a sudare.
C'era una strana tensione nell'aria.
Il radar mostrò un puntino luminoso: era piccolo, ma visibile e sembrava provenire dalla porta del bagno: e, in effetti, il ragazzo poteva notare una flebile luce venire da sotto quella porta.
Quindi era vero: c'era qualcuno in casa.
Silenziosamente si appostò davanti alla porta di legno, con alle spalle il suo fidato stand.
Deglutì silenziosamente: quella sembrava una scena da film horror.
Se doveva agire e, nel dubbio, affrontare qualcuno doveva farlo di sorpresa.
Poggiò la mano sulla maniglia, mentre pronto si immaginava di trovarsi davanti chissà quale cosa orripilante.
Silenzio.
Silenzio per dieci secondi.
Poi, BAAM!
Ghirga colpì forte la porta, praticamente pronto a far fuoco, tirando anche un urlo breve per istinto.
Ma, subito, ogni sua azione si interruppe, lasciandolo spaventosamente basito.
Nella stanza, tra lo spazio del lavandino e la vasca, seduto a terra, c'era un ragazzo: un ragazzo con le gambe strette al petto, bagnato fradicio, con la testa nascosta dalle braccia e dai capelli, fermo immobile; non si era mosso di un millimetro nemmeno quando Narancia aveva praticamente sfondato la porta.
Il corvino fissò quel ragazzo sorpreso, per poi ritirare il suo stand e chiamare il suo nome:
<<Fugo?>>
Si avvicinò piano, involontariamente cauto, osservando il ragazzo zitto e rannicchiato; quando gli fu davanti, si chinò alla sua altezza, osservandolo stizzito più da vicino; Aerosmith non si era sbagliato, il respiro che aveva captato era proprio quello di Fugo: così live da dare l'impressione che nemmeno stesse respirando.
Ora che però gli era più vicino, Narancia poteva sentire qualcos'altro provenire dall'amico: dei sussurri, delle parole: sconnesse e pronunciate ad un tono così basso che erano a malapena udibili standogli vicino.
Parole.
Parole.
Parole.
Ne stava dicendo tante di parole, ma nessuna di queste sembrava possedere un senso.
"Era pieno di polvere", "non sopportavo quell'odore", "carne putrida", "paura", "ho vomitato lì fuori", "è impazzito", "ho fallito".
Quelle furono le parole che il corvino riuscì a distinguere e l'altro le stava ripetendo in continuazione.
Non aveva alzato lo sguardo.
Non sembrava nemmeno aver notato la sua presenza.
<<F-Fugo? Ohi? Tutto ok?>> Ghirga allungò la mano, toccando il braccio bagnato di pioggia dell'altro; fu un contatto breve però. Non appena Pannacotta sentì quel contatto sulla pelle, i suoi muscoli si contrassero e, immediatamente, spinse via la mano del ragazzo di colpo, urlando:
<<NON TOCCARMI!>>
Già per quella reazione Narancia era rimasto sconvolto, ma in più ci si mise il poter finalmente osservare il viso di quel ragazzo che ora non sembrava nemmeno lui: i suoi occhi erano sgranati, pieni di paura; i denti erano stretti, mentre il viso era corrugato in un espressione di terrore allo stato puro.
In quel momento, non sembrava nemmeno Pannacotta Fugo.
Ghirga rimase basito ad osservarlo, mentre l'altro si passava una mano nei capelli, guardando in modo ossessivo da tutte le parti, sudando freddo, come un animale che cerca una via di fuga.
<<T-tutto questo è stata una pessima idea; è stato tutto un enorme errore: io non dovevo essere lì, non so cosa mi sia preso!>> parlava, parlava da solo. Rideva nervoso, ma allo stesso tempo tremava di paura.
E Ghirga stava lì e lo guardava, senza fare nulla: ad essere sinceri, nemmeno credeva di essere sveglio. Insomma: Fugo in uno stato di disorientamento e terrore, sembrava una storiella inventata da un bambino. Pannacotta Fugo è una persona razionale, no? È sempre serio, cinico e noioso, a parte quando si arrabbia. Pannacotta Fugo non è una ragazzo che cede al terrore, no?
Narancia iniziava a pensare che quello davanti a lui fosse uno stand nemico che aveva preso le sembianze del suo amico.
Era una cosa ingenua da pensare? Forse.
<<o-ohi, di che stai parlando? Calmati un attimo... >> il corvino prese l'altro per le spalle, bloccando i suoi movimenti e obbligandolo a guardarlo. Non appena i loro occhi si incrociarono, lo sguardo di Fugo passo da un sorriso forzato, ad un' espressione spaventata e sul procinto di piangere.
Era tutto così strano da sembrare troppo surreale.
<<si è mangiato la sua carne... >> fece con un filo di voce;
<<cosa--c-chi?>>
<<PURPLE HAZE SI È MANGIATO LA CARNE DI QUELL'UOMO! >>
Ora aveva nuovamente nascosto il viso con le mani, come per nascondersi da tutto ciò che aveva attorno;
<<m-mi... Mi sono infuriato più del solito! Q-quel bambino... Quel sangue... N-non ho retto! E appena si è squagliato per il virus di Purple Haze... Si è m-mangiato la sua carne!>> esclamò, mentre si tirava i capelli; e Narancia rimase basito nel sentire quelle parole, quasi confuso da tutto ciò;
<<è c-come se... È come se mi fossi mangiato la carne di quell'uomo! >> esclamò ancora.
Ma che diavolo.
"Ma che diavolo" era proprio l'esclamazione perfetta per quel momento.
Se solo ci riuscisse a capire qualcosa.
Era stupido, sì: era troppo stupido per cose del genere. Non riusciva ad empatizzare con Fugo in quel momento, non ci riusciva proprio. E, forse, in quel momento, realizzò quanto lui e Pannacotta fossero diversi. Sì, la loro rabbia e cocciutaggine erano qualcosa che avevano in comune, ma per tutto il resto erano come il bianco ed il nero.
Il ragazzo rannicchiato a terra serrò le labbra, con gli occhi stretti, nascondendo nuovamente la testa tra le gambe; aveva il bisogno di piangere, ma, come al solito, non ci riusciva.
Cadde il silenzio, così come nella sua testa.
Piano, iniziò a realizzare... Quanto fosse pericoloso.
Quanto la sua presenza fosse pericolosa.
Quanto oltre si poteva spingere la sua furia, tanto da essere arrivato a guardare il suo stand divorare della carne umana.
Ed in quel momento pensò che magari, al posto della carne di quell'uomo, poteva esserci la carne di qualcuno a cui teneva.
La carne di Mista;
La carne di Abbacchio;
La carne di Bucciarati;
La carne di Narancia.
Pensarci lo lasciò come vuoto: non provava più panico, non provava più paura: l'unica cosa che sentiva era un senso di sbaglio.
Per la prima volta si era conto di quanto la sua vita fosse come una danza col Diavolo: una danza a cui non aveva chiesto di partecipare, ma che eppure continuava a ballare.
<<ohi Narancia... Perché sono ancora nella Gang?>>
Questa domanda pronunciata a bassa voce spezzò il silenzio, lasciando anche Narancia più basito di prima, se possibile.
<<e-eh?>>
Onestamente, non sapeva nemmeno cosa avrebbe dovuto rispondere.
<<perché Bucciarati mi tiene ancora nella Gang? Sono pericoloso... Potrei uccidervi in qualsiasi momento... >>
Alzò la testa di poco, abbastanza per rivelare i suoi occhi privi di emozioni o di vita;
<<dovreste lasciarmi perdere... Dovreste... Abbandonarmi>>
Quelle parole, pronunciate con un tono a malapena udibile, colpirono Narancia come un pugno nello stomaco: un pugno di ferro sferrato alla massima forza.
Abbandonare.
Abban... Donare.
Abbandonarmi?
Senza volerlo, ricordò quei passati giorni per le sporche strade della città: affamato, infreddolito e sul procinto di morire.
Tutto perché si era fidato di quelle persone che credeva amici, famiglia, e che poi lo avevano abbandonato, ripudiato.
Era stato abbandonato come un cane ed il brutto è che non importava a nessuno: né a quelli che poco prima erano suoi amici, né a suo padre, né alle persone che aveva attorno.
L'avevano destinato alla morte.
Pensò così tante volte, seduto sul freddo pavimento di cemento, che fosse un errore, che andasse cancellato dall'esistenza; che a nessuno poteva importare della sua esistenza, tanto meno della sua morte.
E quando era sul procinto di abbandonare ogni speranza di aggrapparsi alla vita, era successo qualcosa; qualcosa che poteva anche definire miracolo, se solo avesse creduto a Dio.
Mentre rovistava nei rifiuti come un animale randagio, sporco e malandato, qualcuno lo stava osservando da lontano: lo osservava fermo, con sguardo indecifrabile; poi gli si avvicinò senza dire una parola, lo prese da un braccio e lo trascinò con sé. Narancia ricordò la vaga confusione che provò in quel momento, ma non gli importava: si lasciò trascinare, mentre osservava la prima persona che aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a lui, invece che compatirlo da lontano.
In un certo senso, quel ragazzo, portandolo in quel ristorante, gli donò la vita: gli diede l'occasione di continuare a vivere, di ottenere qualcuno che teneva sul serio a lui.
Ed ora era proprio quel ragazzo che lo aveva salvato stava chiedendo l'abbandono.
Strinse i denti.
Afferrò Fugo dal colletto, tirandolo e lasciandolo sorpreso; poi, iniziò a prendere parola:
<<ma che cazzo stai dicendo?>> la voce di Ghirga era bassa e roca: non sembrava nemmeno la sua.
<<vuoi essere abbandonato, eh?>> fece ancora, per poi alzare lo sguardo verso l'altro, rabbioso e coi denti stretti;
<<MA CHE CAZZO DICI!? >> urlò, lasciando l'altro basito
<<NESSUNO QUI È COSTRETTO AD ACCETTARTI NEL GRUPPO! NESSUNO È COSTRETTO A LAVORARE, PARLARTI, A PASSARE TEMPO CON TE!>> era furioso, ma allo stesso tempo triste;
<<IO NON SONO STATO COSTRETTO A CONVIVERE CON TE, TANTO MENO AD ESSERE TUO AMICO, CHIARO!? >>
Non lo capiva, non lo capiva e questa cosa gli dava alla testa: Fugo sapeva tutto su Narancia , ma Narancia non sapeva nulla di lui.
Era frustrante.
Cavolo, perché doveva essere così stupido?
Involontariamente, delle lacrime iniziarono ad uscire dai suoi occhi.
<<QUI N-NESSUNO... nessuno... T-ti abbandonerà... Mai... >> si sentí improvvisamente debole, la presa sul colletto dell'altro iniziò a diventare meno stretta, mentre abbassava lo sguardo singhiozzando.
E Fugo era lì, che lo guardava a bocca aperta.
Narancia lo aveva mollato, ed aveva iniziato a cercare di asciugarsi le lacrime, fallendo.
Quella fu la prima volta che vide Narancia Ghirga piangere.
Osservò quel viso in lacrime e, involontariamente, un pensiero gli passò nella mente; ricordò il bambino in quella fabbrica: era sporco e mal ridotto, probabilmente era un ragazzino di strada, per questo era stato preso da quell'uomo: perché se ai ragazzi di strada succede qualcosa, a nessuno importa, nessuno si ricorda della loro esistenza. Poi pensò al corvino e una possibile realtà gli venne in mente: se quel giorno non lo avesse raccolto per strada, se non gli avesse donato quell'occasione, ora, forse, poteva esserci Ghirga su quel freddo pavimento della fabbrica.
Riaquistò la ragione, Fugo, tornando la persona razionale di sempre, anche se, davanti all'amico che piangeva, non sapeva proprio che fare.
<<o-ohi Narancia io... Scusa, non volevo dirlo, io non-... S-smetti di piangere, dai... >> lo sfiorò, ma senza sapere davvero che fare.
L'unica cosa che sembrava naturale in quel momento, fu abbracciare delicatamente il corvino, cercando di farlo smettere, ma senza dire nulla: senza dirgli di smettere di fare il moccioso, senza rassicurarlo a parole.
Semplicemente rimasero lì, in silenzio, finché le acque non si calmarono.
Quello fu il loro silenzioso ricordo.
Un ricordo di cui non parlarono mai più, ma che custodirono per sempre nei loro cuori.
Un ricordo dove entrambi videro cosa c'era di sbagliato nell'altro.

Il biondo si passò dietro l'orecchio una ciocca di capelli che si era liberata dalla sua treccia; aveva ascoltato tutta quella storia, ma non ci aveva capito molto: forse perché tutte le emozioni oltre alla rabbia che abitavano Pannacotta Fugo erano troppo complesse per essere comprese.
<<grazie per avermi raccontato tutto, Fugo: lo so che devo aver richiamato dei tuoi ricordi poco gradevoli, ma mi serviva documentarmi su questa missione; nemmeno Mista ne sapeva l'esito e non ho trovato nessuna informazione a riguardo: dato che sei tu che hai agito, ho pensato che sarebbe stato il caso di chiedere a te.>>
Intanto Fugo stava zitto e seduto su una sedia: aveva un'espressione indecifrabile, incorniciata dal viso rovinato dalla lunga cicatrice sul lato della bocca.
<<quindi tu hai ucciso quel capo mafioso, Narancia ha riferito l'accaduto a Bucciarati e Bucciarati ha poi fatto modo di insabbiare la faccenda; tanto quel capo era diventato scomodo, quindi non hai passato guai, sbaglio?>>
<<no, non sbagli.>>
<<bene,allora direi che è tutto. Puoi andare ora, mi dispiace di averti trattenuto così tanto. >>
A quelle parole, il ragazzo si alzò dalla sedia, silenzioso come un fantasma, avviandosi verso la porta che conduceva fuori dall'ufficio del Boss.
Giorno lo osservò, quasi confuso dal non riuscire a capire metà dei sentimenti o pensieri che circolavano il quel ragazzo: questo lo rendeva anche pericoloso per i suoi occhi, in un certo senso, ma sapeva che non c'era un effettivo pericolo: Pannacotta non lo avrebbe tradito, ne andava l'onore dei suoi compagni morti.
<<Bo-... GioGio. Posso farti una domanda?>>
Giorno Giovanna fu risvegliato dai suoi fugaci pensieri, attirato dalla voce del ragazzo con la cicatrice che ancora non aveva lasciato il suo ufficio.
<<mh? Certo, dimmi pure. >>
In effetti finora era stato solo lui a fare domande all'altro, ora forse era il caso di ricambiare un po' il favore.
<<tu... Hai assistito alla sua morte, no? >> il tono di Fugo parve un sussurro che facilmente si disperde nel vento;
Il biondo rimase un attimo confuso;
<<come?>>
<<parlo di Narancia: tu lo hai visto morire, no?>>
Non sapeva come prendere effettivamente quella domanda.
O, forse, ricordare la morte di uno dei suoi compagni un po' lo feriva.
<<sì >> rispose soltanto, senza effettivamente capire dove l'altro volesse andare a parare.
Nemmeno lo stava guardando in faccia, l'unica cosa che percepiva era il suo leggero respiro.
<<il suo volto... Com'era il suo volto?>>
A quella domanda, un'insolita confusione si espanse nella sua mente, ma era una confusione diversa da quella che aveva provato da tutta la vita: era come se si sentisse assente, trasparente davanti a quel ragazzo di schiena.
Nemmeno si sentiva più il boss di un'intera mafia in quel momento.
<<c-come?>>
"ironico" pensò Fugo in quel momento "lui non si azzarda mai a ripetere le cose due volte, ma ora a me tocca farlo. Probabilmente nemmeno dovrei ripetere la cosa..."
<<il volto di Narancia quando è morto. Che espressione aveva in volto?>> alla fine decise di essere semplicemente più specifico.
E nonostante Giorno fosse ancora confuso dalla domanda, riuscì comunque a trovare un senso in ciò: aveva appena risvegliato in lui il ricordo del corvino, quel corvino a cui era tanto legato e che non era riuscito a salvare.
Lo capiva e, forse, doveva avere la decenza di dargli pace.
<<il suo volto... Era rilassato: non era turbato, sembrava stesse dormendo tranquillo.
È morto tra i fiori: è stata l'unica cosa che ebbi la possibilità di fare per lui in quel momento. >> rispose, cercando di riprendere la sua aria seria e cercando una reazione nell'altro.
L'unica cosa che fece Fugo fu alzare gli occhi verso il soffitto decorato, sussurrando un semplice
<<capisco... >>
Sentendo il cuore liberato da un peso.
<<scusa, ora tolgo il disturbo. >> fece infine, afferrando convinto la maniglia della porta; ma la voce di Giorno lo fermò:
<<aspetta. >> disse fissandolo, mentre l'altro non accennava nemmeno a girarsi.
Forse era arrivato il momento di liberarlo da una delle tante catene che ancora gli stritolavano il cuore.
<<non ti abbiamo mai detto cosa disse Narancia prima di morire e trovo giusto che sia ora di dirtelo... >> fece il Boss di Passione.
A quelle parole, il cuore di Fugo perse un battito.
Gli occhi smeraldi del capo non provavano nemmeno per un secondo a staccarsi dalla sua figura: voleva catturare qualcosa, un cenno, un emozione.
<<... Diceva che avrebbe voluto tornare a Napoli, diplomarsi... E che avrebbe voluto tanto rivederti. Tu sei stato il suo ultimo pensiero, Fugo. >> disse.
Silenzio.
Un silenzio di qualche secondo, ma che veniva percepito come molto più lungo e molto più vuoto.
L'unica cosa che fece il ragazzo dalla cicatrice fu deglutire, per poi afferrare la maniglia della porta e dire velocemente con voce rotta un
<<scusa il disturbo>> per poi uscire dalla stanza.
Il biondo sapeva che aveva fatto e non se ne pentiva: ora come ora, sapeva perfettamente di aver fatto la cosa giusta. Fugo, invece, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, si era poggiato al muro del corridoio della grande villa di Passione: non pensava seriamente di potersi mettere a piangere una seconda volta.

Angolo autrice.。.:*♡

Yay, sono finalmente riuscita a finire questa one-shot! È da mesi che la scrivo, non ci posso credere di averla finalmente conclusa qwq
È una storia un po' forte, lo so, e capisco che qualcuno potrebbe essere rimasto un po' esterrefatto, nel dubbio gomen ᕙ(⇀‸↼‶)ᕗ
Beh probabilmente alcuni si sarebbero aspettati una FugoNara alla fin fine e devo ammettere che per un attimo un pensierino ce l'ho fatto anch'io, solo che poi ho realizzato che in questo contesto l'amore non c'entrava nulla e, anzi, avrebbe solo rovinato la storia, per quanto ami la FugoNara, rip-
Tra l'altro ho traumatizzato ancora di più Fugo, ops-
Vabbè, che dire? Spero vi sia piaciuta e spero di non avervi traumatizzati troppo, ecco--
Ciao ciao procioni~

~LtKRaccoon

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