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Era uno dei kombini più piccoli di Seoul, ci avrei giurato la mia cena. Uscii con in mano una bottiglia di soju e un gimbap al kimchi e manzo che avrei aperto non appena rientrata nella mia camera d'hotel. Feci fatica a salire alla mia stanza per via di una marea di gente che bloccava gli ascensori e quasi anche le scale; riuscii a malapena a rintanarmi nel corridoio del mio piano, venni sballotata tra la calca di ragazzine di poco meno la mia età tutte di origine coreana, non riuscivo a capire per cosa era destinato tutta quella confusione. Rientrai e notai con brutta sorpresa che la mia cena si era disfatta, avrei mangiato una frittata di quello che doveva essere gimbap, aprii il soju guardando tristemente il contenitore di plastica con riso e kimchi ovunque, sorseggiando delicatamente dalla bottiglia verde smeraldo per evitare di non ubriacarmi su due piedi. Rimasi a fissare la confezione quando sentii bussare alla mia porta con fin troppa violenza, sobbalzai dalla sedia e mi recai ad aprire facendo attenzione a non far cadere il liquido nella bottiglia del soju che tenevo avidamente tra le mani, con un risultato contrario, qualsiasi fosse stato il motivo di quella inflazione nel mio piccolo angolo di paradiso, e mezzo soju versato a terra. Chiuse la porta a chiave, e verifico dallo spioncino se ci fosse qualcuno all'esterno, io ancora ignara del soggetto che mi trovavo davanti. Bevvi un altro sorso più convincente dei primi, poi appoggiai violentemente la bottiglia al tavolo stando attenta a non rompere ne il vetro ne il legno, di soprassalto il ragazzo alto quasi due metri si girò mettendosi una mano sul petto per lo spavento che gli avevo procurato, certo, lo spavento glie lo avevo procurato io, non lui ad entrare nella mia stanza d'albergo negandomi la tranquillità della mia triste cena. Mi rimangiai subito tutto quello che stavo pensando dopo che lui si scostò il cappello dalla tesa, capelli neri e sorriso stampato in faccia. Il primo pensiero fu quello del 'mi ha pedinata fino al hotel?' ma ne dubitavo, come poteva Jacob seguire una sua fan che non sapeva quasi neanche camminare per uscire da un aeroporto. Il caso faceva più al caso mio. Con il cellulare cercai di tradurre qualcosa in coreano per provare a comunicare, ma mi precedette, «Scusa, le sasaeng...» fece un cenno con la testa i direzione della porta, io sgranai gli occhi cercando di capire se era inteso per me o per quel casino che si teneva fuori nell'atrio dell'hotel, anche se io non potevo di sicuro reputarmi una sasaeng, e non credo che lo avessi mai messo in atto.  Accennai qualche passo per nascondere la mia triste cena e sorrisi sforzandomi. Non passarono neanche quindici minuti che riapri la porta per verificare se le fan fossero finalmente dileguate, si rimise in testa il cappello e si richiuse la porta alle spalle lasciandomi lì senza un ringraziamento. 

Mi era passata la fame, posai il vassoio del gimbap nel minifrigo e mi fiondai in bagno per una doccia calda, ero stanca e volevo solo riposarmi dopo aver incontrato il mio ultimate per ben due volte e con motivazioni del tutto stravaganti. Finito il mio relax, ormai notturno, indossai il pigiama e mi sdraia sul letto recuperando il telecomando e accendendo la tv mentre mi ripassavo il coreano dal mio quadernetto nero, la mia attenzione venne però rapita dalla notizia che parlava proprio delle Sasaeng e che il fenomeno stava sfuggendo di mano; spensi la tv non volendo proprio pensarci, chiusi il quaderno e mi misi sotto le coperte. Non riuscivo a prendere sonno, forse per i semplice fatto che dormire con le luci accese non mi conciliava affatto il sonno, mi sedetti ma notai che non arrivavo all'interruttore, dovendomi alzare per forza mi spostai dopo aver spento la luce sul divano, le tende erano ancora aperte e le luce della Seoul notturna si vedevano brillare da quelle vetrate spettacolari, mi rannicchia per via del leggero freddo che sentivo, continuando a contemplare i palazzi, pensando al giro per le tante agenzie a chiedere e propormi per un qualsiasi lavoro. Ero partita per la Corea perché era il mio sogno da ormai un paio di anni, quello era il terzo e non c'è la facevo più a sentire i miei genitori, parenti e i loro amici di cercarmi un corso o un lavoro. Volevo qualcosa che mi rendesse felice, non una cosa a caso per rendere felice loro. L'unica cosa era scappare da tutto quello, e ora ero finalmente dove volevo essere, non sapevo ancora cosa mi si sarebbe parato davanti, ma ero certa di essere molto più felice lì in quella stanza d'albergo, da sola, ad osservare quel panorama.

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