伊藤流 - Itō-ryū*
4 dicembre 1944
Quando Tomo aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una foglia d'acero, rossa come il sangue, che volteggiava fuori dalla finestra.
Si chiese se era morto. Ma aveva fame e se c'era una cosa buona della morte doveva essere smettere di sentirsi la pancia vuota. Quindi, decise che era vivo.
Gli faceva male tutto. La testa pulsava, la gola ardeva ma il braccio destro sembrava riposasse sulle braci accese: era un dolore acuto e continuo, impossibile da ignorare. Gli sfuggì un piccolo gemito, simile più al guaito di un animaletto che al pianto di un bambino.
Non accadde nulla. Tentò di tirarsi su sul braccio sinistro, ma non aveva forze. Tutto si fece vago e indistinto e qualcosa di sapido e di caldo gli scivolò fra le labbra e giù nello stomaco. C'era qualcuno, che incombeva dall'altro, ma aveva gli occhi appannati e non poté distinguerlo. Fece solo in tempo ad avere paura.
***
Aprì gli occhi di nuovo, questa volta le foglie rosse che danzavano erano tre. La gola andava molto meglio, la testa sembrava a posto, il braccio faceva ancora molto male, ma era un dolore diverso, più spento, anche se sempre continuo. Si mosse fra le coperte, fuori faceva freddo.
«Sei sveglio?» domandò una voce anziana e severa.
«Sì» disse, dopo una lunghissima pausa. Fingere il contrario non aveva senso.
«Prova a tirarti su e a mangiare.»
Tomo si rese conto che non aveva più fame come prima. Un po' sì, come sempre, ma non era quella pressione terribile che non ti permetteva di pensare a nient'altro. Era solo un senso di vuoto da riempire, qualcosa da cui distrarsi sarebbe stato facile.
Tentò di sollevarsi e questa volta riuscì a mettersi a sedere. Si trovava in una stanza sconosciuta, in una casa sconosciuta. Era una specie di soggiorno quadrato, non molto grande, coperto di tatami. C'erano scansie di libri ben allineati, una stufa accesa, una grande finestra su un giardino roccioso e un tavolo, dietro cui sedeva un vecchio. Quello che aveva parlato, probabilmente.
Era vestito come un vecchio, con un kimono scuro pieno di sigilli, hakama e un haori imbottito. Era anche la prima persona che Tomo avesse mai visto portare il chonmage come i samurai dei libri. Sulle illustrazioni sembravano sempre molto epici, ma quello là, dal vivo, era solo un vecchio pelato e stempiato con una ridicola coda di capelli appiccicata in cima al cranio.
E poi c'era un problema: Tomo i vecchi li odiava.
«Posso andarmene?» domandò circospetto.
Il vecchio stava fissando qualcosa sul piano del tavolo, che dalla sua posizione Tomo non riusciva a vedere. Sollevò la testa e lo osservò, aveva occhi sottili come fessure e penetranti come spilli. «Quando sarai guarito» disse.
«Sono prigioniero?»
«E' una domanda stupida e io non sopporto gli stupidi.»
Tomo valutò che era meglio non insistere e cambiare strategia. «Chi siete?» domandò. Non era il tono cortese della gratitudine, più che altro quello provocatorio di una sfida.
«Mangia. Dopo parleremo.»
«Parliamo adesso.»
«Mangerai adesso e parleremo dopo.»
«Perché?»
«Perché così ho deciso, perché il cibo in quel piatto è il mio, perché sei debole come un uccellino e vali anche di meno.»
Tomo si sentì all'improvviso stanchissimo, esausto, terrorizzato e il pensiero di casa propria gli fece venire le lacrime agli occhi. Ne lasciò cadere solo una nella zuppa fredda mentre la divorava in silenzio. Aveva un sapore terribile.
«Chi siete?» ripeté, dopo aver posato a terra la scodella vuota e il cucchiaio.
Il vecchio sollevò di nuovo la testa e lo scrutò. Era un bambino singolare, il tipo di soggetto avventato e resiliente che in altri tempi avrebbe giudicato promettente. Senza dubbio meritava una risposta.
«Noma Tetsurou» disse. «E tu chi sei?»
Il bambino guardò in basso e strinse le labbra e i pugni. Non era una buona mossa, viste le condizioni del braccio, infatti la bocca serrata si deformò in una smorfia di dolore.
«Ti vergogni forse del tuo nome?» gli domandò Tetsurou.
Il bambino scosse il capo senza esitare.
«Allora ci sono solo due motivi per non volerlo dire: o sei un codardo o sei un ipocrita. Nel primo caso è una vergogna per la tua famiglia, nel secondo una colpa, per non aver saputo sradicare un difetto simile.»
Gli occhi che raccoglievano la luce divennero feroci. «Kuroo Tomo» sputò fuori e senza accorgersene raddrizzò le spalle e alzò la testa.
«Benvenuto nella mia casa, Kuroo Tomo.»
La tensione si allentò e le spalle del bambino si abbassarono.
«Sei dell'anno della scimmia?» gli domandò Tetsurou.
Quello scosse il capo «Del cane.»
«Del cane? Solo dieci anni? Sei molto alto per la tua età.»
«Lo so» rispose, con un fremito di vanità infantile che gli restituì la sua vera età.
«E come va il braccio?» gli domandò. «Molto dolore?»
«Abbastanza, se lo muovo o se lo tocco.»
«Le fasce sono pulite?»
Il bambino storse il collo per ispezionare la fasciatura senza ruotare la spalla. «C'è un po' di sangue» disse.
«Questa sera la cambieremo. Ora riposa.»
«Avrei delle domande» proseguì Kuroo Tomo, con una voce bianca accorata, spogliata di ogni provocazione. La mano sinistra grattava il tatami senza sosta, un gesto di nervosismo che non sfuggì a Tetsurou, così come non gli sfuggirono le dita dei piedi inquiete nei calzini troppo grandi e i capelli neri scombinati, che ogni tanto si ravviava con la mano. Non gli sfuggiva nulla.
«Anch'io ho delle domande» gli rispose senza scomporsi. «Ma aspetteranno. Per adesso, ci siamo presentati e abbiamo stabilito che sei ospite in casa mia, il che sancisce per ognuno di noi diritti e doveri precisi, ai quali faremo in modo di attenerci. E' stata una buona conversazione.»
«Però... »
Quanto incontrò lo sguardo freddo di Tetsurou, la bocca del bambino si richiuse all'istante, ma gli occhi non si abbassarono. Resistette al confronto per più tempo di quanto ci si sarebbe potuti aspettare e quando alla fine stornò lo sguardo, le labbra gli tremevano.
«E' stata una buona conversazione, per oggi» ripeté Tetsurou, parlando lentamente e con cortesia.
Il bambino restò a lungo in bilico fra lo sconforto e la spavalderia. Vinse quest'ultima e si gettò all'indietro sul futon, sbuffando forte e masticando scontento. Si era dimenticato del braccio ferito e, quando ricadde, l'impatto gli strappò un mugolio.
Doveva essere uno di quei caratteri forti, che non conoscono le mezze misure e hanno bisogno d'essere temprati per ricondurli a un giudizio oculato e principi sani. Ma era intelligente e sapeva valutare i rapporti di forza a suo sfavore; infatti chiuse gli occhi e riposò, come gli era stato detto di fare.
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* Itō è uno dei due stili tradizionali di disposizione dei pezzi sulla scacchiera. I pezzi vengono posizionati in un ordine preciso a seconda della tipologia, sempre con la punta rivolta verso l'avversario e badando a produrre il nekoma, ovvero il tipico rumore di schiocco.
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