𝐶𝑎𝑝𝑖𝑡𝑜𝑙𝑜 𝑈𝑛𝑜
Successe tutto così in fretta che nessuno avrebbe mai immaginato che quei giorni tanto divertenti, finissero in un istante...
Non scorderà mai il volto di Nozomi quando quel giorno...
***
Tutto iniziò tanti anni fa, tredici per l'esattezza. A quei tempi avevano solo cinque anni. Delle bambine delle elementari insomma, eppure ricorda benissimo ancora adesso come tutti dissero quanto sembravano grandi rispetto alla loro età reale.
Ma ora lasciamo perdere questi dettagli e iniziamo con la vera storia.
Questa non è la tipica storia di un'amicizia tra umani, questa è la storia dell'amicizia tra due vampiri e un umano. Un'amicizia che passerà alla storia.
Iniziamo raccontando la storia della vita del ragazzo...
***
Lui e sua sorella erano sempre stati uniti da un legame quasi magico. Fu lei, la sua pianista preferita, ad insegnargli a suonarlo. Suonavano e cantavano sempre insieme la sua canzone preferita, la canzone che lei stessa aveva scritto. La madre si metteva spesso di fianco a loro ad ascoltarli.
Le giornate passavano così, tra risate, musica e scuola di pianoforte. In men che non si dica, arrivò il debutto del ragazzino come pianista e la sua prima competizione con altri pianisti. Ad essere sincero non pensava che si sarebbe aggiudicato il primo posto, anche se tutti gli dicevano sempre che sembrava a tenshi quando suonava e che era un vero e proprio tensai visto che imparò a suonare il piano a soli quattro anni. Ricordava ancora la gioia che provò quel giorno; ricevette anche un regalo dalla sua sorellona: un bellissimo berretto con visiera rosso. Il suo sorriso scomparve quando sua sorella, seduta sulla sedia a rotelle, iniziò a tossire sangue su un fazzoletto di stoffa.
Lily era sempre stata di salute cagionevole, ma il giorno prima della competizione del fratello, lui le sentì parlare... Sua madre stava parlando di ciò che le disse il dottore... Hai meno di un mese di vita.
Quella frase rimbombava nella testa di Skikon. Anche se cercava di cacciarla, non riusciva a non pensarci.
Il padre li abbandonò quando il ragazzo nacque e nessuno della famiglia seppe mai il perché, ma la madre se la prendeva sempre con lui e rimproverava la sua nascita. Per lei era solo uno strumento per far soldi, per questo, quando quel giorno, che non potrà mai dimenticare, arrivò...
«Dai mamma... Voglio andare all'Acqua Park!», disse lui, saltellando su e giù da una parte all'altra del salotto. «Ti ho detto di no.» Il suo solito tono freddo gli fece venire i brividi. Non poteva obbiettare, non poteva rispondere o lo avrebbe di nuovo picchiato mentre Lily sarebbe stata in camera sua a riposare.
«Andiamo mamma, facciamo contento Skikon qualche volta. È stato davvero un bravo bambino in questi giorni.» La voce di sua sorella, alle sue spalle, che diceva ciò, lo fece sobbalzare dalla sorpresa ed un sorriso di speranza prese forma sul suo volto.
«E va bene, ma solo per sta volta», disse la madre con fare seccato. «YATTA!», esclamò e iniziò a saltare per tutta casa canticchiando Andiamo all'Acqua Park! tutto contento. Andò a letto presto così da potersi svegliare per primo la mattina seguente e essere già pronto.
Come da programma si svegliò per primo, si preparò e dopo aver svegliato le due dormiglione, si misero in viaggio.
Quel giorno doveva essere il suo compleanno, avrebbe dovuto compiere cinque anni e festeggiare all'Acqua Park come un bambino normale, ma invece...
«Siamo arrivati?» Saltellava in piedi nei sedili posteriori impaziente. «È la decima volta che me lo chiedi, sta buono e siediti o faccio retromar-», si girò a guardarlo. Grosso errore.
«MAMMA!», urlò Lily. Un camion stava venendo contro di loro, la madre non fece in tempo a frenare e cambiare direzione che... In realtà non seppe realmente cos'accadde di preciso, si risvegliò sotto il sedile della sorella. Si alzò di scatto sbattendo la testa ed uscendo da là sotto. «Onee-san? Ci sei? Onee-sa-» Quando si alzò del tutto e si girò, la vide. La povera Lily, con la testa contro il vetro della macchina. Aveva la parte destra della testa unita al vetro, con pezzi di vetro conficcati in tutta la faccia e con un occhio fuori dall'orbita che penzolava. Sangue e vetri rotti ovunque.
Un bambino di appena cinque anni non avrebbe mai dovuto vedere una scena del genere, ma purtroppo la vide e di certo non potrà mai dimenticarsela tanto facilmente.
Un'agente lo prese tra le braccia, ma il ragazzo tentò, in vano, di dimenarsi per liberarsi dalla presa ferrea dell'uomo. Voleva restare con la sorella. Ancora un altro po'... Disse a sé stesso. L'uomo lo lasciò a sua madre che gli fece seppellire il viso nella sua gonna. Era così scioccato che non riusciva nemmeno a piangere. Quella scena ancora fresca sulla sua retina. Non vedeva altro, non voleva vedere altro. Era un bambino normale, ma ora tutto il suo mondo era cambiato. Si era frantumato in tanti pezzettini. Sua sorella era tutto per lui, era l'unica che ci tenesse realmente a lui e che non lo vedesse solo come un oggetto da usare per arricchirsi.
Qualche giorno dopo andarono al funerale. Quel giorno pioveva forte e lui non staccò nemmeno per un momento gli occhi dalla sua bara. Voleva piangere, ma le lacrime non uscivano. «Torniamo a casa», bisbigliò la madre. Non c'era più nessuno oltre loro due. Erano là da ormai un'ora, da soli. Si girarono e se ne andarono. Quei giorni furono gli unici in cui la madre, troppo scossa per ciò che accadde, si preoccupò realmente per il figlio.
Dopo l'accaduto sua madre iniziò a nutrire ancora più risentimento nei confronti del figlio e lui non riusciva più a suonare. Ogni volta che ci provava, le sue mani si bloccavano sospese in aria sul pianoforte e le dita non si muovevano.
Un giorno mentre era a lezione gli capitò proprio di fronte alla madre, sbatté le mani contro il piano e corse via, senza guardare nessuno. «Suo figlio... Non riesce più a suonare...» La maestra era rammaricata, lo si poteva notare benissimo. «Se non può più fruttarmi soldi, non mi serve più a nulla.»
«Come può dire una cosa del genere di suo figlio!»
«Lui non è più mio figlio.» Si girò e se ne andò senza dire altro. «Mi spiace per quel povero ragazzo...», disse sottovoce la maestra.
Da quel momento Skikon abbandonò la musica. Si sentiva in colpa, ma soprattutto si sentiva tradito e abbandonato.
«Mi avevi promesso... Che non mi avresti mai lasciato... Me l'avevi promesso...», disse, in un fil di voce, guardando la foto di loro due sorridenti, dove vi era anche il suo berretto appoggiato - non riusciva più ad indossarlo. Le lacrime uscirono da sole e si coprì il volto tra le braccia, appoggiandosi sulle ginocchia. «Usotsuki...», sussurrò rammaricato, ma in fondo, secondo il ragazzo, era colpa sua se era morta in un modo così orrendo. Aveva chiesto lui di andare all'Acqua Park dopotutto. Se solo mi fossi fatto i cazzi miei, tu saresti ancora viva... Pensava continuamente.
Iniziò ad andare a scuola e siccome non aveva più ricevuto affetto dopo la morte di Lily, iniziò ad uscire con tutte le ragazzine della sua scuola. Ne cambiava una ogni settimana. Uscì anche con Nozomi, una ragazzina davvero strana, gentile e premurosa con tutti, ma soprattutto facile da manipolare. Molti dicevano fosse una vampira, ma non gl'importava più di tanto. Voleva solo poter dire a tutti di essere uscito con tutte le ragazze della scuola.
Un pomeriggio, mentre stava uscendo con due ragazze, le vide passargli di fianco: Nozomi con una ragazza che non aveva mai visto. Non si voltarono, ma lui sì. Le guardò andare dalla parte opposta e parlottare tra loro di qualcosa che non riuscì a cogliere. «Skikon? Che succede? Qualcosa non va?»
«No tranquilla, tutto a posto. Quindi? Dove volete andare?»
«D'ovunque tu voglia.» La seconda ragazza era abbastanza vivace. Gli dava un po' fastidio a volte, ma un gentiluomo non dice certamente certe cose. «Nah, andiamo dove volete andare voi invece», ridacchiarono di gusto. Bene, le avevo calmate, pensò. Cenarono in un ristorante, le accompagnò a casa e se ne andò. Una volta arrivato davanti alla porta di casa, come sempre, fece un gran respiro ed aprì la grande porta in legno. Lei era lì ad aspettarlo come ogni singola volta che rientrava a casa tardi.
«Dove sei stato. Perché fai sempre tardi?!» Non erano realmente domande. Non disse nulla. Lo schiaffeggiò di nuovo, ormai lo faceva quasi tutti i giorni. «A letto senza cena», disse infine. Mentre Skikon saliva le piccole scalinate che portavano in camera sua, sentì sua madre parlare fra sé e sé. «Perché? Perché doveva sopravvivere lui e non la mia piccola Lily? Perché proprio un mostro inutile come lui?» Non ci diede molto peso, anche se ammise che, almeno una volta ogni tanto, avrebbe preferito ricevere degli elogi invece che dei maltrattamenti. Entrò in camera e chiuse rapidamente la porta dietro di sé, si appoggiò su di essa e si lasciò scivolare a terra. Ormai per Skikon era consueto fare così dalla morte di Lily. Portò le ginocchia al petto e seppellì la testa, infine strinse le ginocchia con le mani fino a far diventare le proprie nocche bianche. Sì, aveva abbandonato la musica che loro due amavamo così tanto, ma ne aveva scoperta una nuova: il rock. Ad insaputa della madre si era comprato una chitarra e quando desiderava sfogarsi la suonava o semplicemente la distruggeva- sbattendola contro il pavimento - e ne comprava un'altra. Imparò da solo a suonarla, gli veniva naturale e era l'unica cosa che sapeva realmente fare. Quando sentiva che stava per arrivare la madre, nascondeva la chitarra nell'armadio - non controllava mai là dentro, in realtà non entrava nemmeno perle pulizie, infatti era Skikon che puliva la sua stessa camera - e si metteva sotto le coperte fingendo di dormire. Ogni tanto invece passava le ore seduto là contro la porta a pensare al nulla cosmico guardando ogni tanto la foto dei due sorridenti sul suo comodino. Skikon, rispetto agli altri ragazzi, era - ed è - molto ordinato - forse anche troppo -, quindi la sua camera era sempre in ordine e comunque non aveva granché nella stanza - un comodino, un letto, un armadio. Sua madre non gli comprava mai nulla, gli dava solo giusto da mangiare- e a volte manco quello.
Il giorno dopo, prima di uscire dalla sua stanza, guardò la foto sul comodino ed i suoi occhi si posarono sul berretto. Lo prese fra le mani e lo indossò con decisione a mo' di rapper e fece passare il suo ciuffo biondo dalla fessura del cappello uscendo dalla stanza. Scese le scale e si sedette sulla sedia per fare colazione. «Ohayo nee-san», disse guardando la foto della sorella, ma la madre prese la foto e la fece sbattere sul tavolo in modo che non potesse vederla. «Quante volte devo dirti di non rivolgerle la parola?! Va immediatamente a scuola!», disse, rimproverando il ragazzo che si alzò dalla sedia ed uscì di casa in silenzio.
Una volta arrivato al cancello della scuola, come sempre, si colpì le guance con le mani e corse incontro agli amici sorridendo e salutandoli. Non devono vedermi in questo stato, pensò ridicolizzandosi. Si odiava con tutto sé stesso. Odiava addirittura i suoi capelli di un biondo albino. Ironico, no? Per lui non lo era. Era normale odiarsi più di chiunque altro. Odiava addirittura la sua vita, ma non ha mai pensato al suicidio – per lui era da deboli porre fine alla propria vita e non voleva mostrarsi debole - e non disse mai di odiare sua madre per quello che gli faceva passare: le pene dell'inferno.
«Hu? Davvero? Non sapevo che fosse una vampira», rispose abbastanza interessato. «Skikon, fidati, sta lontano da Daisy e Nozomi. Soprattutto da Daisy. I vampiri non sono nostri amici.»
«Ora la faccenda mi intriga ancora di più!»
«Ma mi ascolti quando parlo?», obbiettò l'amico. «Sì sì. È solo che vorrei poter dire a tutti di essere uscito anche con la più temibile dell'intera scuola! Andiamo Frank, è l'unica con cui non sono ancora uscito.»
«Certo che tu non cambi proprio mai... Se ti accade qualcosa, non ne voglio sapere nulla!»
«Ok ok», ridacchiò di gusto e dopo le lezioni andò nella loro classe ad incontrarle.
***
Erano sempre state sole. Nozomi era più piccola di Daisy di due mesi e lei doveva sempre prendersene cura - come fosse una sorella maggiore -, altrimenti si cacciava nei guai.
La loro non era la tipica famiglia, insieme a loro vivevano anche altre persone. Alcuni umani, altri vampiri. Erano famiglie miste insomma, ma si definivano un'unica grande famiglia. Almeno qui potevano essere sé stesse...
«Stai ancora studiando?», chiese una voce dolce di fianco a lei che la riportò alla realtà. «Sì», disse semplicemente. Non era mai stata brava coi discorsi. «Tsumannai...» E poi nella stanza cadde il silenzio. «Hey Daisy... Mi spieghi come mai studi così tanto?», domandò Nozomi incuriosita. «È l'unico modo per superare mia madre e far in modo che sia fiera di me. E poi ti ricordo che diventerò regina un giorno.» Non voleva davvero diventarlo, ma era il suo destino e non poteva di certo cambiarlo.
«Anche tu dovrai succedere a tua madre un giorno, Nozomi», disse soltanto, facendo cadere di nuovo il silenzio nella stanza color nero pece. «E se non volessi?» Non la guardò in faccia, si limitò solo a dire quello che le passava per la mente in quel momento. «Nemmeno io voglio, ma non possiamo di certo tirarci indietro.» Questi discorsi Daisy se li faceva tutti i giorni. Guardami mamma... Pensava, voleva con tutta sé stessa che la madre la elogiasse almeno per una singola volta. Alla fine non succedeva mai e la ragazza fingeva che andasse tutto bene. Crebbe troppo in fretta, con un'etichetta e un insegnamento molto duri. Teneva duro e ogni volta sperava che la madre la guardasse, anche se non accadeva mai.
«Sai, la mamma sta un po' meglio in questi giorni. Mi sta insegnando a disegnare abiti.» Non era molto sicura di dirlo all'amica. Sapeva che il rapporto di Daisy con la madre era un po' difficile e incrinato. «Ah, davvero? Sono contenta per te», disse soltanto senza nemmeno guardarla. Era davvero contenta per lei, allora perché non riusciva a guardarla? Nemmeno lei sapeva darsi una spiegazione.
«Voglio andare al mare», sospirò Nozomi dopo molti minuti di silenzio, dove l'unico rumore nella stanza era quello dei tasti virtuali del computer di Daisy. Da loro il tempo scorreva diversamente, quindi le stagioni passavano in fretta - se da noi era inverno, da loro era già estate. «Un giorno ci andremo», rispose fredda come il ghiaccio. Rispondeva sempre così, ma a Nozomi non dava fastidio. Daisy si preoccupava anche più del dovuto di lei, quindi a Nozomi faceva piacere che la sua migliore amica potesse essere realmente sé stessa una volta a casa.
«Pensi che un giorno gli umani ci accetteranno per quello che siamo?», chiese, cambiando discorso e giocherellando con la matita sulla scrivania dell'amica. «Non penso tu stia parlando sul serio.»
«E perché no? Almeno non ci tratterebbero come fanno ora...»
«Tu non capisci! Gli umani ci vedono come semplici mostri!» Sbatté le mani talmente forte sulla scrivania in legno nero pece che fece sobbalzare l'amica. «Scusa... Non volevo», disse infine.
«Non fa niente... So che sei la prima a volere che la situazione cambi...»
«So che non accadrà... Gli umani non capiscono e non lo faranno mai», rispose solamente senza nemmeno guardarla. «Va da tua madre, sta un po' con lei», aggiunse fissando lo schermo trasparente del suo monitor.
La tecnologia in quel piccolo mondo, sperduto nell'universo, era molto diversa dalle tecnologie normali che si vedono tutti i giorni nel nostro mondo. Gli elettrodomestici erano automatici, i computer erano all'avanguardia ed avevano tastiere e monitor olografici - i rumori dei tasti c'erano lo stesso. I telefoni erano di una generazione inesistente e migliore della nostra.
«Va bene», rispose Nozomi infine, avvicinandosi ed aprendo la grande porta scorrevole giapponese, anch'essa nera pece come il resto della stanza, ed uscendo. Si diresse al piano di sotto, dove si trovava la stanza della madre.
Il palazzo era formato da quasi trenta piani e più di cento stanze - vi erano cinque stanze in ogni piano -, ti potevi perdere se non stavi attento. Le scale erano fatte in modo tale da non sbagliare piano, in quanto la prima scalinatasi trovava a destra. La successiva la si poteva raggiungere andando sempre dritti verso la sinistra – le camere erano posizionate in modo che fossero tutte vicine tra loro in fila indiana - e poi di nuovo a destra e così via fino all'ultimo piano. Inoltre vi erano la stanza ricreativa, la stanza dei bambini, la stanza per gli animali, l'infermeria, la sala giochi - anche se un po'piccola -, il salotto, la cucina - entrambe al piano terra -, due stalle in legno d'acacia – collegate all'ingresso -, un seminterrato - collegato a tutti gli armadi del palazzo (spiegherò più avanti nella storia) e che portava al retro del palazzo dove si trovava una sala allenamenti all'aria aperta -, un giardino con piscina ed infine la soffitta. Tutti stavano alla larga dalla soffitta, nessuno osava avvicinarsi, nemmeno di un centimetro, alla sua porta. Era all'ultimo piano e vi era di tutto in quella stanza, addirittura un mostro dormiente. Nessuno sapeva come ci fosse finito là, ma non volevano nemmeno toglierlo o sarebbe diventato un problema, per cui quella stanza per loro era come inesistente o almeno fingevano non esistesse - anche se, qualche volta, qualche mal capitato ci è finito dentro, ma questa è una storia per il futuro.
Nozomi si mise di fronte alla porta della stanza della madre e bussò piano. «Sì?», rispose una voce stridula al di là della porta. «Sarà tua figlia.» Si sentì rispondere. Nozomi rimase un attimo ad osservare la grande porta scorrevole. Era di un magenta acceso, adorava quel colore e anche la madre. Tutto il palazzo era in stile giapponese e si potevano benissimo notare le decorazioni sulla porta. «Perché non entri?» La voce della madre la distolse dai suoi pensieri. La piccola aprì la porta ed entrò. «Ciao Daisy», disse un po'timorosa. Aveva molta stima della donna accanto alla madre, che sapeva benissimo essere la madre della sua migliore amica, ma a volte le incuteva molta paura. «Tolgo il disturbo», disse la donna uscendo dalla stanza. «Qualcosa non va, piccola mia?», chiese Rubino in pensiero. Nozomi scosse leggermente la testa in segno di negazione. «È solo che... Credo di aver fatto arrabbiare Daisy...» Non riusciva a guardare in faccia la madre, guardava fissa il pavimento in marmo color magenta. La madre ridacchiò di gusto e le scompigliò leggermente i capelli. «Sta tranquilla, Daisy non è arrabbiata conte, si è solo irritata. Sai com'è fatta, ha preso da sua madre dopotutto.» Le fece un dolce sorriso, ma poi si portò una mano alla bocca ed iniziò a tossire sangue. «Okaasan?», disse piano la bambina. «Sì, sto bene tranquilla.» Le sorrise dolcemente. Nozomi non disse nulla, non sapeva che dire. Ogni tanto sentiva lei e Daisy discutere della sua salute.
Nozomi scese di fretta le scale e si diresse alla porta della stanza della madre. Fece per bussare, ma sentì una voce al di là della porta. «Se non prendi le pillole, la tua salute peggiorerà», disse semplicemente, guardandola preoccupata. «Cosa cambia se le prendo o meno? Di certo non faranno sparire la mia malattia.»
«Magari non la farà sparire, ma ti darà almeno più tempo di vita!»
«E far soffrire mia figlia? Daisy, non ce la faccio a vederla così. Ogni volta che mi guarda... Tu non hai visto che volto ha...» Non riusciva a guardare l'amica che è sempre stata al suo fianco fin adesso. «Se proprio non vuoi prendere quelle maledette pillole per te stessa, almeno fallo per tua figlia! È ancora troppo piccola per perdere sua madre... Sta con lei finché puoi o te ne pentirai quando morirai.»
Nozomi corse via poco prima che la porta si aprisse. Si chiuse in camera sbattendo la porta alle sue spalle. Le lacrime iniziarono a sgorgare dai suoi occhi. Guardò il disegno del suo nuovo abito color magenta appena disegnato. Voleva mostrarlo alla madre per poter vedere il suo sorriso, ma cacciò via l'idea e si buttò sul letto.
La piccola non faceva mai uscire l'argomento, ma con l'amica ne parlava spesso, anche troppo spesso. Non voleva che la madre si preoccupasse per lei e non voleva dover contare su di lei. Voleva poter contare sulle sue proprie forze fino all'ultimo momento, anche a costo di farsi del male. Questo l'aveva fatta crescere più in fretta dei bambini normali della sua età e non le dispiaceva, anche se a volte desiderava soltanto poter avere una vita normale.
Tornò dall'amica al piano di sopra ancora scossa dall'accaduto. «Che è successo?», chiese Daisy, continuando a scrivere qualcosa sul suo computer. «N-nulla... Il solito...» Si asciugò le lacrime. Le aveva trattenute tutto il tempo mentre si trovava con la madre ed ora non riusciva a smettere di piangere. «Secondo te... Quanto resta amia madre?», chiese ancora tra i singhiozzi. «Chi può dirlo... Se prendesse seriamente la questione delle pillole... Forse tre o quattro mesi.» Nozomi non rispose. Annuì semplicemente e si sedette accanto a Daisy. «È successo di nuovo, vero?», chiese Daisy, chiudendo il monitor olografico del suo computer portatile e guardandola. Nozomi annuì di nuovo e il silenzio prese possesso nuovamente della stanza. «Andiamo a fare un giro, ti va?» Le porse la mano e Nozomi l'afferrò. Si buttarono dal balconcino della piccola stanza e si diressero in città.
Camminando per le strade, Nozomi vide una coppia con la propria figlia che giravano per negozi. «Papà, papà! Me lo compri?», chiese la piccola al padre. Nozomi si bloccò a guardare la piccola famiglia felice, provando anche un po' d'invidia. Daisy, con la coda dell'occhio, notò che Nozomi fissava la famiglia e le strinse la mano. «Su andiamo. Non abbiamo bisogno di genitori fin quando saremo insieme.» Nozomi annuì e ripresero a camminare. Sapeva che anche Daisy provava ciò che anche lei stava provando in quel momento, ma dovevano essere forti. A Daisy, in quell'esatto istante, venne in mente l'unica volta in cui la madre si comportò come tale con lei.
Era anche quella volta estate e poteva avere ancora quattro anni a quel tempo. Faceva più caldo rispetto al solito ed i vestiti creati appositamente per quel clima non davano l'effetto sperato che solitamente avevano. «Daisy, da oggi sei abbastanza grande per diventare una vampira.»
«Sì, mamma.» Daisy era nervosa. Non voleva diventare una vampira e dire per sempre addio alla sua anima, al rumore del battito del suo cuore, ma sapeva benissimo che era l'unico modo per sopravvivere in quel mondo in cui vigeva la legge del più forte. Kill or Be Killed era questa la legge che tanto odiava, ma purtroppo vi erano gravi pericoli in quel piccolo mondo e di certo se restava umana, non sarebbe mai riuscita a sopravvivere.
La madre la morse cercando di far più piano possibile per evitare di far male alla piccola o rischiare di ucciderla. Quel giorno fu il primo, di una lunga lista, in cui iniziò la sua nuova vita e il suo lungo e faticoso addestramento, da parte della madre, per non ferire gli umani, cacciare prede nel bosco ed imparare tutto ciò che vi era da sapere sui vampiri e i loro poteri.
«Daisy?», disse piano Nozomi. «Nulla tranquilla, ero solo assorta nei miei pensieri.» Scosse la testa leggermente, accennandole un piccolo sorriso. E, dopodiché, le due piccole passarono il resto della giornata in giro.
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