86: Make it better.


Che giornate di merda.

Inizialmente ho dovuto fare il babysitter a mia madre, mentre le lacrime si accumulavano nello stomaco, dove provavo a ingoiarle con indifferenza: so che non è nulla di grave, ma vedere mia madre stesa su un letto, indifesa, senza le sue parole pungenti e la sua solita vitalità, che cerca aiuto perfino per mangiare, colpisce al cuore come un pugnale d'argento. Ogni ora dovevo entrare nella sua stanza, che era già carica di troppi ricordi scomodi, e dovevo darle da bere, da mangiare, dovevo controllare la flebo, dovevo aiutarla ad andare al bagno, e poi dovevo leggerle i racconti che scrivevo da piccolo, quando per distrarmi dalla realtà scrivevo, prima della droga. Sembrava una battuta, ogni volta che mi chiedeva: "Mi leggi un tuo racconto?". Come se fosse fiera del mio passato più di ciò che sono diventato. Per me, tornare nel passato con questa velocità, dove tutti i problemi della mia famiglia, di me, dei miei sogni si riversavano come un fiume in piena mi ha fatto male, e come facevo prima e faccio sempre, quando mi sento male uso la mia amata morfina, il mio gioco preferito. Serve per diminuire il dolore, per rallentare il respiro, ma causa ansia, e l'ansia si manifesta attraverso attacchi di panico, che provocano dolore e aumentano il respiro. Per passarli, uso la morfina, in un circolo continuo di dolore e piacere. E in fondo, la morfina è diventata più una vecchia amica di cui non riesci a liberarti che un vizio.

Fortunatamente, nel giro di quattro giorni mia madre stava già meglio, riusciva ad andare al bagno da sola e a mangiare i frullati che le facevo, perciò quando sembrava essere passato il peggio, una sera ingoio una manciata di pasticche di morfina, per distruggere il solito dolore psichico che comincia a svilupparsi ogni volta che entro nella mia vecchia camera e vedo il sorriso della giovane Arleene, la mia guerriera. Prendo il telefono, cerco il suo numero nella rubrica, ma mentre lo faccio mi sento girare la testa, che improvvisamente comincia a pulsare violentemente. In preda ad una confusione totale nella quale la morfina fa a botte con il mio battito cardiaco, vomito la cena e un paio delle pillole che avevo ingerito, poi cerco le altre droghe che tengo sempre qui, nella mia vecchia casa, nella mia vecchia camera, legate con lo scotch dentro il secondo cassetto, sotto tutti i quaderni scritti in una calligrafia che non riconosco più. Mentre mi pulisco il vomito con il polso, noncurante del mucchietto vicino al mio letto che puzza di morte, prendo un sacchetto trasparente, spargo la polverina sulla mia scrivania, e con un righello di metallo sistemo la striscia, mettendo l'eccesso di nuovo nella bustina, che sembra minuscola ma è in grado di stendere un cavallo, se ingerita tutta in una dose; una volta richiusa, cerco il mio portafoglio. Prendo un dollaro, lo arrotolo con cura, come se fosse una cartina piena di tabacco, e aspiro velocemente dalla narice destra la cocaina, una delle tante droghe provate e una delle poche che faccia un effetto decente sul mio corpo, distrutto da danni psichici irreversibili inflitti dalle persone a me più care e da me stesso. Prendo di nuovo il telefono, digito quel maledetto numero che so a memoria e aspetto. -Porca puttana- dico calmo quando non risponde per la dodicesima volta. Mi stendo sul letto e guardo il soffito, sul quale spesso appendevo i miei sogni, le mie richieste di aiuto, che volavano sopra le teste di tutti mentre nessuno alzava lo sguardo. -Pronto, chi è?- sento, finalmente, con quella voce bella come le stelle. -Arleene, sono io- le rispondo, e il suo respiro si unisce all'enorme ammasso delle cose che mi fanno male ogni volta che respiro, rendendo sempre più difficile la mia esistenza.

Mi rifugio nel bagno dell'aeroporto come se fosse un rifugio protetto, che però è appariscente come tutta Las Vegas, e mi do una sistemata: sistemo i miei capelli, mi sciacquo il viso, osservo per un po' le mie occhiaie, leggermente diminuite, e abbasso le maniche, cercando di sembrare normale. Non che mi sia mai riuscito. Poi, raggiungo il bar e ordino un caffè doppio con un croissant, pagandolo tutto con dollari dai quali avevo pippato l'altro giorno, mentre decidevo che farne della mia vita, che farne delle persone che ne fanno parte. Ringrazio il cameriere e mangio avido tutto quello che mi ha portato, poi mi dirigo all'uscita, e da lì prendo un taxi per raggiungere la piazza nella quale Arleene mi ha dato appuntamento. Lo stomaco brontola, e so che lo fa per l'impazienza di rivederla, di parlarle e di chiarire.

-Ciao- mi saluta, e io vengo investito da quella colonia, la solita che ha sempre messo, che sa di rosa e di gelsomino. -Ciao- le rispondo, guardandola: è ingrassata, ha i capelli più corti, un colorito più luminoso e tutto in lei mi dimostra che è stata meglio senza di me. Io, invece, sembro uno uscito da un manicomio, messo dentro dei vestiti decenti e con gli occhi meno rossi del solito:-Che facciamo?- mi chiede. -Per quello che devo dirti, mi basta fare una camminata- le dico, e lei mi sorride raggiante, facendomi capire che non ha più paura di me, ma che mi considera come un fratello minore. Forse, come in passato, le sue parole riusciranno a cambiarmi.

Passano le ore, e con esse finisce la saliva in bocca ma nasce la voglia di cambiare, che mi porta a sognare lontano, come una volta. Parlo con Arleene con una naturalezza che non mi riconosco di avere, e mi aiuta a decidere che farne della mia vita, che al contrario di come pensavo, è ancora troppo giovane per lasciarla alle droghe. Mi dà un numero, mi dice di chiedere informazioni su quell'associazione a San Diego, mi aggiorna su Gwen, un'altra radice del dolore che mi accompagna da anni, e poi mi saluta, mentre mi riporta all'aeroporto, lasciando il vecchio Shaq tra le luci violente di Las Vegas e consegnando quello nuovo alla sua vita di merda, che adesso spera di migliorare. Come? Prima, cerchiamo di smetterla con tutte queste droghe, o almeno, con la maggior parte di esse. Poi, cerchiamo di ristabilire il contatto con Gwen, parlandole e chiedendole scusa come ho fatto con Arleene. Dopo, cerchiamo di riprendere le redini di questa mia vita in corsa, evitando di far schiantare entrambi contro un muro e cercando di farmi vivere almeno qualche anno di felicità, o di pace.

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