43: Storm.


Ormai smetto di correre. Non ho più forze, né voglia. Frugo nelle tasche, trovando le sigarette che raramente fumo, essendo uno spreco di soldi: ne accendo una, ma si spegne subito, perciò prendo tutto il pacchetto e lo getto a terra, lasciandolo imprimere di pioggia, di lacrime, di tristezza. Frugo ancora, e prendo il mio telefono, che si bagna subito: nel lettore musicale, faccio partire "Old Love, New Love", e osservo le chiavi di casa che dovrò restituire a Logan.

Partono tutti dopo di me, tutti insieme, tutti sorridenti.

Io invece parto dopodomani, alle luci dell'alba, come sempre sola e depressa. Eppure, nonostante il pugnale nel fegato, che corrode pensiero e fisico, sto bene. Davvero.

Mentre rimugino cercando di capire cosa non va, seduta sotto il porticato di una casa, rannicchiata e con i capelli zuppi di pioggia, una macchina nera si ferma di fronte a me, e suona il clacson. Io la sto per mandare a quel paese, quando osservo il guidatore: un ragazzo dai capelli castani, tenuti indietro dal solito chignon, e quegli occhi color tempesta che mi hanno pietrificata giorni fa, che a volte aleggiano nei miei pensieri con insistenza. -Tyler?- lo chiamo inutilmente, ma lui scende dall'auto con un ombrello, facendo tuonare i suoi passi più violentemente dei fulmini che rombano nel cielo. -Sali- mi invita, e gli sorrido tristemente, per poi sistemarmi di fianco a lui e bagnargli tutto l'abitacolo. Lo osservo: ha i capelli più lunghi di quanto mi immaginassi, legati in una crocchia scomposta che lascia alcuni boccoli, molto femminili, liberi, che gli incorniciano il viso dalla mascella squadrata. Porta degli occhiali circolari e ha un accenno di barba; il corpo, completamente tatuato, mostra dei muscoli che erano rimasti nascosti dal camice da infermiere, e le gambe lunghe sono vestite con dei jeans scoloriti, strappati e macchiati, mentre degli stivaletti di cuoio neri e logori completano il suo look, talmente esotico da farmi incuriosire. -Scusa...- dico, alludendo al sedile completamento fradicio:-Non preoccuparti. Vuoi andare a casa tua?- mi chiede, e capisco che ha azzeccato il punto con una rapidità eccezionale: non mi ha chiesto dove volevo andare, ma se voglio tornare a casa. In altre parole, se ero seduta davanti a quella casa perché mi ero persa o perché volevo perdermi. -No- gli rispondo, e improvvisamente aumenta di velocità, sfrecciando per le strade bagnate e grigie come i suoi occhi, che minacciano una tempesta più forte di quella che c'è fuori, di quella che c'è tra me e Gerald. Grigi come quelle nuvole che adesso escono dalla mia mente e popolano questa macchina, questo cielo, mentre aggrotto le sopracciglia e mi chiedo se lui può aiutarmi a capire cos'ho che non va, ultimamente.

-Grazie- gli ripeto quando mi porge una tazza di tè bollente. -Non c'è di che. Ne hai bisogno- dice, e si appoggia al logoro divano del suo soggiorno. Nella sua casa, riesco a vedere il vero Tyler, che mi sorprende molto di più di quello che credevo di conoscere: l'abitazione è una specie di enorme garage in mattoni decorato qua e là da murales in bianco e nero, e il soggiorno è fatto da un paio di divani vecchi, un tavolino, una televisione, un computer appoggiato su un comò, e subito di fianco, separato da una penisola, un piccolo angolo cucina. La camera da letto, che non riesco a vedere, è posta dietro una libreria enorme che sfiora il soffitto, e il bagno è l'unica parte isolata con delle mura della casa, che è grande ma scarsamente illuminato. Lui dà l'aria di essere pericoloso e bellissimo, mentre sfoggia i suoi tatuaggi con la canottiera nera aderente che indossa, e adesso che ha i capelli slegati, osservo la sua chioma da leone di un castano dai riflessi argento, che gli arriva alle spalle:-Altro che infermiere...- alludo al suo aspetto da motociclista, e lui ridacchia. -In effetti non do una buona impressione. Ma non voglio darla- dice, e annuisco:-Tra quanti giorni parti?- sorseggio il tè, che intuisco è al mirtillo, poi rispondo: -Tra due giorni, alle sei di mattina- lui beve il suo tè, che ha un colore simile alla buccia di un avocado, con calma e quasi gentilezza. -Sei ancora in tempo per risolvere le cose, se vuoi- mi sorprendo ancora una volta di come faccia ad arrivare dritto al punto, senza dover fare domande inutili e fastidiose. -Come fai?- gli chiedo, con la voce rotta dal dolore che quell'emorragia provoca, quell'emorragia di problemi:-Ti si legge tutto negli occhi, e se hai studiato psicologia come me riesci a capire quell'alfabeto facilmente- sorrido, sinceramente. -Quante cose hai studiato?- si allunga e prende un libro alto e pesante, per poi rispondere:-Sto studiando tante cose, in effetti...- me lo faccio passare e leggo il titolo: "Arti greche e romane". Sfoglio il libro, che è pieno di post-it e sottolineature leggere con il lapis, e lo osservo scrutandolo in silenzio. Quando finisco il mio tè, gli chiedo:-Chi sei tu, Tyler?- lui scuote la testa e si guarda la punta degli stivaletti:-Tutto e niente, mia cara Eleanor. Tu, invece, chi sei?- e quella domanda mi rapisce di nuovo, combinata al lampo viola che gli scorre lungo l'occhio sinistro, come se fosse il primo di una serie di fulmini. Mi scuoto dai brividi, ma stavolta non riesco a piangere. Le mie crisi inutili non hanno più benzina, e rimangono lì, in fondo ai miei polmoni, che per una volta non sono contratti dall'ansia.



Sono emozionata per quello che accadrà d'ora in poi a Eleanor. Grazie a tutti per il supporto, le stelline e i commenti! 

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